RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente F.L., con sentenza del 06.05.2013, confermava la sentenza del Tribunale di Monza del 21.12.2011 e condannava l'imputato al pagamento delle spese processuali del grado.
Il Tribunale dichiarava l'imputato responsabile del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, perchè, quale legale rappresentante della srl Termomeccanica FB, ometteva di versare, nel termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per l'anno 2006 e relative ad emolumenti per l'ammontare di Euro 83.153,00 (somma poi rettificata dal PM in Euro 73.916,00), condannandolo, senza concessione delle attenuanti generiche, alla pena di masi 6 di reclusione.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, F.L., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
a. Nullità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), dell'impugnata sentenza che articola una motivazione mancante, manifestamente illogica e contraddittoria in merito all'elemento soggettivo del reato contestato (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis), nonchè sulla rilevanza scriminante, o comunque ai sensi dell'art. 45 c.p., dello stato di illiquidità del soggetto tenuto al versamento.
Il ricorrente deduce che la sentenza impugnata avrebbe disatteso la doglianza di appello fondata sull'insussistenza del dolo, con una motivazione apparente in merito all'elemento soggettivo del reato di cui la difesa avrebbe fornito la prova.
L'imputato, nei motivi di appello, avrebbe rilevato di avere operato nel convincimento che le ritenute operate e non versate fossero di importo inferiore alla soglia di punibilità.
Sul punto la sentenza avrebbe motivato rilevando la consapevolezza di quanto pagato ai dipendenti. Il ricorrente sottolinea che tale consapevolezza nulla rileva ai fini del reato in contestazione.
Illogica e contraddittoria sarebbe poi la motivazione relativa all'incidenza dello stato di involontaria illiquidità dell'azienda.
b. Nullità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) e c), dell'impugnata sentenza per erronea applicazione della legge penale sul capo relativo alla mancata concessione sella sospensione condizionale e della non menzione della pena, per l'asserita esistenza di precedenti penali ostativi, in relazione agli artt. 99, 164 e 175 c.p., e agli artt. 445 e 460 c.p..
Il tribunale di primo grado avrebbe negato la sospensione condizionale della pena sul presupposto dell'esistenza di un precedente penale ostativo, tale da configurare addirittura una recidiva, non formalmente contestata.
L'imputato con l'appello avrebbe osservato che il precedente richiamato consisteva in una sentenza ex art. 444 c.p.p., per il reato di lesioni colpose. Pertanto si sarebbe trattato di un precedente non ostativo.
Sul punto la Corte distrettuale, senza emendare, avrebbe solo aggiunto che il diniego era giustificato dai precedenti specifici del 2010 e 2012 susssistenti a carico dell'imputato.
Detti precedenti sarebbero rappresentati da tre decreti penali di condanna per reati di omesso versamento di ritenute previdenziali e fiscali.
I reati che avrebbero causato i tre decreti, risalirebbero al 21.9.08, 31.12.08 e 27.12.09, tutti successivi, quindi, al reato per cui è causa, commesso nell'ottobre 2007.
Pertanto nessuna iscrizione sul certificato penale avrebbe potuto essere considerata ostativa al beneficio della non menzione.
c. Nullità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), dell'impugnata sentenza che articola una motivazione mancante o comunque carente sui motivi di appello in merito alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
La sentenza impugnata avrebbe motivato la mancata concessione dei benefici e delle attenuanti sul semplice presupposto dell'esistenza dei precedenti senza operare alcuna valutazione degli elementi soggettivi e oggettivi.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguente provvedimento di rito e di legge.
Comparso in udienza, il difensore dell'imputato ha anche sollevato una questione di illegittimità costituzionale dell'art. 10 bis, D.Lgs. nei medesimi termini in cui la stessa è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata dalla Corte di Appello di Milano con l'ordinanza datata 18.6.2014.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Preliminarmente va valutata la sollevata questione di legittimità costituzionale, che questo Collegio ritiene manifestamente infondata.
Ed invero, il ricorrente, sulla scorta della sentenza dell'8.4.2014 n. 80 - in GU la Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 17 del 16-4- 2014 e quindi produttiva di effetti dal 17.4.2014 - con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, puniva l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38, assume sussistere una situazione analoga in relazione al medesimo D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis. Richiama a tal proposito le pronunce favorevoli a tale tesi con cui la Corte d'Appello di Milano il 18.6.2014, il Tribunale di Verona il 21.7.2014 e il Tribunale di Treviso il 16.9.2014, hanno ritenuto la questione rilevante e non manifestamente infondata e hanno rimesso gli atti alla Corte Costituzionale.
Orbene, questa Corte ritiene, invece, che la proposta questione sia manifestamente infondata in ragione del fatto che la pronuncia che ha riguardato il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, sull'IVA, oggi indicato come tertium comparationis, si è fondata sull'esistenza, in un determinato arco temporale, di una diversa soglia di punibilità per il medesimo contributo per chi non avesse proprio dichiarato l'imposta dovuta o l'avesse dichiarata in maniera infedele e chi, dopo averla dichiarata, non la versava.
La norma incriminatrice di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, che delinea il reato di "omesso versamento di IVA", introdotta - al pari di quella di cui al successivo art. 10 quater (che punisce il delitto di "indebita compensazione") - dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 7, (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, contemplava, infatti, una soglia di punibilità di 50.000 Euro.
L'intervento - come ricorda la Corte Costituzionale nella sentenza 80/2014-si collocava nel quadro del processo di parziale revisione della strategia politico-criminale sottesa alla riforma penale tributaria realizzata dal D.Lgs. n. 74 del 2000: strategia consistente nella focalizzazione dell'intervento repressivo preminentemente sulla fase dell'"autoaccertamento" del debito di imposta, ossia della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Anteriormente alle modifiche legislative di cui poco oltre si dirà, però, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, richiedeva, per la punibilità dell'omessa dichiarazione (consistente nel fatto di chi, "al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte"), che l'imposta evasa fosse superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad Euro 77.468,53.
Ciò comportava una conseguenza palesemente illogica, nel caso in cui l'IVA dovuta dal contribuente si situasse nell'intervallo tra le due soglie (eccedesse, cioè, i 50.000 Euro, ma non i 77.468,53 Euro). In tale evenienza, infatti, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA, senza versare l'imposta dovuta in base ad essa, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, evadendo del pari l'imposta. Nel primo caso, infatti il contribuente avrebbe dovuto rispondere del reato di omesso versamento dell'IVA, stante il superamento della relativa soglia di punibilità; nel secondo sarebbe rimasto invece esente da pena, non risultando attinto il limite di rilevanza penale dell'omessa dichiarazione.
Analoga discrasia era ravvisabile relativamente alla dichiarazione infedele (consistente nel fatto di chi, fuori dei casi previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3, "al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi"), la cui punibilità presupponeva, ai sensi dell'art. 4, che l'imposta evasa risultasse superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad Euro 103.291,38.
Laddove, infatti, l'IVA da versare si collocasse tra l'uno e l'altro limite di rilevanza (50.000 e 103.291,38 Euro), fruiva di un miglior trattamento il contribuente che presentasse una dichiarazione inveritiera (non punibile per mancato superamento della relativa soglia), rispetto al contribuente che esponesse invece fedelmente la propria situazione in dichiarazione, salvo poi a non versare l'imposta di cui si era riconosciuto debitore.
Ebbene, era di un'evidenza palmare che tra i tre comportamenti (il non dichiarare affatto l'imposta dovuta, il dichiararla infedelmente e il non versarla dopo averla dichiarata) c'era un disvalore analogo, ed anzi, forse maggiore, per la prima ipotesi, quella di omessa dichiarazione, per la cui punibilità penale era prevista una soglia di punibilità maggiore.
Scriveva perciò la Corte Costituzionale nella sentenza 80/2014: "La lesione del principio di eguaglianza insita in tale assetto è resa manifesta dal fatto che l'omessa dichiarazione e la dichiarazione infedele costituiscono illeciti incontestabilmente più gravi, sul piano dell'attitudine lesiva degli interessi del fisco, rispetto all'omesso versamento dell'IVA: e ciò, nella stessa considerazione del legislatore, come emerge dal raffronto delle rispettive pene edittali (reclusione da uno a tre anni, per i primi due reati; da sei mesi a due anni, per il terzo). Il contribuente che, al fine di evadere l'IVA, presenta una dichiarazione infedele, tesa ad occultare la materia imponibile, o non presenta affatto la dichiarazione, tiene una condotta certamente più "insidiosa" per l'amministrazione finanziaria - in quanto idonea ad ostacolare l'accertamento dell'evasione (e, nel secondo caso, a celare la stessa esistenza di un soggetto di imposta) - rispetto a quella del contribuente che, dopo aver presentato la dichiarazione, omette di versare l'imposta da lui stesso autoliquidata (omissione che può essere dovuta alle più varie ragioni, anche indipendenti da uno specifico intento evasivo, essendo il delitto di cui all'art. 10 ter a dolo generico). In questo modo, infatti, il contribuente rende la propria inadempienza tributaria palese e immediatamente percepibile dagli organi accertatori: sicchè, in sostanza, finisce per essere trattato in modo deteriore chi - coeteris paribus - ha tenuto il comportamento maggiormente meno trasgressivo".
La Corte Costituzionale dunque, poneva rimedio all'evidente disparità di trattamento - esistente, va ribadito, per la medesima violazione tributaria - che si era registrata fino al 17.9.2011.
Come rilevato, infatti, dagli stessi giudici della Consulta, successivamente, proprio in ragione dell'evidente analogia di disvalore tra le varie condotte, lo stesso legislatore era corso ai ripari, con il D.L. n. 138 del 2011, art. 2, comma 36 vicies semel, aggiunto dalla legge di conversione n. 148 del 2011, rimuovendo la disparità di trattamento denunciata rispetto ai delitti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, (dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione) riducendo la soglia di punibilità dell'omessa dichiarazione a 30.000 Euro (lett. f) e quella della dichiarazione infedele a 50.000 Euro (lett. d): dunque, ad un importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a quello della soglia di punibilità dell'omesso versamento dell'IVA, rimasta per converso inalterata.
In tal modo, la distonia che aveva portato alla declaratoria di illegittimità della Consulta è venuta meno. Ma per espressa previsione del D.L. n. 138 del 2011, art. 2, comma 36 vicies bis, le modifiche in questione sono applicabili ai soli fatti successivi alla data di entrata in vigore della relativa legge di conversione (17 settembre 2011). Nè potrebbe essere altrimenti, discutendosi di modifiche di segno sfavorevole per il reo (all'abbassamento delle soglie corrisponde, infatti, un ampliamento dell'area di rilevanza penale).
La sentenza 80/2014, dunque, è stata motivata dall'esistenza per UVA, di diverse soglie di punibilità per i diversi reati di cui all'art. 10 ter, e al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5.
Per quanto riguarda la previsione di cui all'art. 10 bis, relativa all'omesso versamento delle ritenute operate quali sostituti d'imposta non c'è e non c'era, come per l'IVA, una diversa soglia di punibilità in ragione della loro mancata dichiarazione in quanto, pacificamente, ostandovi il chiaro dettato della norma, la dichiarazione modello 770 non può essere ricompresa negli artt. 4 e 5 D.Lgs..
La presentazione del modello 770 costituisce il momento consumativo del reato di omesso versamento da parte del sostituto d'imposta.
Il reato è integrato solo nel caso in cui il sostituto d'imposta rilasci le certificazioni, ma non provveda a versare le somme trattenute a titolo di ritenuta entro i termini per la presentazione della dichiarazione annuale; restano dunque escluse dall'applicazione della norma tanto l'omessa presentazione della dichiarazione annuale quanto il mancato rilascio della certificazione dell'avvenuto versamento.
2. Va ricordato che già con l'ordinanza n. 206 del 2003 la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza di analoga questione di illegittimità sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., parametrata alla fattispecie dell'omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro, prevista già come reato dal D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 2, (Norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1982, n. 516, art. 1, comma 1, abrogato dal D.Lgs. n. 74 del 2010, art. 25, e, come si ricorderà in seguito, poi successivamente reintrodotto.
In quell'occasione, i giudici delle leggi motivarono la propria decisione sulla base della disomogeneità dell'obbligo tributario gravante sul datore di lavoro rispetto all'obbligo di natura previdenziale, al quale è sottesa la rafforzata tutela degli interessi del lavoratore subordinato e della sua posizione contributiva, secondo il disposto degli artt. 1, 4, 35 e 38 Cost..
3. Se proprio oggi si vuole individuare, tuttavia, una situazione equiparabile a quella in esame, questa non va rinvenuta nell'omesso versamento dell'IVA dichiarata, bensì nel meccanismo di trattenimento e successivo versamento dei contributi previdenziali L. n. 638 del 1983, ex art. 2, comma 1 e 1 bis. (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dalla L. 11 novembre 1983, n. 638, art. 1, comma 1).
Ebbene, in relazione a tale norma, la Corte Costituzionale, di recente, con la sentenza n. 139 del 19.5.2014 ha ritenuto legittimo che soglie non ve ne siano, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Imperia.
Nell'occasione il giudice rimettente - investito, tra gli altri, di un processo penale nel quale il pubblico ministero presso il Tribunale di Imperia aveva disposto la citazione a giudizio di un datore di lavoro per omesso versamento all'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) di trattenute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti per un totale di 24,00 Euro - dubitava della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevedeva una soglia di punibilità, anche in quel caso richiamando la differenza con quanto stabilito in materia di IVA dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis.
A detta del rimettente, la lesione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., sarebbe stata provocato dalla mancata previsione di un'analoga soglia di punibilità nella disciplina censurata, con la conseguenza che era sempre punibile con la sanzione penale, il datore di lavoro che ometteva il versamento di ritenute previdenziali, anche di minima o irrisoria entità, mentre non era punibile il datore di lavoro sostituto di imposta che, in una situazione identica sotto il profilo della somma non versata e/o dell'entità dell'imponibile, non versava l'imposta delle ritenute fiscali operate.
Nell'occasione, però, la Consulta ricordava che nella citata ordinanza 206/2003 - in base a considerazioni confermate nella successiva ordinanza n. 139/2004 - aveva già avuto modo di soffermarsi diffusamente sulla disciplina in materia di repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi, indicata come tertium comparationis dal rimettente, stigmatizzandone la disomogeneità rispetto alla fattispecie di reato disciplinata dalla norma in questa sede censurata.
In ambedue le pronunce richiamate, tuttavia, i giudici della Consulta ricordavano di avere innanzitutto ribadito il principio secondo cui uno scrutinio che investa direttamente il merito delle scelte sanzionatorie del legislatore è possibile soltanto "ove l'opzione normativa contrasti con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza" (ordinanza 2006 del 2003 che richiama le sentenze n. 287 del 2001 e n. 313 del 1995 nonchè ordinanze n. 323 del 2002, n. 110 del 2002, n. 144 del 2001 e n. 58 del 1999; ordinanza n. 139 del 2004, richiamata dalla sentenza 139/2014).
Alla questione oggetto di scrutinio - si legge ancora nella sentenza della Corte Costituzionale n. 139/2014- ben si attagliano, inoltre, le considerazioni secondo cui negli obblighi tributari e gli obblighi previdenziali di cui si tratta, pur rientrando nell'ampia categoria delle obbligazioni pubbliche, sono correlati ad interessi diversi, rispettivamente presi in considerazione dai due diversi precetti costituzionali di cui agli artt. 53 e 28 Cost.", da ciò conseguendone che, coerentemente con l'ampia discrezionalità del legislatore nel modulare le scelte sanzionatorie, "per assicurare il rituale adempimento degli anzidetti obblighi sono prevedibili differenziati e specifici sistemi, nell'ambito di ciascuno dei quali la sanzione penale rappresenta soltanto uno dei mezzi cui il legislatore può ricorrere, sicchè la valutazione della ragionevolezza delle diverse opzioni sanzionatorie prescelte va effettuata nell'ambito di ciascun sistema... (ordinanza n. 139 del 2004)".
Nel caso in questione, si osservava da parte dei giudici delle leggi "il mancato adempimento dell'obbligo di versamento dei contributi previdenziali determina un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1, 4, 35 e 38 Cost.)" (ordinanza n. 206 del 2003 richiamata dalla sentenza 139/2014).
In altri termini, con la sentenza 139/2014, con un decisum assolutamente condivisibile, che porta a ritenere la manifesta infondatezza anche della questione oggi proposta in riferimento ad altra norma di legge, la Corte Costituzionale ribadisce il principio della discrezionalità delle scelte sanzionatorie operabili dal legislatore in relazione alla diversa natura dei tributi e al diverso disvalore delle varie condotte, valutate in ragione dei diversi interessi coinvolti.
4. Venendo ai motivi di ricorso sopra richiamati gli stessi appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente ripropone, infatti, in larga misura, doglianze che già aveva costituito motivo di appello della sentenza di primo grado.
Quanto al motivo di cui sub a., va ricordato che con l'entrata in vigore del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, venne abolita ogni sanzione penale per l'omesso versamento delle ritenute, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza dell'epoca (sez. 3, n. 3714 del 21.11.2000, Piacente, rv. 218183; sez. 3, n. 39178 del 5.10.2001, Romagnoli, rv. 220360).
Con la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 414, (Legge finanziaria per l'anno 2005), tuttavia, il legislatore inserì nell'impianto normativo del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (contenente la disciplina dei reati in materia di imposte dirette ed IVA), l'art. 10 bis, dal titolo "Omesso versamento di ritenute certificate", che così recita: "1. E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo di imposta".
Con l'introduzione di tale norma, dunque, venne ripristinata una sanzione penale in relazione al mancato versamento delle ritenute entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale, purchè fosse raggiunta una certa soglia di omissione (Euro 50.000) e si trattasse di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti.
Ebbene, sul punto, la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, poi ribadito dalla Sezioni Unite, che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, che pertanto è punito a titolo di dolo generico (così, in ultimo, Sez. Unite n. 37425 del 28.3.2013, Favellato, rv. 255759).
Per la commissione del reato, basta, in altri termini, la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, con la precisazione che tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia dei cinquantamila Euro, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore.
La prova del dolo è insita, in genere, nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonchè i versamenti relativi.
Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello della erogazione degli emolumenti ai collaboratori.
Ogni qualvolta il sostituto d'imposta effettua tali erogazioni, deriva, quindi, a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute all'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria.
Nella sentenza delle SS.UU. Favellato si ricorda anche che l'introduzione della norma di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, ha esteso l'esigenza di organizzazione dei propri pagamenti all'Erario da parte del sostituto d'imposta su scala annuale.
Non può, dunque - secondo l'interpretazione delle SS.UU. che è condivisa da questo Collegio - essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, fino al 2005) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (cfr. sul punto anche questa sez. 3, n. 37528 del 12.6.2013, Corlianò, rv. 257683).
Chiariti i principi giuridici di riferimento, si osserva che nel caso in esame non può certamente escludersi la consapevolezza dell'imputato, in quanto lo stesso era convinto di non superare la soglia di punibilità.
L'importo delle somme evase è stato determinato proprio facendo ricorso alla documentazione proveniente dall'imputato.
Il commercialista, teste della difesa, come si legge anche a pag. 1 della sentenza impugnata, aveva chiarito che il mancato versamento (non contestato se non nella misura che aveva dato luogo alla rettifica) era stato determinato dalla illiquidità della società conseguente ad uno "shock finanziario" subito nel 2004 e dalla prorità volontariamente data al pagamento degli stipendi ai dipendenti.
Per quanto riguarda la censura mossa alla sentenza sul richiamo che la stessa opera a quanto pagato ai dipendenti, è chiaro che si tratta di un errore materiale che non inficia la chiarezza della motivazione, dal cui sviluppo complessivo è evidente il reale riferimento ai compensi corrisposti a terzi.
Come più volte precisato da questa Corte di legittimità in relazione a fattispecie analoghe a quella per la quale qui si procede (cfr. questa sez. 3, n. 5467 del 5.12.2013 dep. 4.2.2014, Mercutello, rv. 258055; sez. 3, n.15416 dell'8.1.2014, Tonti, non massim.) rispetto a tale quadro giuridico e normativo, la situazione di colui che non versa l'imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute; successivamente con l'omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria; ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale.
Poichè il sostituto di imposta, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, deve, allorchè procede al versamento in favore di quest'ultimo, trattenere una percentuale di questo emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per poi versarlo all'erario entro il sedici del mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta, è stato condivisibilmente sottolineato nella sentenza 15416/2014 e va qui ribadito che gli spazi per ritenere l'assenza dell'elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità appaiono, all'evidenza, oggettivamente ristretti.
5. Va evidenziato che nell'ormai ricorrente casistica dei motivi dell'illiquidità che si assume essere incolpevole e che si chiede poter scriminare il mancato pagamento di tributi all'Erario vengono per lo più sottoposte all'attenzione di questa Suprema Corte, insieme o in alternativa: a) l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti; b) l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società; c) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato.
Ebbene, nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex se l'invocato stato di necessità ex art. 54 c.p..
Non lo è, in primis, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
L'art. 54 c.p., esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che con l'espressione "danno grave alla persona", il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana (cfr. sul punto la già citata sentenza di questa sez. 3 n. 1541674).
Pur essendo dunque fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 c.p., (cfr. sul punto sez. 1, 23 gennaio 1997, n. 4323, P.M. in proc. Baiocco ed altri, rv. 207434).
Analogamente nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, in ogni caso, dalla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall'Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perchè il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Erario proprio in relazione ai crediti tributari, sia perchè la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata.
In ultimo, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente pubblico, laddove l'interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per la prestazione di servizi.
La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei debiti che l'interessato può addurre nei confronti dello Stato o dell'ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d'impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l'obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l'Erario.
6. Va chiarito che il Collegio ritiene che tale assunto non sia incompatibile con la più recente precisazione fornita da questa stessa Suprema Corte secondo cui non è escluso che, in astratto, siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria (così sez. 3 n. 10813 del 6.2.2014, Servida, non massim.; conf. la cit. sez. 3, n. 5467 del 5.12.2013 dep. il 4.2.2014, Mercutello, rv.
258055).
E' tuttavia necessario, perchè in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario).
In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse ne-cessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (così la già citata e condivisibile sentenza 5467/14 di questa Sezione).
Nel caso in esame tali allegazioni, valutato quanto si legge nel provvedimento impugnato, non ci sono state e, correttamente, la Corte milanese rileva che "...la circostanza dell'illiquidità momentanea, solo genericamente riferita dal commercialista, per un verso è carente di prova dettagliata e d'altro canto non potrebbe avere efficacia scriminante, quanto meno in assenza di prova di attivazione anche personale da parte dell'imputato al fine di reperire le risorse necessarie per i pagamenti dovuti".
7. Manifestamente infondati, infine, sono anche i motivi di ricorso, in precedenza riassunti sub b. e c., riguardanti i benefici di legge e le circostanze attenuanti.
Per quanto riguarda la mancata concessione dei benefici di legge la Corte territoriale la ancora, così come il diniego delle circostanze attenuanti generiche, "ai precedenti specifici (2010-2012) gravanti a carico dell'imputato". Del resto, lo stesso giudice di primo grado, motivava il diniego con la "non modesta entità del fatto in relazione agli importi evasi" e poi parlava di "recidiva non formalmente contestata emergente comunque dal certificato penale in atti" con ciòriferendosi, evidentemente, ai precedenti specifici.
Ebbene, la motivazione appare logica e congrua in quanto, allorquando in data 21.12.2011, è intervenuta la sentenza di primo grado, il F. risultava già gravato, oltre che dal risalente precedente per lesioni colpose, dai precedenti specifici di cui ai decreti penali emessi dal GIP di Monza il 2.3.2010 (esecutivo il 24.9.2010) e il 9.6.2010 (esecutivo il 1.10.2010).
Ininfluente, seppur significativa, è la circostanza che, nelle more del giudizio di secondo grado, è poi intervenuto in data 26.1.2012, un nuovo decreto penale del Gip di Monza (esecutivo il 24.3.2012) per il medesimo reato.
Per quanto concerne, in ultimo, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche va evidenziato che la doglianza sul punto, sin dai motivi di appello, è sempre rimasta ad uno stadio di assoluta genericità, in quanto il ricorrente non indica l'elemento in ipotesi non valutato o mal valutato, mentre la corte territoriale ha valorizzato, a fondamento del diniego, i due elementi sopra ricordati.
Va rilevato in proposito che ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, come più volte ribadito da questa Corte, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione. (così questa sez. 3, n. 23055 del 23.4.2013, Banic e altro, rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonchè al suo negativo comportamento processuale).
8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la proposta questione di legittimità costituzionale.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2014