RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Ancona, con la sentenza del 25 gennaio 2018, ha confermato la condanna inflitta ad D.G.A. dal Tribunale di Ancona il 16 marzo 2016 alla pena di 9 mesi di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, per avere, quale liquidatore della Fast Service in liquidazione dal 18 giugno 2013, omesso di versare l'IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale presentata per il periodo d'imposta 2012, per l'importo di Euro 730.548.
2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona ha proposto ricorso per cassazione il difensore di D.G.A., deducendo 4 motivi:
- l'erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, e art. 42 c.p., in relazione all'elemento psicologico del reato;
- il vizio della motivazione in ordine all'elemento psicologico del reato poichè la Corte di Appello avrebbe acclarato lo stato di difficoltà della società ma non avrebbe escluso il dolo della condotta omissiva;
- il vizio della motivazione nella parte in cui la Corte di Appello non avrebbe ritenuto che la condotta tenuta dall'imputato provi l'assenza dell'elemento soggettivo: il ricorrente avrebbe creato una importante entrata derivante dal contratto di affitto di azienda il cui canone era destinato a risanare il debito con l'erario;
- il vizio della motivazione nella parte in cui la Corte di Appello avrebbe onerato il ricorrente di fornire la prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentire il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
2.1. Nei punti da 1 a 20 e da 23 a 25 sono riportati integralmente i motivi di appello, salvo qualche modifica puramente formale: si espongono i fatti secondo l'ottica difensiva; si richiamano alcune sentenze in tema di crisi di liquidità e responsabilità del legale rappresentante per i reati tributari. Quindi si critica la tesi della giurisprudenza sulla responsabilità del nuovo liquidatore della società ove non verifichi mediante il controllo delle scritture contabili la sussistenza o meno degli accantonamenti necessari al pagamento dei tributi in quanto ciò determinerebbe l'impossibilità di liquidare una società. La tesi della giurisprudenza genererebbe una differenza tra la responsabilità del liquidatore di nomina giudiziale rispetto a quello di nomina assembleare, con violazione dei principi di uguaglianza e del diritto di difesa.
2.2. La prima critica alla sentenza impugnata è rivolta al punto 22 del ricorso: la Corte di Appello avrebbe ritenuto sussistente la responsabilità oggettiva del ricorrente in violazione dello spirito della norma e degli artt. 3,24 e 27 Cost..
2.3. Nel processo sarebbe emersa l'assenza dell'elemento oggettivo - non sarebbe imputabile al ricorrente il mancato accantonamento delle somme da destinare al credito evaso - e di quello soggettivo; il reato sarebbe addebitabile al precedente amministratore che avrebbe omesso di accantonare le somme, avrebbe predisposto la dichiarazione IVA nel marzo 2013, avrebbe presentato la dichiarazione IVA entro il 16 giugno del 2013 mentre la nomina del dottor D.G. è del 18 giugno 2013.
Non sussisterebbe il dolo generico del reato perchè l'omesso versamento delle somme dovute a titolo di IVA era stato dovuto alle difficoltà finanziarie della società, esistenti sin dal momento del subingresso del liquidatore e non a lui imputabili. La Corte di Appello avrebbe ammesso lo stato di difficoltà della società ma l'avrebbe ritenuto insufficiente e avrebbe posto a carico dell'imputato un onere della prova generico, indeterminato ed indeterminabile.
2.4. Sarebbe stato poi posto un onere irragionevole per l'imputato laddove si afferma che avrebbe dovuto compiere azioni anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, non sussistendo nella norma un onere di tal tipo, definito comunque abnorme. La Corte di Appello non avrebbe poi tenuto conto che l'imputato avrebbe dovuto reperire la liquidità necessaria in appena sei mesi, avendo assunto l'incarico nel giugno 2013. Si afferma che ritenere integrato l'elemento psicologico del reato anche in presenza di una grave crisi aziendale sarebbe in contrasto con l'art. 27 Cost.; sarebbe punito un soggetto per un fatto a lui non rimproverabile e per una condotta inesigibile.
La Corte di Appello avrebbe omesso di valutare che la società era in crisi, che vi era assoluta mancanza di liquidità, che l'imputato si era adoperato per creare l'unica entrata possibile, che era in corso una procedura di esecuzione concordata finalizzata al pagamento del debito italiano.
Sussisterebbe un contrasto giurisprudenziale che imporrebbe la rimessione della questione alle sezioni unite.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
1.1. Il richiamo alla sentenza n. 12268/2013 non è pertinente: nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, l'imputato, già amministratore della società, era stato assolto perchè la dichiarazione ai fini dell'Iva era stata presentata dal liquidatore della società: l'imputato non era dunque più il legale rappresentante nè al momento della scadenza della data della presentazione della dichiarazione nè al momento del versamento dell'Iva.
1.2. Va rilevato che i motivi di ricorso non si confrontano con la motivazione della sentenza di appello sotto diversi profili.
In primo luogo, la Corte di appello di Ancona ha chiaramente rilevato che la dichiarazione ai fini Iva è stata predisposta e sottoscritta dal ricorrente: vi è dunque assoluta identità tra il soggetto che ha sottoscritto la dichiarazione e quello che ha omesso il versamento dell'Iva dovuta in base alla dichiarazione.
Tale circostanza di fatto non è contrastata con il ricorso in maniera specifica, con allegazioni che dimostrino l'erroneità del dato riportato.
1.3. Quanto a quella che la difesa ritiene essere la "creazione di un importante entrata derivante dal contratto di affitto di azienda il cui canone era destinato a risanare il debito con l'erario", si tratta di una affermazione meramente ripetitiva dell'atto di appello, senza alcun serio confronto con la motivazione della sentenza impugnata nella quale si rileva che il contratto di affitto di azienda è stato stipulato con una società facente capo allo stesso soggetto già amministratore della società posta in liquidazione; che il pignoramento presso terzi azionato da Equitalia riguarda una cartella esattoriale per debiti erariali pregressi e non per il debito Iva oggetto del capo di imputazione.
Le argomentazioni difensive, sulla creazione di una entrata per pagare il debito erariale, sono state smentite in fatto nella sentenza impugnata e meramente riproposte con il ricorso per cassazione. Sul punto pertanto il ricorso è inammissibile per il difetto del requisito della specificità estrinseca perchè l'impugnazione non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata.
1.4. La Corte di appello di Ancona non ha poi affermato o ritenuto che il reato sia punibile a titolo di responsabilità oggettiva: ha correttamente ritenuto il reato punibile a titolo di dolo generico.
1.5. Deve ribadirsi il costante orientamento della Corte di Cassazione, che trova il suo fondamento nella sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 255757), per il quale il reato ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000 è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte.
La prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto.
Il dolo del reato in questione è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità.
Il mancato pagamento alla scadenza del termine concretizza il dolo; come correttamente osservato da Cass. Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262, la scelta di non pagare l'imposta dovuta prova il dolo.
Le ragioni di tale scelta attengono infatti ai motivi ma non al dolo e non lo escludono.
2. Va poi rilevato che le contestazioni difensive sulla sussistenza del dolo generico sono collegate all'esistenza dello "stato di difficoltà finanziaria della società", esistente al momento del sub ingresso del liquidatore e non imputabile al ricorrente.
2.1. La tesi difensiva è però contraria all'orientamento della Corte di Cassazione: il ricorso è pertanto manifestamente infondato.
Va infatti ribadito il principio espresso da Cass. Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262, secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento di IVA (art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000), non rileva quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un'impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione, quando risulta che l'agente al momento del suo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità e non era nell'impossibilità a lui non ascrivibile di intraprendere alcuna iniziativa per fronteggiare tale situazione.
3. Il ricorso è manifestamente infondato laddove si critica la tesi della Corte di appello di Ancona sugli oneri di allegazione per l'imputato.
3.1. La corte territoriale ha infatti ripreso l'orientamento espresso dalla sentenza Mondini, prima citata, che occorre ribadire.
3.2. La Corte di Cassazione, con la sentenza Mondini, ha infatti rilevato come la giurisprudenza, sviluppando e riprendendo il tema della "crisi di liquidità" d'impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, abbia ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l'aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l'azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv.258055).
3.3. Orbene, per quanto prospettato nel ricorso, la crisi di finanziaria non era stata affatto improvvisa, ma anzi già nota in base alla precedente gestione.
3.4. Inoltre, il ricorso non si confronta minimamente con la motivazione della sentenza impugnata, nella quale si rileva che il ricorrente non solo non ha provato di aver posto in essere tutte le possibili iniziative per far fronte al dovuto, ma che mediante il fitto d'azienda ha provocato l'inattività della società; nè sono stati forniti elementi per valutare quali modalità siano state eseguite per la liquidazione, posto che assume indubbia rilevanza, sottolinea la corte territoriale, l'eventuale soddisfazione di creditori diversi dall'Erario. Il pagamento dei creditori, in luogo dell'erario, dimostra infatti che l'omesso versamento è il frutto di una scelta volontaria e deliberata.
Per altro, non sussistono difformità rispetto all'orientamento a cui si è aderito, non dovendo darsi seguito alla richiesta difensiva di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
4. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2019