RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 21 febbraio 2020, la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza del 24 settembre 2018, con cui il Tribunale di Firenze, per quanto in questa sede rileva, aveva condannato I.E. alla pena di 1 anno e 6 mesi di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, a lui contestato perché, quale legale rappresentante della società "Sistemi per la Meteorologia e l'Ambiente s.p.a", ometteva di versare l'imposta sul valore aggiunto relativa al periodo di imposta 2011, per l'importo complessivo di Euro 2.381.552,00; in (OMISSIS).
In favore dell'imputato veniva altresì riconosciuta la sospensione condizionale della pena, subordinata al pagamento, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, di una somma equivalente al profitto del reato, importo quantificato in Euro 2.381.552, del quale veniva altresì disposta la confisca.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello fiorentina, I., tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.
Con il primo, la difesa lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, osservando che, come precisato anche dalla giurisprudenza di legittimità, il liquidatore della società, in carica alla data di scadenza del termine per il versamento dell'imposta sul valore aggiunto, risponde del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, non in ragione del mero inadempimento all'obbligo di versamento, ma esclusivamente se e nella misura in cui, nel procedere ai pagamenti entro la data fissata per la dichiarazione annuale del sostituto d'imposta, abbia soddisfatto crediti considerati di ordine inferiore dalla legge, dovendosi cioè verificare se, alla scadenza del termine "lungo", vi fosse capienza dell'attivo rispetto all'ordine dei privilegi fissato dall'art. 2777 c.c. ss., tenendo conto del fatto che il credito Iva è collocato al numero 19 dell'ordine dei privilegi; non rileva dunque che il liquidatore coincida con l'amministratore in carica nel periodo precedente, assumendo esclusivamente rilievo il fatto che vi sia la disponibilità delle risorse non in relazione alla necessità del pregresso accantonamento, ma rispetto alla capienza delle risorse medesime con riferimento alla sussistenza di crediti di ordine superiore, pervenendosi diversamente a un'interpretazione abrogatrice del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, che definisce limiti e condizioni rispetto all'obbligo del liquidatore di soddisfare i debiti pregressi, dovendo l'obbligo di versamento dell'iva essere adempiuto secondo l'ordine di graduazione dei crediti.
Con il secondo motivo, oggetto di doglianza è la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, artt. 43 e 45 c.p., nonché la mancanza di motivazione con riguardo agli elementi relativi alla gestione aziendale, rilevandosi che la sentenza ha erroneamente valutato innanzitutto la rilevanza della crisi del gruppo I., generata dal progressivo deterioramento del settore dei servizi pubblici, che ha riguardato tutte le società del gruppo, come puntualmente indicato dal consulente tecnico della difesa, alla luce dei lunghi tempi di incasso da parte dei clienti pubblici e della conseguente riduzione da parte delle banche degli affidamenti concessi, in corrispondenza all'incremento delle esposizioni.
Parimenti illogiche sarebbero poi le valutazioni sulle condotte personali dell'imputato, avendo lo stesso curatore fallimentare confermato che non vi è stata alcuna irregolarità gestionale da parte del ricorrente, il quale non aveva la possibilità di reperire la liquidità necessaria per versare l'iva, dovendosi escludere la rilevanza penale dell'omissione allorquando la gestione aziendale nel periodo della dilazione del pagamento sia stata ragionevolmente orientata al mantenimento e al recupero dell'equilibrio finanziario dell'impresa, non potendosi sottacere che la crisi di liquidità che ha investito l'impresa è dipesa da circostanze imprevedibili che si sono manifestate in tempi brevissimi, tali da non consentire di assumere decisioni idonee a garantire l'adempimento tributario.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l'illegittima applicazione retroattiva del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, essendo stata disposta la confisca per equivalente fino alla concorrenza della somma di Euro 2.381.552, senza che tale norma fosse in vigore al momento della consumazione del reato.
Con il quarto motivo, è stata eccepita la nullità assoluta della sentenza impugnata per violazione del principio di legalità nella parte in cui, ai sensi dell'art. 165 c.p., è stato subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato, rilevandosi in proposito come la statuizione in oggetto si sovrapponga al recupero della somma nei confronti della società o dello stesso imputato, venendo dunque applicata una pena pecuniaria non prevista dalla legge.
Con il quinto motivo, la difesa prospetta l'erroneità della motivazione rispetto alla determinazione della pena, essendosi la Corte di appello limitata a confermare la decisione del Tribunale, senza considerare che la valutazione sull'entità dell'imposta evasa doveva essere operata con riferimento alla dimensione e al fatturato della società, non essendo stata viceversa valorizzata adeguatamente la circostanza che, fino all'insorgenza dello stato di crisi, l'imputato ha proceduto al puntuale adempimento di tutti gli obblighi fiscali e previdenziali.
Con memoria del 10 giugno 2021, l'avvocato Federico Massa, nel replicare alle conclusioni del Procuratore generale, ha insistito nell'accoglimento del ricorso, sviluppandone le argomentazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1. Iniziando dai primi due motivi, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, deve osservarsi che l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato rispetto al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter ascrittogli non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede. Ed invero sia il Tribunale che la Corte di appello hanno innanzitutto compiuto una disamina adeguata delle fonti dimostrative acquisite, richiamando gli accertamenti operati dall'Ufficio territoriale di Gioia del Colle dell'Agenzia delle Entrate del 15 aprile 2014 (veicolati nel fascicolo processuale su accordo delle parti), da cui è emerso che la S.M.A. spa (Sistemi per la meteorologia e l'ambiente), società con sede legale a Firenze e sede operativa in (OMISSIS) (Provincia di Bari), aveva omesso nel 2011 il versamento dell'iva dovuta, per l'importo di 2.381.552 Euro.
La S.M.A., avente ad oggetto l'attività di consulenza, assistenza tecnico-organizzativa, progettazione e realizzazione di sistemi per il monitoraggio ambientale e protezione del territorio, sia nei confronti di enti pubblici che di privati, apparteneva all'holding "Gruppo I.", riferibile al socio unico I.E., il quale è stato legale rappresentante della S.M.A. sino all'8 ottobre 2012, per poi assumere la veste di liquidatore della medesima società, di cui è stata in seguito dichiarato il fallimento con sentenza del Tribunale di Bari del marzo 2013. Ora, come osservato in modo pertinente nella sentenza impugnata, il capo di imputazione non contiene alcun cenno alla veste di liquidatore di I., del quale è stata richiamata nella contestazione la sola veste di legale rappresentante della S.M.A., per cui l'insistito richiamo all'operatività nel caso di specie del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 non appare decisivo, essendovi identità soggettiva tra la persona dell'amministratore e quella del liquidatore, nel senso che è stato lo stesso I. a far mancare alla liquidazione le somme necessarie che egli avrebbe dovuto accantonare in vista del versamento dell'iva, essendosi l'amministrazione della società prolungatasi sino all'8 ottobre 2012, ovvero fino a circa due mesi e mezzo prima della data di scadenza dell'obbligo di versamento (27 dicembre 2012).
Dunque, ha osservato la Corte territoriale (pag. 3 della sentenza impugnata), "non vi è stato subentro di un diverso soggetto, ma un mero cambio di casacca, per cui I. ha agito con dolo diretto, essendo pienamente consapevole, all'atto della assunzione della qualità di liquidatore, che l'iva relativa all'anno 2011 non era stata ancora versata e che non vi erano le risorse necessarie per l'adempimento".
Tale impostazione, tutt'altro che illogica, appare immune da censure, dovendosi a ciò unicamente aggiungere che, anche a voler valorizzare la sola veste di liquidatore dell'imputato, questi non andrebbe comunque esente da responsabilità. Occorre infatti evidenziare che questa Corte ha precisato di recente (cfr. Sez. 3, n. 20188 del 12/02/2021, Rv. 281340), con orientamento condiviso dal Collegio, che, in tema di reati tributari, il liquidatore di società di capitali subentrato dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, che ometta di versare all'Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima risponde del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, non trovando applicazione le limitazioni fissate dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, che fa espresso riferimento alle sole imposte sui redditi e non esclude implicitamente la riferibilità al liquidatore del citato art. 10 ter, disciplinando esclusivamente la fase della riscossione tributaria dell'obbligazione solidale, di natura civilistica, di quest'ultimo per il pagamento dei tributi non versati; si è in particolare osservato che l'applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, secondo cui "i liquidatori dei soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all'obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori, rispondono, in proprio, del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari", comporterebbe la configurabilità del reato unicamente ove il liquidatore abbia a distrarre l'attivo della società dal fine del pagamento delle imposte destinandolo a scopi differenti. Sennonché, oltre a doversi constatare che la norma valorizzata fa espresso riferimento alle sole imposte "sul reddito", va osservato, che, se da un lato, nessuna espressa esclusione della riferibilità dell'art. 10 ter cit. al liquidatore è rinvenibile nel sistema sanzionatorio penai-tributario, dall'altro neppure può ritenersi sussistente una esclusione implicita determinata dalla norma di cui all'art. 36 cit.; la stessa è infatti volta, per la sua collocazione e per il suo tenore, a disciplinare unicamente, nella fase della riscossione tributaria, l'obbligazione sondale, di natura civile, propria del liquidatore per il pagamento dei tributi non versati, obbligo condizionato ai presupposti ivi specificati, e senza che alcuna incompatibilità logico-giuridica possa trarsi tra il contenuto e il significato di detta previsione e la persistenza dell'obbligo di versamento, cui il liquidatore è tenuto secondo le regole generali degli art. 2487 c.c., comma 1, e il cui inadempimento è sanzionato, sul piano penale, dall'art. 10 ter.
Di qui la conclusione della richiamata pronuncia n. 20188 del 2021, Rv. 281340, secondo cui la responsabilità solidale in proprio del liquidatore di cui all'art. 36 si pone su un piano, evidentemente, non alternativo, ma, semmai, cumulativo rispetto a quello dell'obbligo penale, conclusione che assume una pregnanza ancora più rilevante nella vicenda in esame, nella quale, come detto, il liquidatore è la stessa persona che ha amministrato la società sia all'epoca della dichiarazione Iva, sia a quella in cui è stato omesso l'accantonamento delle somme dovute.
2. Sotto quest'ultimo aspetto, occorre evidenziare che i giudici di merito hanno ragionevolmente escluso la configurabilità di una situazione idonea a far ritenere inesigibile il versamento dell'imposta, compiendo una valutazione coerente con le coordinate interpretative elaborate sul punto da questa Corte.
Nella giurisprudenza di legittimità può ritenersi infatti consolidata l'affermazione (cfr. Sez. 3, n. 20266 dell'8/4/2014, Rv. 259190, Sez. 3, n. 8352 del 24/6/2014, Rv. 263128, Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Rv. 258055 e Sez. 3, n. 20725 del 27/3/2018, non mass.) secondo cui l'imputato può invocare l'assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto, occorrendo in definitiva la prova, nella vicenda in esame non raggiunta, che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
Ciò posto, le due conformi sentenze di merito, confrontandosi con i rilievi difensivi, hanno osservato che il ricorrente avrebbe potuto scongiurare l'omesso versamento dell'iva adottando iniziative adeguate, ad esempio agendo nei confronti della capogruppo per la restituzione dei finanziamenti operati in suo favore che, essendo pari a oltre 12 milioni di Euro, avrebbero potuto coprire ampiamente quanto necessario per il pagamento dell'iva, anche se restituiti solo in parte, potendo altrimenti I. cedere alla P.A. il credito, pari, secondo il consulente della difesa, a circa 10 milioni di Euro.
In definitiva, oltre a non aver accantonato nel 2011 l'iva pagata dai suoi debitori, l'imputato non ha dimostrato di aver impiegato la liquidità di cui disponeva nel 2012 per pagamenti indifferibili e indispensabili, avendo infatti maturato un debito anche nei confronti dei propri dipendenti; né infine risulta comprovata l'assunzione di iniziative riguardanti il proprio patrimonio personale. Sia rispetto all'ascrivibilità della condotta illecita all'imputato, sia in ordine alla esclusione dell'esistenza di una causa di forza maggiore, le valutazioni compiute dai giudici di merito risultano dunque razionali e coerenti con gli elementi probatori disponibili, per cui non vi è spazio per l'accoglimento delle censure difensive in punto di responsabilità, ripropositive di temi già adeguatamente trattati.
3. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.
All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale ha infatti legittimamente disposto la confisca ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, in via principale in forma diretta e, in subordine, per equivalente, a nulla rilevando che i fatti contestati risalgano al dicembre 2012, ovvero a epoca antecedente quella in cui è stato introdotto l'art. 12 bis (2015); sul punto, questa Corte ha infatti affermato, con orientamento cui si ritiene di dover dare seguito, che, in materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena, stante l'identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all'art. 12 bis, comma 2, del predetto D.Lgs., introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015), e la previgente fattispecie prevista dall'art. 322 ter c.p., richiamato dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, abrogata dal citato D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 14 (cfr. in termini Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Rv. 268386 e Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, Rv. 267764).
4. Inammissibile è anche il quarto motivo, rispetto al quale deve rilevarsi che, nell'atto di appello, nòn è stata formulata alcuna censura rispetto alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato (statuizione in sé non qualificabile come nulla), per cui, essendo nuova, è inammissibile la doglianza proposta per la prima volta in questa sede, ciò in coerenza con l'affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, Rv. 269632), secondo cui non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare, perché non devolute alla sua cognizione.
5. Anche nella parte relativa al trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata non presenta criticità, avendo la Corte di appello ritenuto adeguata la pena inflitta dal Tribunale (1 anno e 6 mesi di reclusione), avuto riguardo alla gravità del fatto, rilevata dall'entità dell'imposta evasa (oltre due milioni di Euro), e all'intensità del dolo, non avendo l'imputato neppure spiegato l'uso fatto della liquidità ricevuta nel corso del 2012, da lui non impiegata neppure per pagare completamente lo stipendio e il TFR ai dipendenti, circostanza questa che ha giustificato anche il diniego delle attenuanti generiche, non risultando dirimenti in tal senso né la condizione di incensurato di I., né il fatto, peraltro neanche sicuro, stante l'esistenza del contenzioso tributario menzionato dal curatore fallimentare, che egli abbia in passato adempiuto i propri obblighi tributari.
Anche in tal caso, in quanto sorretto da considerazioni non illogiche, il percorso argomentativo della sentenza impugnata non presta il fianco alle censure difensive, formulate invero in termini non adeguatamente specifici.
6. Ne consegue che il ricorso proposto nell'interesse di I. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone infine che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021