RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Brescia con sentenza del 19 maggio 2023 (motivazione depositata il successivo 17 agosto) ha rigettato la richiesta di revisione avanzata da Bi.An., in relazione alla sentenza, emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. dal Giudice per le indagini preliminari di Milano e divenuta irrevocabile il 9 novembre 2016, con la quale gli è stata applicata la pena complessiva di anni quattro e mesi due di reclusione. La pronuncia ha avuto ad oggetto (oltre ad altri delitti non contemplati nella richiesta di revisione) i reati di cui ai capi: 1) - artt. 117,317 cod. pen. (concussione a danno di Ba.Pi., Provveditore interregionale per le opere pubbliche della Lombardia e Liguria, in concorso con Ma.Ma. e Di.Gi., giudicati separatamente); 2) - artt. 56,117 e 317 cod. pen. (concussione tentata, a danno di Ar.Ma., Direttore generale del personale del Ministero per le infrastrutture e i trasporti, sempre in concorso con Ma.Ma. Di.Gi., giudicati separatamente); 3) - artt. 81 cpv., 353 commi 1 e 2, cod. pen. (turbata libertà degli incanti, in concorso con Pe.Gi., giudicato separatamente); 4) artt. 319,319 bis, 321 cod. pen. (corruzione passiva per atto contrario ai doveri d'ufficio sempre in concorso con Pe.Gi., in qualità di corruttore, giudicato separatamente); in relazione ad essi è stata - nella sentenza suindicata - ritenuta la continuazione con ulteriori reati (p. e p. dagli artt. 81, cpv. 476 e 479 cod. pen.) giudicati con sentenza di condanna a carico di Bi.An. ed emessa dalla Corte di appello di Milano in data 14 maggio 2019 (irrevocabile il 28 settembre 2019).
2. La richiesta di revisione, formulata ai sensi dell'art. 630 lett. a) cod. proc. pen., ha ad oggetto i capi 1), 2), 3) e 4). Il condannato ha evidenziato che i coimputati dei reati sub capi 1) e 2) (Ma.Ma. e Di.Gi.) sono stati assolti con sentenza definitiva "perché il fatto non sussiste" e Pe.Gi. (coimputato di Bi.An. dei reati riportati nei capi 3 e 4) è stato assolto dal primo reato "per non aver commesso il fatto" e dal secondo "perché il fatto non sussiste". Pertanto, ha dedotto Bi.An., sussiste radicale incompatibilità tra i fatti accertati nelle diverse sentenze, emergendo l'insussistenza dei fatti per i quali egli ha riportato sentenza di applicazione della pena.
3. La Corte di appello di Brescia ha rigettato la richiesta ritenendo che non vi sia incompatibilità tra i fatti accertati nelle due pronunce irrevocabili ma solo una diversa valutazione giuridica degli stessi, rilevando altresì che la piattaforma probatoria nei due giudizi non è stata la medesima. Ci in particolare: in riferimento alla concussione di cui al capo 1), in merito alle dichiarazioni rese nelle indagini dal teste Ba.Pi., non coincidenti con quanto riferito dal predetto nel dibattimento del giudizio a carico dei coimputati; in riferimento alla tentata concussione sub capo 2), in merito alle dichiarazioni testimoniali rese da Ar.Ma. che non era mai stato prima sentito nelle indagini.
4. Avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia, Bi.An. ha presentato, a mezzo del suo difensore, ricorso nel quale deduce un unico motivo nel quale eccepisce violazione della legge processuale e vizio di motivazione. In particolare, si rileva l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui essa ha ritenuto sussistente non un diverso accertamento dei fatti ma una mera differente valutazione giuridica dei fatti medesimi, contestandosi che il riferimento - operato dalla Corte di appello - alla pronuncia di questa Sezione, n. 15427 del 15 febbraio 2022 (dep. il successivo 28 marzo), sia perspicuo. Secondo il ricorrente, da tale sentenza si ricavano elementi nel senso della validità dei motivi posti a fondamento della richiesta di revisione, precisandosi che il caso allora deciso presentava differenze rispetto a quello in esame, considerato che quello non riguardava una sentenza di applicazione della pena ma un giudicato di condanna a cognizione piena - definito con il rito abbreviato - che si fondava su dichiarazioni accusatorie che non erano state utilizzate nel giudizio ordinario. Inoltre, si contestano le argomentazioni della sentenza impugnata relative alla asserita "diversa piattaforma probatoria" a fondamento delle due pronunce, rilevandosi che per i capi 3) e 4) è evidente che mentre il giudicato di condanna nei confronti di Bi.An. presuppone l'accordo con il corruttore Pe.Gi., in relazione al pactum sceleris con lo stesso intercorso e in base al quale Bi.An. avrebbe turbato la procedura di gara, l'assoluzione del privato corruttore è stata pronunciata in quanto si è esclusa la pattuizione illecita (e dunque sussiste inconciliabilità tra i fatti). In riferimento ai capi1) e 2) (rispettivamente, concussione - consumata - nei confronti del provveditore Ba.Pi. e concussione - tentata - a danni del direttore generale Ar.Ma.) si deduce che l'assoluzione dei coimputati è fondata sulla esclusione della valenza intimidatoria delle condotte poste in essere dall'autore materiale della condotta in ipotesi concussiva (Ma.Ma.) nei confronti dei predetti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato.
2. Va in primo luogo rilevato che, mentre l'assoluzione (in primo e secondo grado) dei concorrenti nei reati, per i quali è intervenuta la sentenza di "patteggiamento" nei confronti di Bi.An., è stata pronunciata con il rito ordinario e le relative sentenze sono connotate da una assai ampia motivazione, quella a carico di Bi.An., per la quale è chiesta la revisione, è stata emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. e, dunque, presenta una motivazione sintetica. Il Giudice del "patteggiamento" ha infatti rilevato che "sulla base degli atti non deve essere pronunciata una sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 C.P.P. esistendo sufficienti elementi circa la sussistenza dei fatti, la corrispondenza dei medesimi ai reati contestati e l'attribuibilità degli stessi all'imputato, con esclusione, quindi, dell'evidenza di prove di innocenza e non essendo sussistenti, al momento attuale, cause di estinzione del reato o difetti relativi a condizioni di procedibilità. Tali elementi emergono dagli atti di indagine e, segnatamente, dalla misura cautelare, dalle ordinanze del Tribunale del Riesame e dalle dichiarazioni rilasciate dall'imputato nell'incidente probatorio celebratosi in questo processo" (pag. 5).
2.1. Dalla peculiare natura della sentenza di "patteggiamento" sono state tratte conclusioni difformi in ordine alla possibilità o meno che essa sia oggetto di revisione ai sensi dell'art. 630 comma 1 lett. a) cod. proc. pen.
Un primo orientamento di questa Corte ha infatti ritenuto che "è suscettibile di revisione, a norma dell'art. 630, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., la sentenza irrevocabile di applicazione della pena emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. nei confronti del privato corruttore, nel caso di passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto a carico del pubblico ufficiale imputato del delitto di corruzione, posta l'inconciliabilità delle due pronunce per l'impossibilità di ipotizzare il predetto reato in assenza dell'attività coordinata del corruttore e del corrotto" (così, Sez. 6, n. 23682 del 14/05/2015, Russo e altro, Rv. 263842, relativa a sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del privato corruttore, mentre il pubblico ufficiale corrotto era poi stato assolto all'esito del giudizio ordinario). Sulla stessa linea, Sez. 5, n. 43631 del 05/10/2023, Riva, Rv. 285320 - 01, che ha giudicato "ammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con l'accertamento compiuto in giudizio nei confronti di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente, ma è necessario che l'inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione". In tale pronuncia si è precisato che "non può essere, invece, condiviso il difforme indirizzo secondo cui è inammissibile la revisione ex art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto pronunciata all'esito di una procedura priva della ricostruzione probatoria del fatto e dell'accertamento della responsabilità penale dell'autore (Sez. 1, n. 4417 del 17/10/2017, dep. 2018, Gjini, Rv. 272293; conf. Sez. 3, n. 13032 del 18/12/2013, dep. 2014, Tosi, Rv. 258687). Per un verso, invero, il riferimento alla sentenza di patteggiamento (e al decreto penale di condanna) introdotto nel corpo dell'art. 629 cod. proc. pen. dall'art. 3 della legge 12 giugno 2003, n. 134 non prevede alcuna limitazione correlata ai casi di revisione, mentre, per altro verso, è proprio la natura ontologicamente "debole" dell'accertamento sotteso alla sentenza di applicazione della pena a rendere più acuta l'istanza di garanzia assecondata dalla revisione, sicché dato normativo e considerazione sistematica convergono nel far ritenere la sentenza di patteggiamento suscettibile di revisione per inconciliabilità dei giudicati".
2.2. Secondo una difforme impostazione, invece, l'istituto della revisione per contrasto di giudicati non è riferibile alla sentenza di applicazione della pena su richiesta a norma dell'art. 444 cod. proc. pen. (così, Sez. U, n. 6 del 25/03/1998, Giangrasso, Rv. 210872; Sez. 1, n. 4417 del 17/10/2017, dep. 2018, Gjini, Rv. 272293). Più di recente, Sez. 6, n. 29682 del 29/09/2020, La Sala, Rv. 279631, ha ribadito tale conclusione precisando che "è inammissibile la revisione ex art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto pronunciata all'esito di una procedura priva della ricostruzione probatoria del fatto e dell'accertamento della responsabilità penale dell'autore".
3. Ritiene il Collegio che la pronuncia di patteggiamento possa rappresentare presupposto per la revisione della condanna, fondata sul contrasto di giudicati (nello stesso senso, di recente, si è espressa Sez. 6, n. 22283 del 07/02/2024, Zappini).
Il contrario principio fu affermato dalle Sez. U nella sentenza "Giangrasso", sopra citata. Essa, per venne emessa prima della modifica normativa, ad opera dell'articolo 3, comma 1, l.n. 134 del 2003, che ha previsto espressamente che anche le sentenze ex art. 444 cod. proc. pen. (e i decreti penali di condanna) sono soggette a revisione (art. 629 cod. proc. pen.); inoltre, l'intervento legislativo citato ha introdotto il "patteggiamento allargato", connotato da una serie di effetti penali (non previsti per il patteggiamento con pena detentiva entro i due anni) che lo hanno maggiormente assimilato alla ordinaria sentenza di condanna (art. 445 comma 1 cod. proc. pen.) in relazione al pagamento delle spese processuali e all'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, compresa la confisca in tutte le sue forme; statuizioni, queste, che presuppongono un vero e proprio "accertamento del fatto".
E non a caso, dopo la legge n. 134 del 2003, le Sez. U hanno ritenuto che la sentenza di patteggiamento (sia allargato che ordinario), in ragione dell'equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna e in mancanza di un'espressa previsione di deroga, costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell'art. 168, comma primo, n. 1 cod. pen., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa (così, Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, Diop Rv. 233518 - 01; in senso conforme v. Sez. 1, n. 4241 del 19/10/2007, Coltri, Rv. 237970 - 01).
3.1. Proprio le Sezioni unite "Diop" hanno preso in esame (alla fine del par. 11 del Considerato in diritto) il principio posto dalla sentenza "Giangrasso", reputandolo non condivisibile in quanto " in tema di revisione le Sezioni unite hanno esplicitato il rifiuto del principio di equiparazione, per giunta direttamente ricollegandolo al profilo negoziale, quasi che il corredo di incentivi premiali conseguenti alla "rinuncia a contestare l'accusa" implichi la forzata rimozione all'accesso ad ogni strumento impugnatorio in grado di restituite la verità dei fatti nella sua concreta effettività. Una soluzione di davvero poco agevole comprensione e che si rivela doppiamente contrastante con i principi costituzionali sopra ricordati; per un verso, perché il regime convenzionale non può nell'ottica della Corte, costituire il presupposto per una decisione "in ipotesi", ontologicamente incompatibile con il mezzo straordinario di impugnazione; per un altro verso, perché è l'assetto negoziale a supplire - salvo i limiti derivanti dal controllo da parte del giudice della cognizione - a verifiche postume rigorosamente procedimentalizzate in grado di dissolvere il patto e di ricondurre il giudicato alla realtà probatoria accertata nel postgiudicato". Sempre la sentenza "Diop" ha evidenziato ulteriori profili dai quali trova conferma la conclusione secondo cui anche nel patteggiamento è presente un "accertamento dei fatti", quali: la declaratoria di falsità dei documenti ex art. 537 cod. proc. pen. (da disporre anche nella sentenza emessa ex art. 444 cod. proc. pen.: da ultimo, Sez. 4, n. 5322 del 21/12/2016 - dep. 2017, Caruso, Rv. 26902101); l'applicazione di sanzioni amministrative probatoriamente connesse con il reato, secondo la regola generale di cui all'art. 24 L.n. 689 del 1981 (applicazione riconosciuta legittima da Sez. U, n. 8488 del 27/05/1998, Bosio, Rv. 210981 - 01; principio, questo, più di recente confermato in quanto "nel patteggiamento, anche se non si fa luogo all'affermazione della responsabilità dell'imputato, si procede comunque all'accertamento del reato, sia pure "sui generis", fondato sulla descrizione del fatto reato, nei suoi elementi, soggettivo ed oggettivo, contenuta nel capo d'imputazione, e non contestata dalle parti nel formulare la richiesta": così, Sez. 4, n. 50060 del 04/10/2017, Mucci, Rv. 271326 - 01).
Pertanto, l'espressa previsione legislativa - che non esclude dalla possibile revisione delle sentenze di applicazione della pena alcuna delle ipotesi disciplinate nell'art. 630 cod. proc. pen. - e l'accertamento contenuto in dette sentenze (ancorché basato sugli atti di indagine e caratterizzato "in negativo", ossia dall'assenza dei presupposti per il proscioglimento ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.) consentono di ritenere corretta la tesi secondo cui le sentenze di patteggiamento possono essere soggette a revisione anche ai sensi della lett. a) dell'articolo citato.
4. Ciò premesso, è però necessario valutare se, in considerazione della sopra indicata sentenza "Giangrasso", debba trovare applicazione la disposizione prevista dall'art. 618, comma 1 bis, cod. proc. pen., inserita dall'art. 1, comma 66, legge 23 giugno 2017, n. 103, con conseguente rimessione della questione alle Sezioni Unite. Come è noto, con tale disposizione si è introdotta, al fine di rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, un'ipotesi di rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite che - si è precisato - trova applicazione anche con riferimento alle decisioni intervenute precedentemente all'entrata in vigore della nuova disposizione in quanto "il tenore generale della norma e la ratio ispiratrice appena ricordata consentono di ritenere, in mancanza tra l'altro di una apposita disciplina di carattere intertemporale, applicabile sin da subito la nuova disposizione posto che il valore di "precedente vincolante", tale da imporre obbligatoriamente alla sezione semplice la rimessione del ricorso, è identificabile con la sola peculiare fonte di provenienza della decisione, indipendentemente dalla collocazione temporale di quest'ultima, se cioè ante o post riforma" (così, Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Pm in proc. Botticelli, Rv. 273549 - 01).
4.1. Ritiene il Collegio che, nel caso in esame, tale vincolo non sussista. Infatti, come si è detto, dopo la indicata pronuncia delle Sezioni Unite "Giangrasso" - che ha affermato in principio qui non condiviso - il legislatore è intervenuto modificando, tra l'altro, l'art. 629 cod. proc. pen., con l'inclusione tra i provvedimenti giurisdizionali soggetti a revisione delle sentenze di "patteggiamento" e dei decreti penali di condanna. E che la legge n. 134 del 2003 sia stata sotto questo profilo - adottata proprio per superare il contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità risulta, in modo evidente, dalla discussione finale del provvedimento normativo avvenuta nella seduta del Senato del 26 aprile 2003. In tale sede, infatti, l'Aula respinse un emendamento, a firma della senatrice Finocchiaro e altri, che intendeva limitare la possibilità di sottoporre a revisione la sentenza di "patteggiamento", introducendo all'art. 629 il comma 1-bis, in base al quale "la disposizione del comma 1 si applica anche alle sentenze pronunciate ai sensi dell'articolo 444, comma 2, nei casi previsti dalle lettere b), c) e d) dell'articolo 630", e in tal modo escludendo proprio il caso di "contrasto di giudicati" (lett. a). In particolare, durante la discussione dell'emendamento - come detto, poi respinto dal Senato - il relatore del provvedimento normativo, senatore Niccolò Ghedini, intervenne in senso contrario rilevando come "... la Camera, all'unanimità, aveva già votato l'articolo così come quest'oggi viene riproposto, che prevedeva l'inserimento al comma 1 dell'articolo 629 del codice di procedura penale anche della possibilità di revisione delle sentenze emesse ai sensi dell'articolo 444, comma 2. Ciò non già perché il legislatore l'avesse vietato, ma perché lo ha vietato una certa interpretazione delle Sezioni unite della Cassazione. Pertanto, si era ritenuto all'unanimità di far sì che, quando vi fosse un contrasto di giudicati tra una sentenza e una sentenza di patteggiamento, vi fosse la possibilità di ricorrere alla revisione. Non mi è dato comprendere le ragioni per le quali improvvisamente si dovrebbe consentire la possibilità di revisione, tranne che per le ipotesi di cui all'articolo 630, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza non si concilino con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile (è il caso straordinariamente più grave in cui la possibilità di revisione si appalesa più prepotente). Mi pare che l'emendamento in esame vada proprio tecnicamente respinto".
Il mutamento del quadro normativo - come si è visto motivato proprio dall'intento del legislatore di superare una contraria interpretazione delle Sezioni Unite - evidenzia l'insussistenza nella specie di un "vincolo di rimessione", atteso che l'art. 618, comma 1 bis, cod. proc. pen. non può imporre di ritenere cristallizzata l'interpretazione del Supremo organo nomofilattico (superabile solo con un'ulteriore sottoposizione al medesimo della questione in precedenza decisa in un certo senso) anche laddove la disciplina legislativa sia radicalmente mutata e abbia quindi superato il principio dettato dalle Sezioni Unite.
5. Ritenuto, dunque, che le sentenze rese ex art. 444 cod. proc. pen. possono essere soggette a revisione, il ricorso risulta, come già indicato, parzialmente fondato.
5.1. In merito ai capi 1) e 2) (le due concussioni, consumata e tentata), le relative imputazioni hanno contestato a Bi.An. di avere "richiesto l'intervento del senatore Ma.Ma. ed essendone il primo beneficiario", mentre le condotte concussive tipiche sono ascritte al Ma.Ma. (quale autore delle stesse) e a Di.Gi. (segretario di questi e che, compulsato da Bi.An., faceva intervenire il senatore). Gli "obiettivi" dell'intervento erano, nel primo caso, attribuire nuovamente a Bi.An. la funzione di Responsabile unico del procedimento (Rup) in una serie di appalti per lavori da svolgere in istituti scolastici e, nel secondo caso, evitare che venissero adottati dal MIT provvedimenti di trasferimento di Bi.An. in conseguenza del rinvio a giudizio disposto nei confronti del predetto dinanzi al Tribunale di Sondrio.
I due coimputati sono stati assolti, già in primo grado, dalle contestazioni di concussione. Quanto al capo 1) - secondo quanto precisato a pag. 26 dalla sentenza della Corte di appello di Milano del 14 marzo 2022, da ora solo sentenza di appello - il Tribunale, pur avendo rilevato "che le decise sollecitazioni di Ma.Ma. e Di.Gi. avevano effettivamente dispiegato una concreta efficacia causale sulla restituzione a Bi.An. del ruolo di RUP nella quasi totalità degli incarichi relativi alle scuole", aveva concluso che "non è stato adeguatamente provato che quelle richieste fossero state presentate con la prospettazione di un male ingiusto, ossia con la minaccia della revoca delle convenzioni da parte dei Comuni. La serena interpretazione delle intercettazioni acquisite... ha portato infatti il Collegio giudicante ad affermare che il ricorso a quella prospettazione (ossia la revoca delle convenzioni stipulate dai Comuni, quale "minaccia" nei confronti del Provveditore) era sicuramente presente nella strategia degli imputati e dello stesso Bi.An., difettando tuttavia la compiuta dimostrazione che quella evenienza fosse stata effettivamente rappresentata a Ba.Pi.". In riferimento all'altra contestazione di concussione, tentata e a danno di Ar.Ma., si è evidenziato (sentenza di appello, pag. 28) che"... il contenuto dell'interferenza di Ma.Ma., per come emergente dall'unica sollecitazione telefonica del 22.1.2014 con il direttore generale Ar.Ma., non è apparsa caratterizzata da alcuna minaccia, neppure implicita, idonea ad annullare la libertà di determinazione del destinatario, rappresentato da un alto funzionario statale prossimo alla pensione e che aveva dimostrato in quella interlocuzione di saper gestire con esperienza le richieste provenienti dal mondo politico". Pertanto, esclusa la ricorrenza dei presupposti della fattispecie di cui all'art. 317 cod. pen. (nel secondo caso tentata), in primo grado si era posto il problema della eventuale riqualificazione in termini di induzione indebita, riqualificazione però esclusa per l'assenza di "una prospettazione di vantaggi in favore di Ba.Pi. e di Ar.Ma., né risulta che questi ultimi, nell'assecondare quelle richieste, avessero perseguito un qualche tornaconto personale", così come sono stati ritenuti insussistenti gli elementi costitutivi del reato di abuso di ufficio, ipotizzato, in via subordinata, dal Pubblico ministero nel dibattimento di primo grado" (pag. 29 s.).
5.2. Avverso dette assoluzioni il Pubblico ministero ha proposto appello, nel quale ha tra l'altro invocato, ex artt. 238 bis e 192, comma 3, cod. proc. pen., proprio il giudicato formatosi nei confronti del concorrente Bi.An., che aveva per tali reati "patteggiato la pena". Il gravame è stato respinto dalla sentenza di appello (pag. 172 ss.) che, in via preliminare, ha rilevato come la pronuncia a carico del Bi.An. - pur utilizzabile nei confronti dei coimputati - non apportasse alcun concreto elemento nei confronti dei predetti rilevandosi "l'insussistente portata accusatoria delle dichiarazioni di Bi.An., non rinvenendosi invero alcuna una plausibile valenza probatoria nelle trascrizioni riportate nell'atto di impugnazione del PM". Nel merito delle due imputazioni, la sentenza di appello ha poi confermato l'assoluzione disposta in primo grado, osservando che il presunto concusso Ba.Pi. "non ha riferito in dibattimento di alcuna costrizione subita da Ma.Ma. (o dal Di.Gi. per conto di lui)" avendo il predetto testimone "recisamente escluso qualsiasi metus nei suoi confronti assumendo la responsabilità esclusiva delle proprie scelte organizzative ripristinando Bi.An. nella funzione di RUP per molte di quelle opere" (pag. 173 s.). Anche per quel che riguarda l'altra contestazione - a danno del Direttore generale del personale del MIT - la Corte territoriale ha confermato la correttezza della pronuncia ampiamente liberatoria del Tribunale, rilevando tra l'altro che "Ar.Ma., deponendo come testimone, dopo che sorprendentemente non era mai stato escusso nel corso delle indagini preliminari, ha affermato serenamente di non avere mai subìto nell'occasione alcuna coartazione e comunque di non essere in quel momento nelle condizioni di essere vittima di pressioni di sorta, attendendo di essere collocato in congedo pensionistico il mese successivo" (pag. 180).
È stato quindi accertato, con sentenza irrevocabile, che in entrambi i casi i fatti contestati non sussistono per difetto dell'elemento costitutivo della fattispecie di concussione (per il capo 2, tentata) ossia la condotta costrittiva in ipotesi posta in essere da Ma.Ma. e Di.Gi., condotta recisamente esclusa dai due pubblici funzionari (Ba.Pi. e Ar.Ma.) che secondo l'imputazione ne sarebbero stati vittime.
5.3. La sentenza di appello ha poi riformato la condanna pronunciata in primo grado a carico di Pe.Gi. (quale privato corruttore) nella fattispecie di cui al capo 4) di cui Bi.An. risponde nella qualità di pubblico ufficiale corrotto (la contestazione ha ad oggetto la promessa da parte del Pe.Gi. a Bi.An. - in cambio del turbamento della gara contestato al capo 3 - di un colloquio di lavoro per Ma.Na., "protetta" del Bi.An., finalizzato all'assunzione della donna presso l'impresa di Pe.Gi.). Al riguardo, si è rilevato (pag. 191) che "la tipicità dei reati di corruzione è segnata dalla necessaria sussistenza (di cui occorre acquisire compiuta dimostrazione) di un vero sinallagma. Per cui tra l'utilità ottenuta o almeno promessa al pubblico ufficiale e l'atto amministrativo oggetto di mercimonio deve intercorrere un rapporto di stretta corrispettività che rappresenta l'adempimento di un accertato patto corruttivo", concludendosi - pag. 192 - che nel caso in esame non era possibile "ravvisare nella condotta dell'appellante quelle caratteristiche di sinallagmaticità, proporzione e retribuitività della prestazione del privato corruttore"; e ciò in quanto nonostante la "pervicace insistenza del Bi.An. nel sollecitare a Pe.Gi. il colloquio di lavoro", questi aveva a lungo disatteso le richieste per poi investire del compito una collaboratrice che "frettolosamente aveva adempiuto all'incarico senza neppure incontrare di persona la giovane donna e precludendo qualsiasi possibilità della futura collaborazione lavorativa".
6. La Corte di appello di Brescia, a fronte del surriportato giudicato di assoluzione dei coimputati, ha ritenuto insussistenti i presupposti per la revisione dal momento che "il concetto di inconciliabilità tra le sentenze irrevocabili deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non già alla contraddittorietà logica a le diverse valutazioni "in diritto" effettuate dalle due decisioni, ma concernenti gli stessi fatti storico-naturalistici: pertanto tale ipotesi di revisione è ammessa soltanto quando la sentenza di cui si chiede la revisione abbia accertato "fatti storici" inconciliabili con quelli ritenuti da altra sentenza". A tal fine ha richiamato pronunce di questa Corte, tre le quali, in particolare, Sez. 6, n. 16477 del 15/02/2022, Frisullo, Rv. 283317 che "ha ribadito tale principio di diritto già sopra enunciato in un caso abbastanza simile a quello in esame".
Dunque, il profilo controverso attiene alla nozione di "fatto" da porre a base del giudizio di inconciliabilità tra le due pronunce.
7. Questa Corte ha affermato che, in materia di revisione, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze e non alle divergenti valutazioni in ordine ad elementi normativi della fattispecie, fondate sulla medesima ricostruzione in punto di fatto (Sez. 6, n. 34927 del 17/04/2018, Delbono, Rv. 273749).
Si tratta, tuttavia di una conclusione che, come rilevato da Sez. 6, n. 22283 del 07/02/2024, Zappini, nella sua assolutezza e ferma restando la necessità di distinguere tra l'inconciliabilità di fatti e la divergenza di valutazioni giuridiche - che resta fuori da perimetro censurabile attraverso la revisione - non è condivisibile. Ai fini della revisione, il giudizio di inconciliabilità non può infatti esaurirsi nella verifica di un mero accadimento storico, che è dato di per sé neutro, implicando un'analisi che va condotta alla stregua degli elementi che, sulla base della contestazione, concorrono a delinearne la illiceità.
7.1. Pertanto, va rilevato che nei delitti che presentano una particolare connotazione della condotta posta in essere dal soggetto agente, quale la concussione, non può ritenersi estranea al "fatto, accertato dalla sentenza che funge da presupposto per la revisione della condanna, l'assenza di efficacia costrittiva delle azioni poste in essere dal pubblico ufficiale; altrimenti argomentando, si arriverebbe alla conclusione - illogica - secondo cui se viene accertata l'esistenza di interlocuzioni tra i due soggetti, del tutto lecite e senza che vi sia stata alcune minaccia, non sarebbe possibile la revisione della condanna che, al contrario, abbia ritenuto che la minaccia (indefettibile elemento costitutivo della fattispecie ex art. 317 cod. pen.) vi sia stata. In tal modo, invero, si produrrebbe un'evidente inconciliabilità logico giuridica tra i "fatti" rispettivamente accertati nei due procedimenti (in uno dei quali si è verificata la mancanza di condotta costrittiva mentre nell'altro tale condotta è stata ritenuta esistente). In tal senso, si possono anche richiamare le medesime conclusioni cui è pervenuta la sentenza n. 200 del 2016 della Corte costituzionale nella quale ai fini del divieto di bis in idem si è affermato che l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale).
8. Il Giudice della revisione ha escluso la sussistenza del contrasto di giudicati anche in riferimento ai capi 3 (turbativa d'asta) e 4 (corruzione) entrambi contestati al ricorrente in concorso con Pe.Gi., rilevando, quanto al primo, che l'assoluzione di quest'ultimo era stata pronunciata "per non aver commesso il fatto" il che evidenzia che non vi è alcun contrasto con l'accertamento della responsabilità di Bi.An., essendosi solo escluso il contributo concorsuale di Pe.Gi. alla commissione del fatto. Quanto alla corruzione, viene ribadito il ragionamento relativo all'assenza di una reale inconciliabilità tra "i fatti accertati" nelle due sentenze che rimangono immutati, avendo la pronuncia assolutoria solo valutato "questi fatti come prove non sufficienti a ritenere la sussistenza di un patto corruttivo a schema sinallagmatico tra Bi.An. e Pe.Gi., il che costituisce una valutazione giuridica".
8.1. In riferimento al delitto di corruzione si tratta di motivazione non adeguata. L'esistenza del pactum sceleris costituisce il prioritario elemento costitutivo della fattispecie di corruzione e l'esclusione, in fatto, della sua esistenza da parte della sentenza assolutoria non può essere confinato nell'ambito di "una diversa valutazione giuridica"; altrimenti argomentando, anche in questo caso, l'unica inconciliabilità rilevante ex art. 630 lett. a) cod. proc. pen. sarebbe rappresentata dall'esclusione di qualsivoglia contatto tra pubblico ufficiale e privato.
9. La Corte di Brescia, in riferimento alle due fattispecie di concussione ascritte al Bi.An. a titolo di concorso con Ma.Ma. e Di.Gi., ha ritenuto di rigettare l'istanza di revisione anche perché "la decisione assolutoria (dei coimputati) ha trovato fondamento in una piattaforma probatoria quantomeno parzialmente diversa da quella posta a base della sentenza di cui si chiede la revisione".
9.1. La sentenza impugnata precisa che, in merito al capo 1), le dichiarazioni rese dal Ba.Pi. in dibattimento non sono del tutto corrispondenti a quanto dallo stesso riferito nel corso delle indagini, in particolare in tre verbali di Sit nelle quali il pubblico funzionario ha riferito di "pressioni ricevute dal Sen. Ma.Ma. che ricordo essere state molto decise", che Bi.An. gli prospettò il rischi che, ove non gli fossero restituiti gli incarichi di Rup, "gli enti convenzionati con il Provveditorato per l'esecuzione di potessero revocare le convenzioni" e che "in queste circostanze ho capito che l'onorevole Ma.Ma. supportava con forza l'operato di Bi.An.". Sul punto, va però rilevato che tali dichiarazioni (come conclude la sentenza impugnata) possono essere connotate da "una certa diversità" rispetto a quelle dibattimentali (nelle quali, come detto, Ba.Pi. ha escluso qualsiasi minaccia costrittiva), ma da esse non emergono elementi tali da porle in contrasto con la prova dibattimentale che ha fondato l'assoluzione dei coimputati.
9.2. Quanto al capo 2), la Corte della revisione indica che l'assoluzione si è basata essenzialmente sulle prove orali, tra cui in particolare la testimonianza del Direttore generale Marcello Ar.Ma. mai sentito prima ("sorprendentemente", a giudizio della sentenza di appello: pag. 180), mentre il "patteggiamento" si fonderebbe su due intercettazioni telefoniche intercorse, la prima, il 22 gennaio 2014, tra Ar.Ma. e Ma.Ma., nella quale quest'ultimo chiedeva al Direttore del personale del MIT di non trasferire Bi.An. perché non ne sussistevano i presupposti in quanto non era ancora intervenuto a carico del predetto un rinvio a giudizio, invece disposto in un procedimento penale a Sondrio da circa un anno. A tale riguardo, la sentenza di appello ha preso in esame detta conversazione, evidenziando però che "l'appellante (ossia il PM) ha ravvisato un tono perentorio dell'uomo politico che francamente non risulta dall'integrale trascrizione". La seconda conversazione, avvenuta il 28 febbraio 2014 tra Bi.An. e Di.Gi., è stata anch'essa valutata dalla sentenza di appello, che l'ha "interpretata in chiave ancora dubitativa di tale conoscenza" (dell'intervenuto rinvio a giudizio del Bi.An. da parte di Ma.Ma. e Di.Gi.).
9.3. Dunque, gli elementi probatori indicati nella sentenza impugnata sono stati valutati anche dalla sentenza di appello che ha confermato l'assoluzione dei coimputati delle due fattispecie di concussione; sentenza di appello che, in pi si è potuta avvalere ai fini della ricostruzione dei fatti della deposizione del direttore generale Ar.Ma. che, in modo effettivamente poco usuale trattandosi del soggetto che sarebbe stato vittima della tentata concussione, non era stato sentito nelle indagini.
10. Pertanto, in relazione ai capi 1, 2 e 4, la decisione della Corte di Brescia non può essere condivisa. Si tratta, invero, di uni erronea valutazione che discende dalla limitata accezione del "fatto accertato" che la sentenza impugnata ha posto a fondamento della decisione e in cui la selezione del fatto rilevante ai fini del giudizio di inconciliabilità è rimasta confinata ai meri accadimenti storico-naturalistici (in particolare l'esistenza di contatti posti in essere, in favore di Bi.An., da Ma.Ma. con Ba.Pi. e Ar.Ma., nonché i rapporti pacificamente intercorsi tra Bi.An. e Pe.Gi.), accadimenti slegati dalla loro dimensione giuridica laddove, secondo le stesse contestazioni, ciò che rileva è l'esistenza - per i capi 1 e 2 - di una condotta costrittiva e - per il capo 4 - di un illecito sinallagma nel quale il pubblico ufficiale avrebbe posto in essere un atto contrario ai doveri di ufficio in cambio della possibilità di assunzione di, una sua "protetta". Elementi, questi, che la sentenza della Corte di appello di Milano ha ritenuto insussistenti.
11. Invece, per il capo 3) (turbativa d'asta), come correttamente rilevato dalla Corte della revisione, l'assoluzione del concorrente Pe.Gi. per non aver commesso il fatto non esclude affatto la sussistenza della condotta illecita ex art. 353 cod. pen. a carico di Bi.An. A questi è stata contestata l'illegittima esclusione, effettuata nella sua qualità di Rup, di un concorrente dalla gara - tale Bo., che aveva presentato un'offerta più vantaggiosa per la pubblica amministrazione - alla quale era interessato Pe.Gi.; esclusione motivata artificiosamente attraverso il mezzo fraudolento rappresentato dalla dedotta mancata allegazione di un documento che invece il concorrente aveva regolarmente prodotto in altra procedura e che era dunque già in possesso dell'ufficio del Bi.An.. Invero, si tratta di una imputazione nel cui ambito l'esclusione della responsabilità, ascritta a titolo di concorso, del Pe.Gi. non incide sull'accertamento del fatto illecito, come innanzi descritto, che viene indicato come commesso esclusivamente dal Bi.An. (rispondendo Pe.Gi. a titolo di concorso morale). Peraltro, la sentenza di appello che ha assolto Pe.Gi. ha evidenziato che "non risulta compiutamente dimostrato oltre ogni dubbio ragionevole che la preordinazione di tale esclusione dalla gara fosse il frutto di una intesa illecita tra Bi.An. e Pe.Gi."; argomentazione dalla quale non si ricava alcuna incompatibilità con l'accertamento di penale responsabilità del ricorrente per il turbamento da lui effettuato della gara pubblica. Per tale capo, dunque, si impone il rigetto del ricorso.
12. In conclusione, la sentenza impugnata deve, in riferimento ai capi 1), 2) e 4), essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Venezia che sulla base della descritta nozione di fatto, dovrà nuovamente procedere al giudizio di revisione e verificare se i fatti, come accertati nella sentenza di patteggiamento a carico del ricorrente, si pongano su un piano di insanabile inconciliabilità logica con i fatti così come accertati nella sentenza di assoluzione a carico dei concorrenti nei diversi reati (Ma.Ma. e Di.Gi., per i capi 1 e 2; Pe.Gi., per il capo 4) così da far venire meno gli elementi costitutivi delle fattispecie ascritte a Bi.An. che ha definito la sua posizione con il rito speciale e che ha promosso l'impugnazione straordinaria.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi di imputazione 1), 2) e 4), rinviando per nuovo giudizio sui predetti capi alla Corte di appello di Venezia. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 17 aprile 2024.
Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2024.