top of page

Stalking: la condanna definitiva preclude il giudizio per il medesimo fatto qualificato come maltrattamenti

Stalking, Maltrattamenti

Cassazione penale sez. VI, 01/03/2018, n.16846

La condanna per il reato atti persecutori passata in giudicato preclude la celebrazione del giudizio per il medesimo fatto storico pur se diversamente qualificato quale maltrattamenti in famiglia, in quanto le due fattispecie di reato sono l'una sussumibile nell'altra. (In motivazione, la Corte ha precisato che l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona ed, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n.200 del 2016, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati).

Stalking o maltrattamenti? Come distinguere i reati dopo la separazione

Maltrattamenti o atti persecutori? Cosa succede dopo la fine della convivenza

Stalking: sul concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia in caso di interruzione della convivenza

Stalking: il delitto di maltrattamenti è configurabile solo per le condotte tenute fino a quando la convivenza more uxorio non sia cessata

Stalking: le condotte commesse dopo la cessazione della convivenza non integrano il delitto di maltrattamenti

Stalking: si configurano i maltrattamenti se dopo la cessazione della convivenza fra i due soggetti permane un vincolo assimilabile a quello familiare

Fine convivenza: maltrattamenti in famiglia o atti persecutori? Ecco quando si configurano

Stalking: sul rapporto con il reato di maltrattamenti in famiglia

Stalking: la condanna definitiva preclude il giudizio per il medesimo fatto qualificato come maltrattamenti

Stalking: è assorbito dal reato di maltrattamenti se pur cessata la convivenza la relazione fra i soggetti sia connotata da vincoli solidaristici

Stalking: dopo la cessazione della convivenza in presenza di condotte illecite non è configurabile il reato di maltrattamenti

Maltrattamenti: i concetti di "famiglia" e di "convivenza" vanno intesi nell'accezione più ristretta

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa in data 1 marzo 2017, la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Brindisi che aveva condannato C.F. per il reato di lesioni personali continuate in danno di R.T.G., commesso nelle date del (OMISSIS), irrogandogli la pena di sei mesi di reclusione, con diniego delle circostanze attenuanti generiche ed aveva assolto il medesimo imputato, perchè il fatto non sussiste, dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno della già indicata persona offesa. 2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce, l'avvocato Marcello Falcone, quale difensore di fiducia della parte civile costituita R.T.G., e l'avvocato Cinzia Cavallo, quale difensore di fiducia dell'imputato C.F.. Hanno poi presentato motivi nuovi l'avvocato Marcello Falcone, sempre nell'interesse della parte civile R.T.G., e l'avvocato Francesco Caroleo Grimaldi, quale difensore di fiducia dell'imputato C.F.. Infine, l'avvocato Francesco Caroleo Grimaldi, ancora nell'interesse di C.F., ha presentato memoria. 3. Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce è articolato in un unico motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, avendo riguardo sia alla sentenza indicata in epigrafe, nella parte in cui ha assolto l'imputato C.F. dal reato di maltrattamenti in famiglia, sia alle ordinanza istruttorie emesse nel corso del giudizio di secondo grado. Si deduce, innanzitutto, che, ai fini del giudizio sulla responsabilità per il reato di maltrattamenti in famiglia, occorre tener conto delle condotte poste in essere dall'imputato anche dopo la separazione dalla persona offesa e fino alla sentenza di primo grado, emessa il 12 marzo 2015, siccome il divorzio è sopravvenuto solo nel dicembre 2016, ed è irrilevante la cessazione della convivenza in quanto non è ancora stato definito lo scioglimento del matrimonio. Si rappresenta, poi, che il Procuratore generale, già con l'atto di appello, aveva chiesto la parziale rinnovazione dell'istruttoria, per l'integrazione dell'esame testimoniale della persona offesa in ordine alle condotte poste in essere dall'imputato dopo il provvedimento di separazione. Si osserva, a questo punto, che la Corte d'appello ha disposto la rinnovazione dell'esame della persona offesa e del padre, R.G., nelle forme previste per gli imputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato, ed ha escluso di estendere gli accertamenti ad epoca successiva al (OMISSIS), in quanto per i fatti verificatisi dopo tale data è stata pronunciata sentenza di assoluzione con riferimento al reato di atti persecutori. Si aggiunge che il giudice di secondo grado ha anche respinto la richiesta di acquisire le registrazioni di alcuni colloqui tra la persona offesa e l'imputato in epoca prossima al (OMISSIS). Si contesta la decisione della Corte d'appello di esaminare la persona offesa quale imputato in reato connesso o probatoriamente collegato, in quanto l'unico procedimento a carico della stessa, relativo al reato di cui all'art. 388 c.p., comma 2, per fatti fino al (OMISSIS), si è concluso con sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste, divenuta irrevocabile il 13 luglio 2014, con conseguente piena assimilabilità della sua posizione a quella del comune testimone. Si evidenzia che il riconoscimento alla dichiarante della veste di testimone "puro" avrebbe significative ricadute in tema di valutazione della prova. Si contesta, inoltre, la decisione di limitare l'esame ai soli fatti antecedenti alla separazione, sia perchè, in linea di principio, il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche dopo tale evento e fino al divorzio, pure in caso di cessazione della convivenza, sia perchè la preclusione del bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p. non opera in ipotesi di concorso formale tra reati. Si osserva, in proposito, che la sentenza di assoluzione dal reato di atti persecutori non ha escluso la sussistenza delle condotte contestate, ma ha negato che queste abbiano procurato uno stato d'ansia nella persona offesa o l'abbiano condotta a mutare le sue abitudini di vita; si aggiunge che il reato di maltrattamenti in famiglia tutela un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla fattispecie di cui all'art. 612-bis c.p.. 4. Il ricorso nell'interesse della parte civile costituita, che contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha assolto l'imputato C.F. dal reato di maltrattamenti in famiglia, è articolato in quattro motivi, preceduti da una premessa relativa alle ordinanze istruttorie emesse dalla Corte di appello, di cui si è dato conto nella sintesi concernente il ricorso del Procuratore generale. 4.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 190,191,192 e 197-bis c.p.p., quest'ultimo relativamente all'art. 12 c.p.p. e art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), avendo riguardo alla rinnovazione dell'esame testimoniale nelle forme previste per il testimone assistito e per l'imputato in reato connesso. Si deduce che la sentenza relativa all'imputazione a carico della persona offesa per il reato di cui all'art. 388 c.p., comma 2, attiene a fatti estranei a quelli oggetto del presente processo ed è stato definito con sentenza irrevocabile perchè il fatto non sussiste. 4.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 190 c.p.p., art. 192 c.p.p., comma 3 e art. 603 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), avendo riguardo alla mancata acquisizione del documento fonico richiesto dalla parte civile. Si deduce che illegittimamente è stata respinta la richiesta di acquisire le registrazioni di alcuni colloqui tra la persona offesa e l'imputato in epoca prossima al (OMISSIS), asseveranti le numerosissime minacce ed ingiurie rivolte dall'imputato alla persona offesa. Si trattava di un elemento di riscontro tempestivo, anche perchè messo a disposizione all'esito dell'esame della persona offesa. 4.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 190,194 e 498 c.p.p. e ss. e artt. 572 e 612-bis c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), avendo riguardo alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia nonostante l'assoluzione dal reato di atti persecutori. Si deduce che erroneamente, ed in contrasto con l'orientamento della giurisprudenza, la sentenza impugnata ha ritenuto le condotte attribuite all'imputato nel periodo immediatamente successivo alla separazione fuori dall'area della fattispecie di maltrattamenti in famiglia, perchè commesse in difetto di convivenza. Si aggiunge che la contestazione era formulata "con permanenza", e, quindi, consentiva di prendere in esame i fatti verificatisi fino alla pronuncia della sentenza di primo grado. Si osserva, poi, che la linea di confine tra la fattispecie di maltrattamenti in famiglia e quella di atti persecutori si individua nel differente bene giuridico tutelato. Si rileva, quindi, che l'istruttoria dibattimentale ha evidenziato "i caratteri strutturali di sistematicità e ripetitività dei gesti lesivi" dell'imputato in danno della libertà fisica e morale della persona offesa. Si rappresenta, perciò, che si è verificata una carenza istruttoria superata mediante una rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. 4.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 572 c.p. e art. 192 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), avendo riguardo alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia almeno per il periodo di tempo anteriore al (OMISSIS). Si deduce che le dichiarazioni della persona offesa risultano riscontrate da quelle dei testimoni R.G. e G.A. e che erroneamente sono stati "atomizzati" i tre episodi di violenza, senza considerare il contesto nel quale si sono verificati; tra l'altro, queste condotte avrebbero dovuto essere quanto meno considerate come episodi di minaccia e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Si rileva, poi, che le dichiarazioni della persona offesa, ritenute pienamente attendibili in relazione ai reati di lesioni personali, andavano apprezzate senza necessità di individuare riscontri ex art. 192 c.p.p., comma 3, ed avrebbero comunque trovato un riscontro nelle registrazioni che la Corte di appello ha escluso di acquisire; di conseguenza, è inesatta la conclusione della sentenza impugnata secondo cui quanto dichiarato dalla parte civile "non può considerarsi sufficiente a dimostrare la responsabilità dell'imputato in mancanza di riscontri (presenti invece per le lesioni), essendo la teste imputata in un procedimento connesso (per il reato di cui all'art. 81 c.p. e art. 388 c.p., comma 2, commesso ai danni del C.). 5. La difesa della parte civile, con i motivi nuovi, denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 190,191,192 e 197-bis c.p.p., quest'ultimo relativamente all'art. 12 c.p.p. e art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), avendo riguardo alla rinnovazione dell'esame testimoniale nelle forme previste per il testimone assistito e per l'imputato in reato connesso anche con riferimento a R.G.. Si deduce che R.G., imputato in procedimento connesso e precisamente per lesioni in danno di C.F., è stato assolto dal Giudice di Pace di Brindisi con sentenza del 14 dicembre 2017, divenuta irrevocabile il 9 febbraio 2018, perchè il fatto non sussiste; di conseguenza, anche le dichiarazioni di questi debbono essere valutate come dichiarazioni di un teste "puro". 6. Il ricorso nell'interesse dell'imputato, che contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha pronunciato condanna per i reati di lesioni personali, è formulato in quattro motivi, preceduti da una premessa, in cui si rappresenta che l'affermazione di responsabilità è stata fondata sulle dichiarazioni della persona offesa, ritenute riscontrate dalle dichiarazioni dei genitori di questa e dai referti medici. 6.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 603 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla mancata acquisizione della registrazione di una conversazione tra la persona offesa ed i consulenti tecnici nominati dal Tribunale di Brindisi nell'ambito di un procedimento civile. Si deduce che la Corte ha ritenuto tardiva la richiesta, in quanto relativa a documento formato prima della definizione del giudizio di primo grado, senza considerare che lo stesso è stato conosciuto dall'imputato solo dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, ed è utile ai fini del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in ordine all'episodio di lesioni del (OMISSIS). 6.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 192 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla utilizzazione delle dichiarazioni di R.G. a riscontro delle dichiarazioni di R.T.. Si deduce che entrambi i dichiaranti sono da ritenersi imputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato, e, pertanto, occorreva innanzitutto procedere ad una verifica della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca delle rispettive dichiarazioni. Si rappresenta che ciò era tanto più necessario, in quanto: -) i rapporti tra la persona offesa ed i suoi genitori, da un lato, e l'ex-marito, dall'altro, erano estremamente conflittuali, anche per l'intenzione della prima di ottenere un affido esclusivo dei figli minori, e per l'episodio di lesioni personali contestato al padre della donna in danno dell'imputato; -) non si è ritenuto di poter ritenere provati i fatti contestati a titolo di maltrattamenti in famiglia. 6.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 582 e 585 c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla sussistenza del dolo delle lesioni commesse il (OMISSIS), ma anche del fatto tipico. Si deduce che il fatto, anche per come descritto dalla persona offesa, era stato provocato dalla volontà dell'imputato di prendere in braccio il bambino trattenuto dalla madre, e si era estrinsecato in un dolore al braccio e in una ecchimosi. Si rileva che, pertanto, non sussiste l'elemento volitivo necessario, inteso come specifica rappresentazione, da parte dell'agente, al momento della condotta, della categoria di evento in concreto verificatosi. Si deduce, inoltre, che le ecchimosi refertate non integrano una malattia, la quale richiede il verificarsi di una alterazione anatomica o funzionale apprezzabile, sia pure di breve durata. 6.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 62-bis c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Si deduce che è censurabile la motivazione della sentenza impugnata, perchè valorizza, a tal fine, la conflittualità tra i coniugi, nonostante questa fosse reciproca e nonostante l'assoluzione dell'imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia. Si aggiunge che non si è tenuto conto delle specifiche considerazioni formulata sul punto dalla difesa in entrambi i gradi del giudizio di merito. 7. La difesa dell'imputato, con i motivi nuovi, richiama tutte le censure svolte nel ricorso originario. Evidenzia, in particolare, che la Corte d'appello, sebbene abbia mutato la qualifica della persona offesa e del padre da testimoni "puri" a testimoni assistiti o ad imputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato, ha operato un mero richiamo alla motivazione della sentenza di primo grado. Aggiunge che non potevano essere valorizzate come riscontri le dichiarazioni dei genitori della persona offesa e che già la sentenza di primo grado aveva escluso di riconoscere un contributo decisivo alle dichiarazioni degli altri testimoni. 8. La difesa dell'imputato, nella memoria, contesta le censure formulate nel ricorso del Procuratore generale presso al Corte d'appello di Lecce. Sottolinea, in particolare, che correttamente la persona offesa è stata riesaminata come imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato, e che altrettanto correttamente, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 200 del 2016, è stata individuata una preclusione, ai fini della valutazione dell'accusa concernente il reato di maltrattamenti in famiglia, nella sentenza di assoluzione per il reato di atti persecutori. Aggiunge, ancora, che la sentenza di assoluzione per il reato di atti persecutori ha riconosciuto l'esistenza di "un contesto di aperta conflittualità tra i due coniugi", trasmodato in "una vera e propria contesa in cui il ricorso alle forze dell'ordine assume significati diversi in ragione di scopi, comuni ad entrambi, non sempre in linea con il diritto"; risulta pertanto esclusa l'esistenza di fatti sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 572 c.p.. Osserva, inoltre, che il rapporto tra il reato di maltrattamenti in famiglia ed il reato di atti persecutori si risolve, secondo la giurisprudenza, sulla base del ricorso al principio di specialità, per la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 612-bis c.p., e che tanto conferma anche l'operatività del divieto di bis in idem tra i due giudizi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce e della parte civile sono fondati, per le ragioni e nei limiti di seguito precisati, nella parte in cui contestano la sentenza impugnata sia laddove ha escluso la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia in epoca successiva alla separazione tra l'imputato e la persona offesa, sia laddove ha ritenuto che le dichiarazioni di quest'ultima dovessero essere valutate come provenienti da imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato. Il ricorso dell'imputato è complessivamente infondato, ma non inammissibile, con conseguente necessità di valutare il decorso del tempo anche relativamente al giudizio di cassazione ai fini del verificarsi della prescrizione del reato per il quale è stata pronunciata condanna. 2. Innanzitutto, i ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce e della parte civile sono fondati laddove censurano la esclusione della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia per l'epoca successiva alla separazione intervenuta tra l'imputato e la persona offesa, fino alla pronuncia della sentenza penale di primo grado, in quanto precedente a quella di divorzio emessa dal giudice civile, fermo restando il limite per il periodo coperto dal giudicato assolutorio per il reato di atti persecutori. 2.1. In linea generale, secondo un principio costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, ed in relazione al quale non vi sono ragioni per dissentire, la separazione legale tra i coniugi non esclude il reato di maltrattamenti in famiglia quando le condotte persecutorie incidano sui vincoli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, nonchè di collaborazione, che permangono integri anche seguito della cessazione della convivenza, in quanto la fattispecie di cui all'art. 572 c.p. è configurabile anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l'agente allorchè quest'ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (così tra le tantissime: Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, S., Rv. 267915; Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, C., Rv. 268464; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026; Sez. 6, n. 26571 del 27/06/2008, V., Rv. 241253; Sez. 6, n. 10023 del 07/10/1996, De Bustis Ficarola, Rv. 206399). Si può aggiungere che il precedente citato nella sentenza impugnata (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D'A., Rv. 267942) non è pertinente perchè ha riferimento, a leggere il testo della motivazione, a fatti avvenuti dopo la cessazione di un rapporto di convivenza svoltosi in assenza matrimonio. Di conseguenza, il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile fino al momento della sentenza di divorzio, che scioglie il vincolo familiare, e può essere oggetto di giudizio per le condotte realizzate fino al momento della sentenza di divorzio, ovvero alla pronuncia della sentenza penale di primo grado, se questa preceda l'altra, a garanzia del diritto di difesa (cfr., da ultimo, per l'esigenza di evitare che, in un processo relativo a reati permanenti, "possa formare oggetto di accertamento giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva" alla pronuncia della sentenza di primo grado, Corte cost., sent. n. 53 del 2018). Nel caso di specie, secondo quanto rappresentato nel ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce, e non specificamente contestato dall'imputato, la sentenza di divorzio è intervenuta nel 2016, in epoca successiva alla sentenza penale di primo grado, pronunciata dal Tribunale di Brindisi in data 12 marzo 2015. La sentenza impugnata, quindi, erroneamente ha ritenuto, in via pregiudiziale, di non dover prendere in esame le condotte successive alla data di interruzione del rapporto di convivenza, anche se precedenti alla pronuncia della sentenza penale di primo grado. 2.2. Occorre tuttavia precisare che, nel presente giudizio, non tutto il periodo successivo alla data di interruzione del rapporto di convivenza può essere preso in esame, stante il divieto di bis in idem nascente dal giudicato assolutorio nei confronti dell'imputato per il reato di atti persecutori in danno della persona offesa, contestato come commesso tra il (OMISSIS). 2.2.1. In effetti, la disciplina di cui all'art. 649 c.p.p., comma 1, risulta pianamente applicabile se si ritiene che il rapporto tra le fattispecie di atti persecutori e di maltrattamenti in famiglia sia riconducibile all'istituto del concorso apparente di norme, così come sembra doversi desumere dall'elaborazione giurisprudenziale, la quale valorizza in materia la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 612-bis c.p. per ritenere applicabile la sola disposizione di cui all'art. 572 c.p. pur se i fatti siano astrattamente sussumibili nell'una e nell'altra previsione incriminatrice (cfr., per tutte, Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D'A., Rv. 267942, e Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026). Precisamente, in forza dell'art. 649 c.p.p., comma 1, "l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dall'art. 69, comma 2 e art. 345". Per effetto di tale regola, secondo l'orientamento diffuso nella giurisprudenza di legittimità, in presenza di un medesimo fatto storico, da ritenersi sussistente quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, l'azione penale non può essere riproposta solo perchè si ipotizza una differente qualificazione giuridica del medesimo (così, per tutte, Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799). 2.2.2. Nè tale conclusione può essere posta in dubbio perchè il processo definito con sentenza irrevocabile ha avuto ad oggetto una qualificazione diversa da quella che sarebbe stata correttamente applicabile; come, appunto, deve ritenersi quando è contestato il reato di atti persecutori invece che quello di maltrattamenti in famiglia in riferimento a condotte poste in essere da un coniuge in danno dell'altro in costanza di vincolo matrimoniale. Dal punto di vista dell'interpretazione letterale, infatti, il testo dell'art. 649 c.p.p. non offre argomenti per escludere dal suo ambito applicativo l'ipotesi in cui la sentenza irrevocabile abbia avuto ad oggetto una contestazione diversa da quella corretta. In questo senso, del resto, è possibile citare una pronuncia di legittimità la quale ha affermato che, nel caso in cui il mancato accoglimento della richiesta di decreto penale dipenda dalla ritenuta, diversa qualificazione giuridica del fatto, il giudice deve limitarsi a disporre la restituzione degli atti, senza pronunciare sentenza di proscioglimento in ordine al fatto come originariamente qualificato, giacchè altrimenti tale sentenza, se non impugnata, darebbe poi luogo all'effetto preclusivo di cui all'art. 649 c.p.p. (Sez. 6, n. 1990 del 04/12/1992, dep. 1993, Cundari, Rv. 193267). Dal punto di vista sistematico, poi, una significativa conferma per la conclusione accolta in questa sede viene dall'ampliamento dell'area di operatività della regola del ne bis in idem processuale ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2016. Con tale pronuncia, il Giudice delle Leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, l'art. 649 c.p.p. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e iniziato il nuovo procedimento penale. Precisamente, secondo questa decisione, in applicazione del principio del divieto di bis in idem, quando si è in presenza del medesimo fatto storico identico per la coincidenza della condotta, del nesso causale, dell'evento, e delle circostanze di tempo, di luogo e di persona -, l'esistenza di una pronuncia irrevocabile determina, sul piano processuale, una preclusione per una seconda iniziativa penale anche in relazione a fattispecie di reato che sono in rapporto di concorso formale con quella già oggetto di giudizio, e che, quindi, sul piano sostanziale, potrebbero essere correttamente contestate e ritenute sussistenti dal giudice nell'ambito di un simultaneus processus. Nella trama argomentativa della sentenza, inoltre, ed appare estremamente significativo ai fini della questione in esame, la Consulta si preoccupa di sottolineare l'esigenza di evitare "il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l'occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l'individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato" (cfr. p. 7.); a tal fine, anzi sottolinea: "Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano l'intorbidamento della valutazione comparativa in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento" (v., ancora, p. 7.). 2.2.3. La sentenza della Corte costituzionale appena citata, come si è detto, impone di ritenere operativo il divieto di bis in idem determinato dal giudicato anche se si reputi che tra la fattispecie di atti persecutori e quella di maltrattamenti in famiglia sussista un rapporto di concorso formale di reati. Del resto, sviluppando le direttive provenienti dalla decisione della Corte costituzionale, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, ai fini della preclusione del ne bis in idem, l'identità del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato (così Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti, Rv. 268502, che, in applicazione del principio, ha annullato senza rinvio, per divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p., la sentenza di condanna per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, rilevata la sostanziale identità della condotta contestata rispetto a quella già giudicata per il reato di truffa aggravata). 2.2.4. In sintesi, quindi, quali che sia la natura dei rapporti tra la fattispecie di atti persecutori e quella di maltrattamenti in famiglia, di concorso apparente di norme - per specialità o per consunzione - o di concorso formale, la pronuncia di una sentenza irrevocabile in ordine ad una delle due figure di reato, che abbia avuto ad oggetto il medesimo fatto storico rilevante per l'altra, preclude necessariamente l'esercizio o la prosecuzione dell'azione penale in relazione a quest'ultima. 3. Ancora, i ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce e della parte civile sono fondati pure quando censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che le dichiarazioni della persona offesa dovessero essere valutate come provenienti da imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato. 3.1. La Corte costituzionale, con sentenza n. 21 del 2017, depositata il 26 gennaio 2017, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale in data 1 febbraio 2017, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 197-bis c.p.p., commi 6 e 3, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l'applicazione della disposizione di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, e l'assistenza di un difensore, anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate all'art. 197-bis c.p.p., comma 1, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione "perchè il fatto non sussiste" divenuta irrevocabile. La Corte d'appello di Lecce, che ha disposto la rinnovazione istruttoria con riferimento alle dichiarazioni della persona offesa nelle forme previste per gli imputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato, ha pronunciato la sentenza impugnata in data 1 marzo 2017, e, quindi in epoca successiva alla efficacia della dichiarazione di illegittimità costituzionale, che, a norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3, decorre dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione del Giudice delle Leggi. Il procedimento nel quale la persona offesa era imputata, relativo al reato di cui all'art. 388 c.p., comma 2, per fatti commessi fino al (OMISSIS), e ritenuto connesso o comunque probatoriamente collegato con quello in esame, risulta definito con sentenza di assoluzione "perchè il fatto non sussiste" divenuta irrevocabile il 13 luglio 2014. 3.2. Tenuto conto di quanto esposto, deve concludersi che la sentenza impugnata avrebbe dovuto valutare le dichiarazioni della persona offesa non come quelle di un imputato connesso o probatoriamente collegato, e quindi a norma dell'art. 192 c.p.p., comma 3, "unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità", bensì come quelle di un testimone, sebbene con particolare cautela e rigore, in linea con le indicazioni della giurisprudenza di legittimità (cfr., per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). E' perciò erronea l'affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale "quanto riferito dalla sola R.T. (la persona offesa) con riferimento a tale delitto (quello di cui all'art. 572 c.p.) non può considerarsi sufficiente a dimostrare la responsabilità dell'imputato in mancanza di riscontri (presenti invece per le lesioni), essendo la teste imputata in un procedimento connesso (per il reato di cui all'art. 81 c.p. e art. 388 c.p., comma 2, commesso ai danni del C.) e dovendo, pertanto, essere valutata la sua attendibilità ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3". 4. L'errore metodologico appena rilevato rende superflua, allo stato, ogni approfondimento in ordine alla valutazione dell'efficacia dimostrativa delle dichiarazioni dei genitori della persona offesa, e del contesto complessivo della vicenda. Invero, l'errore compiuto con riferimento allo statuto applicabile alle dichiarazioni della persona offesa, e quindi ai criteri di valutazione da seguire per valutarne l'apporto narrativo, determina evidenti conseguenze anche sul "peso" da attribuire al racconto dei genitori della stessa ed al "contesto" nel quale si collocano i fatti oggetto dell'imputazione. Innanzitutto, la narrazione della persona offesa potrebbe essere ritenuta attendibile anche indipendentemente dall'individuazione di riscontri esterni ex art. 192 c.p.p., comma 3. Inoltre, le dichiarazioni dei genitori della persona offesa ed il contesto ambientale di riferimento, quand'anche non valutabili come riscontri estrinseci, potrebbero essere comunque utili a pervenire ad un giudizio positivo sull'affidabilità del racconto della principale fonte di accusa. Occorre solo chiarire, per completezza, che non è fondata la censura, formulata anche nei motivi nuovi presentati dalla parte civile, in ordine alla disciplina applicabile alle dichiarazioni del padre della persona offesa. Deve infatti ritenersi che correttamente la Corte d'appello ha valutato le dichiarazioni del padre della persona offesa come quelle rese da imputato in reato connesso o probatoriamente collegato. Questo dichiarante, come indicato nei motivi nuovi, è stato assolto "perchè il fatto non sussiste" dal Giudice di pace solo in data 14 dicembre 2017, e con sentenza divenuta irrevocabile il 9 febbraio 2018. Di conseguenza, al momento della pronuncia della sentenza impugnata, il medesimo era assoggettato a procedimento penale e le sue dichiarazioni dovevano essere valutate a norma dell'art. 192 c.p.p., comma 3. 5. Manifestamente infondate, invece, sono le censure del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce e della parte civile in ordine alla mancata acquisizione del documento fonico esibito da quest'ultima nel giudizio di appello e concernente colloqui tra la persona offesa e l'imputato in epoca prossima al (OMISSIS). Invero, a norma dell'art. 603 c.p.p., comma 1, le richieste istruttorie nel corso del giudizio di appello, se non attengono a prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, sono accolte solo se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Secondo la costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità, nel giudizio di appello, la riassunzione di prove già acquisite o l'assunzione di quelle nuove è subordinata alla condizione che i dati probatori raccolti in precedenza siano ritenuti incerti, secondo un giudizio rimesso alla discrezionale valutazione del giudice, e che l'incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività (cfr. per tutte, Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, F., Rv. 268657, e Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253526). 6. Il ricorso dell'imputato è complessivamente infondato. 6.1. Prive della specificità normativamente richiesta sono le censure formulate nel primo motivo, e che attengono alla mancata acquisizione di un documento fonico di registrazione di un colloquio tra la persona offesa ed i consulenti tecnici nominati dal Tribunale di Brindisi in un procedimento civile. Il ricorrente rappresenta che la registrazione del colloquio è fonte di prova utile per valutare l'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa con riferimento all'episodio di lesioni del (OMISSIS), e conosciuta dall'imputato solo dopo la pronuncia della sentenza di primo grado. In realtà, le censure, se contestano la decisione della Corte d'appello di rigetto dell'istanza istruttoria con riferimento al momento della "scoperta" della fonte di prova da parte dell'imputato, nulla rappresentano in ordine alla rilevanza della stessa: in relazione a tale profilo, ci si limita ad affermare, in linea di principio, ma senza alcuna concreta specificazione, che dal colloquio intercorso tra i consulenti tecnici nominati dal Tribunale di Brindisi nel processo civile n. 728/13 e la persona offesa, "a parere di questa di difesa, emergevano gli elementi per confutare la credibilità della Sig.ra R.T., proprio in merito all'episodio di lesioni del (OMISSIS), uno di quelli indicati nel capo di imputazione, narrato in maniera diversa dalla stessa R.". Inoltre, la necessità di precisazioni, nel ricorso, in ordine alla rilevanza dell'acquisizione istruttoria richiesta è tanto più evidente se si considera che la Corte d'appello ha provveduto alla rinnovazione dell'esame della persona offesa in contraddittorio, e che in tale occasione sarebbe stato possibile far emergere eventuali discrasie o comunque chiedere alla donna chiarimenti in ordine a quanto la stessa aveva affermato nel colloquio con i consulenti tecnici nominati nel processo civile. 6.2. Infondate sono le censure formulate con il secondo motivo di ricorso e con il motivi nuovi, e che riguardano, in particolare, la mancata verifica dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in relazione agli episodi di lesioni, o comunque il difetto di motivazione in proposito. In effetti, la motivazione della sentenza impugnata, per quanto laconica, oltre a richiamare formalmente gli argomenti addotti dalla sentenza di primo grado, rappresenta che le dichiarazioni della persona offesa in ordine ai fatti per i quali l'imputato è stato condannato hanno "trovato riscontro sia nelle deposizioni rese da R.G. e C.A., genitori della vittima, sia dai referti medici acquisiti agli atti, che documentano lesioni compatibili con l'ipotesi accusatoria"; inoltre, con specifico riferimento all'episodio del (OMISSIS), rileva che le risultanze del referto medico "risultano incompatibili con la versione dei fatti fornita dall'imputato". I giudici di secondo grado, ancora, hanno espressamente spiegato il differente esito del giudizio relativo ai delitti di lesioni rispetto a quello concernente il reato di maltrattamenti in famiglia in ragione dell'assenza di riscontri esterni e non già per difetto di attendibilità intrinseca. Si è già rilevato, infatti, che, secondo la Corte d'appello, "quanto riferito dalla sola R.T. (la persona offesa) con riferimento a tale delitto (quello di cui all'art. 572 c.p.) non può considerarsi sufficiente a dimostrare la responsabilità dell'imputato in mancanza di riscontri (presenti invece per le lesioni), essendo la teste imputata in un procedimento connesso (per il reato di cui all'art. 81 c.p. e art. 388 c.p., comma 2, commesso ai danni del C.) e dovendo, pertanto, essere valutata la sua attendibilità ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3". Può solo aggiungersi, per completezza, che quanto esposto dalla sentenza impugnata ai fini del positivo giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa nella veste di imputata in procedimento connesso o probatoriamente collegato in relazione ai fatti di lesioni, a maggior ragione è sicuramente idoneo a sorreggere un giudizio di affidabilità delle medesime dichiarazioni anche qualora debba attribuirsi alla donna, per le ragioni precedentemente indicate al p. 3., lo status di testimone. 6.3. Infondate, ancora, sono le censure dedotte con il terzo motivo di ricorso, e che si riferiscono, in particolare, al reato di lesioni commesso il (OMISSIS). Innanzitutto, è infondato il rilievo secondo cui le ecchimosi non integrano una malattia rilevante a norma dell'art. 582 c.p.. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l'ecchimosi, consistente in una infiltrazione di sangue nel tessuto sottocutaneo, ed il trauma contusivo, che determina una, sia pur limitata, alterazione funzionale dell'organismo, sono riconducibili alla nozione di malattia ed integrano pertanto il reato di lesione personale (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 10986 del 13/01/2010, Apicella, Rv. 246679, e Sez. 4, n. 2433 del 19/12/2005, dep. 2006, Brancaccio, Rv. 232882). In secondo luogo, poi, prive di fondamento sono le censure relative al difetto dell'elemento psicologico. Secondo la sentenza impugnata il tentativo dell'imputato di strappare il bambino dalle braccia delle madre, che lo stava allattando, "non esclude affatto la volontà di provocare lesioni, quanto meno nella forma del dolo eventuale (...), essendo stata questa probabile conseguenza indubbiamente considerata dal prevenuto, data la violenza esercitata sulla donna per vincerne la resistenza". L'affermazione è immune da vizi giuridici o logici, sia perchè nel reato di lesioni l'elemento psicologico può essere costituito dal dolo eventuale (cfr., tra le tantissime, Sez. 5, n. 45997 del 14/07/2016, Beti, Rv. 268482, e Sez. 2, n. 43348 del 30/09/2014, Mistri, Rv. 260858), sia perchè non può certo ritenersi manifestamente irragionevole desumere dall'esercizio di una pressione violenta sul corpo di una persona la consapevole accettazione, da parte dell'agente, del rischio di cagionare, attraverso tale condotta, ecchimosi sulla vittima. 6.4. Le censure esposte nel quarto motivo, e concernenti la mancata concessione delle attenuanti generiche, sono assorbite, stante la dichiarazione di prescrizione dei reati ascritti all'imputato, come di seguito precisato. 7. In conclusione, la complessiva non inammissibilità delle censure esposte nel ricorso dell'imputato impone di tener conto, ai fini della prescrizione dei reati di lesioni personali per i quali è stata pronunciata sentenza di condanna, del decorso del tempo maturato fino alla data della pronuncia della Corte di cassazione e, quindi, di dichiarare l'estinzione degli stessi, commessi il (OMISSIS) ed il (OMISSIS). Tuttavia, essendo le censure esposte o infondate o inammissibili, restano salve le statuizioni civili di condanna dell'imputato in favore della parte civile. Inoltre, l'esito di salvezza delle statuizioni civili determina la condanna dell'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che si liquidano in complessivi tremila Euro, oltre agli accessori di legge. La fondatezza delle censure proposte dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce e dalla parte civile laddove contestano l'esclusione della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia in epoca successiva alla separazione tra l'imputato e la persona offesa, nonchè la valutazione delle dichiarazioni di quest'ultima come riferibili ad imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato, impone l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio. Il giudice del rinvio si conformerà ai principi enunciati ed esaminerà se sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia innanzitutto valutando le dichiarazioni della persona offesa R.T.G. come quelle di un testimone, ovviamente nel rispetto delle cautele valutative indicate da Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214, e poi prendendo in considerazione anche il periodo intercorso tra la data della separazione tra imputato e persona offesa e quella della sentenza penale di primo grado, con esclusione, però, dell'arco temporale coperto dal giudicato relativo al reato di atti persecutori. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata in ordine al reato di maltrattamenti ascritto a C.F. e rinvia per nuovo giudizio sullo stesso capo ad altra sezione della Corte d'appello di Lecce. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di lesioni volontarie continuate ascritto al C. perchè estinto per prescrizione, ferme restando le corrispondenti statuizioni civili. Condanna il C. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile R.T.G., che liquida in complessivi tremila Euro oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 1 marzo 2018. Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2018
bottom of page