RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 27 maggio 2016 la Corte di Appello di Genova, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, ha condannato C.F. per il reato di atti persecutori ascrittogli al capo A), ritenuto assorbito in quest'ultimo il reato di tentate lesioni aggravate ascrittogli al capo B).
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto, con atto sottoscritto personalmente, ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge e vizi motivazionali in ordine all'art. 612-bis c.p., in quanto la decisione impugnata non fornirebbe adeguata motivazione circa la sussistenza presupposti oggettivi e soggettivi del reato contestato. La Corte territoriale, pur avendo analizzato la condotta ascritta all'imputato in concreto, avrebbe errato nel ravvisare nella stessa l'idoneità a produrre l'evento di "danno" - consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura - o, in alternativa, l'evento di "pericolo" - consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva - caratteristici del reato in questione.
Al contrario, proprio l'impossibilità di riscontrare la sussistenza dell'evento dannoso imporrebbe la qualificazione del fatto contestato quale molestia reiterata ex art. 660 c.p. o quale minaccia continuata.
2.2. Con il secondo ed il terzo motivo si denunziano contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine alla credibilità ed attendibilità della persona offesa.
La contraddittorietà risiederebbe nella circostanza per la quale gli elementi indicati dalla Corte territoriale a riscontro delle dichiarazioni della persona offesa (quali, ad esempio, le propalazioni del datore di lavoro della vittima) non fornirebbero, invero, la conferma alle accuse mosse dalla costituita parte civile.
L'illogicità della motivazione emergerebbe da due precisi elementi: 1) l'aver considerato idoneo riscontro alle dichiarazioni della persona offesa l'intervento dei Carabinieri e il racconto a questi dell'accaduto; 2) la valutazione di inidoneità probatoria effettuata dal giudice circa la documentazione prodotta dalla difesa attestante la presenza dell'imputato presso il Comando dei Carabinieri di (OMISSIS) nello stesso momento in cui la persona offesa collocava temporalmente le tentate lesioni aggravate (costituenti, peraltro, il primo episodio della condotta persecutoria).
2.3. Con il quarto motivo si lamenta omessa motivazione in ordine al reato di ingiuria. Secondo il ricorrente il giudice di secondo grado avrebbe concentrato la propria attenzione unicamente sul reato di stalking, nel quale le tentate lesioni sono state considerate assorbite, al punto da non tenere conto del reato di cui all'art. 594 c.p. neppure in punto di determinazione della pena.
2.4. Con l'ultimo motivo si deduce violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio. La Corte territoriale avrebbe determinato il quantum di pena da applicare in considerazione della sola gravità del reato contestato. Analogamente, in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la Corte avrebbe fatto generico riferimento alla gravità del fatto e ai precedenti penali, senza indicare le regioni per le quali questi elementi risultassero tali da giustificare l'esclusione delle circostanze in parola.
3. In data 13 ottobre 2017 il difensore dell'imputato, avv. Maria Del Grosso, ha depositato atto contenente motivi nuovi.
3.1. Con il primo Sii evidenzia che la persona offesa aveva manifestato nel giudizio di primo grado la volontà di rimettere la querela; remissione accettata dal C..
Nel giudizio di secondo grado l'imputato è stato condannato solo per il reato di atti persecutori, essendo stato ritenuto assorbito nella relativa imputazione di cui al capo A) il reato di tentate lesioni aggravate ascrittogli al capo B).
Tale circostanza, secondo la difesa, comporterebbe l'improcedibilità per intervenuta remissione di querela del reato di atti persecutori, non sussistendo alcuna delle condizioni previste dalla norma vigente all'epoca dei fatti per la procedibilità d'ufficio ovvero nelle ipotesi di fatto commesso in danno di minore o persona con disabilità oppure in caso di connessione con altro delitto procedibile di ufficio.
3.2. Con il secondo motivo si denunzia violazione di legge processuale in relazione all'art. 522 c.p.p..
La Corte territoriale ha ritenuto integrato il delitto di atti persecutori perchè la persona offesa era stata costretta a cambiare le abitudini di vita (la difesa riporta uno stralcio della motivazione della sentenza a pag. 6).
Nel capo di imputazione, invece, era stato contestato al C. di aver cagionato "un perdurante e grave stato di paura ingenerandole timore per la propria incolumità e quella delle persone a lei affettivamente legate".
Secondo la difesa ciò comporterebbe una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
3.3. Con il terzo motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla affermazione di responsabilità.
Secondo la difesa il giudizio di credibilità della persona offesa espresso dalla Corte territoriale sarebbe manifestamente illogico e frutto di travisamento delle prove acquisite.
La Corte territoriale sarebbe incorsa anche nel vizio di travisamento delle prove con riguardo alle dichiarazioni della persona offesa C.I..
Sarebbe infine stata violata la regola contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione per i diritti dell'uomo, non avendo al Corte territoriale proceduto alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale anche attraverso l'esame dei soggetti (ed in particolare del teste B.), che hanno reso le dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
3.4. Con il quarto motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relaziona all'art. 99 c.p..
Si duole la difesa della mancata indicazione da parte della Corte territoriale delle ragioni per le quali ha ritenuto l'applicazione dell'aumento per la recidiva.
3.5. Con il quinto motivo e il sesto motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche.
4. Fuori termine risulta depositata la memoria a firma di altro difensore dell'imputato, avv. Luca Morelli.
In tale memoria si sostiene ancora una volta l'improcedibilità del reato di atti persecutori per intervenuta remissione di querela.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che, così come sopra già evidenziato, nell'interesse dell'imputato è stato proposto tempestivamente un primo atto di ricorso a firma dello stesso C. e poi sono state depositate due memorie a firma dei suoi difensori e contenenti motivi nuovi, molti dei quali, come si dirà meglio più avanti, da ritenersi tardivi, perchè relativi a questioni non rilevabili di ufficio.
1. In via preliminare va affrontata la questione, prospettata con le memorie dei difensori dell'imputato, in ordine all'intervenuta carenza di condizione di procedibilità.
1.1. Va qui precisato che i fatti sono stati commessi prima dell'entrata in vigore della novella di cui al D.L. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, (con decorrenza dal 17 agosto 2013, così come modificato dall'allegato alla legge di conversione L. 15 ottobre 2013, n. 119, con decorrenza dal 16 ottobre 2013).
Il testo dell'art. 612 bis c.p., vigente all'epoca dei fatti, prevedeva che si procedesse d'ufficio nei casi di fatto commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, nonchè di fatto connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.
Con la suindicata normativa del 2013, oltre a ribadirsi gli stessi casi di procedibilità di ufficio, si è anche previsto, nell'art. 612 bis c.p., comma 4, che la querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso - come nel caso in esame - mediante minacce reiterate nei modi di cui all'art. 612, comma 2.
Tale norma, però, non è applicabile nella specie.
Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di affermare che il regime di irrevocabilità della querela previsto dall'art. 612 bis, comma 4, u.p., non si applica ai fatti preesistenti, la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato (i n motivazione la Corte ha affermato che il mutamento nel tempo del regime di procedibilità va positivamente risolto, ai sensi dell'art. 2 c.p., alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, dell'istituto della querela, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità (Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R, Rv. 26599901; si vedano anche Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabrò e altri, Rv. 24186201 e Sez. 1, n. 33455 del 10/07/2001, PM in proc. Trovato C, Rv. 21967801).
1.2. Va detto tuttavia che al C. erano stati ascritti, all'esito delle indagini preliminari, sia il reato di atti persecutori sia quello di tentate lesioni aggravate ex artt. 583 e 585 c.p., reato procedibile di ufficio.
La difesa sostiene che, essendo stato tale ultimo delitto ritenuto assorbito in quello di atti persecutori, verrebbe meno una delle condizioni previste dalla norma per la procedibilità di ufficio ovvero la connessione del reato di cui all'art. 612 bis con altro "per il quale si deve procedere d'ufficio".
L'assunto è destituito di fondamento.
Si deve rilevare in primo luogo che la condotta contestata con l'imputazione di tentate lesioni aggravate non è stata ritenuta insussistente dalla Corte territoriale. Invero, le risultanze processuali hanno acclarato che il C., nel periodo in cui perseguitava la figlia I., un giorno aveva raggiunto quest'ultima sul posto di lavoro a bordo di un'autovettura, con la quale le si era avvicinato tanto da farle temere di essere investita (pag. 5 della sentenza di appello). La Corte di Appello, non essendo emersa prova sufficiente sull'elemento soggettivo proprio del reato di tentate lesioni aggravate (ovvero "la ferma intenzione di travolgere la figlia"), ha per questo ricondotto il fatto nella fattispecie della minaccia grave, essendo inequivocabilmente desumibile dalle prove che l'intendimento dell'imputato fosse quello di creare nella figlia uno stato continuo di agitazione.
In ragione di ciò la Corte territoriale ha ritenuto i fatti descritti nel capo B) delle imputazioni assorbiti in quelli di atti persecutori, fermo restando - come si chiarirà anche più avanti - che le condotte integranti il delitto in esame ben possonò da sole rilevare come ipotesi autonoma di reato, concorrendo solo nel loro insieme ad integrare quello "abituale" di atti persecutori.
1.3. Tale situazione non può incidere sulla procedibilità di ufficio del reato di cui all'art. 612 bis c.p., così come contestato al C..
In primo luogo va ricordato che l'ipotesi di connessione prevista nell'ultimo comma dell'art. 612 bis c.p. si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 c.p.p.), ma anche quando vi è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell'art. 371 c.p.p. e purchè le indagini in ordine al reato perseguibile d'ufficio siano state effettivamente avviate (ex multis, Sez. 5, n. 39758 del 03/02/2017, B, Rv. 2709010.1; Sez. 1, n. 32787 del 24/06/2014, Perrone, Rv. 26142901; Sez. 5, n. 14692 del 12/12/2012, P., Rv. 25543801; Sez. 3, n. 2876 del 21/12/2006, P.G. in proc. Crudele, Rv. 23609801).
Tali principi sono stati reiteratamente affermati nella giurisprudenza di legittimità in tema di delitti di violenza sessuale (Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016, B e altri, Rv. 26831301; Sez. 3, n. 10217 del 10/02/2015, P.O. in proc. G., Rv. 26265401), in relazione ai quali si è precisato che la procedibilità senza necessità di querela anche nell'ipotesi di mero collegamento investigativo non si fonda su un'analogia "in malam partem", trattandosi invece di un'interpretazione estensiva della situazione di connessione indicata dall'art. 609 septies c.p., n. 4, giustificata dal venir meno, con l'avvio delle indagini sul reato collegato, delle esigenze di riservatezza della persona offesa (Sez. 3, n. 2856 del 16/10/2013, B, Rv. 25858301).
Tale assunto trova fondamento nel fatto che la previsione della procedibilità a querela per alcune fattispecie, come quelle di reati sessuali e - per quel che qui interessa - di atti persecutori, ha la sua ratio nella comprensibile finalità di evitare alla vittima una dolorosa ed inutile risonanza ai fatti che toccano intimamente la sfera personale.
Tale finalità è evidentemente superata nei casi in cui l'avvio dell'indagine penale si impone d'ufficio e comporta necessariamente l'accertamento dei fatti integranti i suddetti reati, nonchè la "pubblicità" degli stessi, per cui vengono meno proprio le ragioni di cautela fondanti la scelta del legislatore di riservare il diritto di querela alla persona offesa.
Correttamente si è, quindi, ritenuto che l'eventuale estinzione per prescrizione o la successiva abrogazione del commesso reato procedibile d'ufficio, quando quest'ultimo è stato oggetto delle indagini preliminari, è ininfluente ai fini della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale (Sez. 3, n. 1190 del 29/11/2011, M., Rv. 25190801; Sez. 3, n. 16757 del 04/02/2009, C. e altro, Rv. 24347901; si vedano anche Rv. 251908; Rv. 236098).
Si è altresì ritenuto che, ai fini della perseguibilità d'ufficio del reato di violenza sessuale per connessione con altro reato procedibile d'ufficio, non è necessario che per quest'ultimo sia stata preventivamente esercitata l'azione penale, operando la connessione anche in caso di contestazione suppletiva dello stesso (Sez. 3, n. 616 del 22/06/2011, G., Rv. 25211801; Sez. 3, n. 27068 del 20/05/2008, B., Rv. 24026001).
Non può essere condiviso il diverso orientamento interpretativo di questa stessa Corte (Sez. 2, n. 31604 del 13/07/2011, Valentino e altro, Rv. 25089401), secondo cui la procedibilità d'ufficio dei reati di violenza sessuale, per connessione con altro reato procedibile d'ufficio, presuppone l'esistenza di un collegamento reale secondo la previsione di cui all'art. 12 c.p.p., e non meramente processuale, che si ha quando in un medesimo contesto investigativo si abbia la scoperta di altro reato, "perchè il riferimento a ogni forma "atipica" di connessione si risolve in una interpretazione "in malam partem", esclusa in campo penale".
Si è infatti già efficacemente obiettato che - come sopra evidenziato - la ragione della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale "non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l'esigenza del perseguimento dei colpevoli con l'esigenza della riservatezza delle persone offese, data la particolarissima natura di tali reati, in relazione ai molteplici contesti socioculturali nei quali gli stessi possono essere commessi. Tale esigenza viene meno proprio nel caso in cui le indagini su fatti perseguibili d'ufficio abbiano attinto alla riservatezza delle persone offese per connessi reati sessuali, nel caso in cui questi siano stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, ovvero - e questo è il caso più frequente - se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza o se la prova di più reati deriva anche parzialmente dalla stessa fonte" (così in motivazione Sez. 3, n. 2856 del 16/10/2013, B, Rv. 25858301).
1.4. Concludendo dunque sull'argomento, nel caso in esame del tutto irrilevante deve ritenersi il fatto del ritenuto assorbimento della condotta inizialmente contestata come reato procedibile di ufficio nell'imputazione di atti persecutori, giacchè le indagini in ordine al reato di tentate lesioni aggravate, perseguibile d'ufficio, sono state effettivamente avviate e l'esito delle stesse si è tradotto nel rinvio a giudizio dell'imputato. L'accertamento dei fatti di tentate lesioni aggravate ha comportato necessariamente anche lo svolgimento di indagini relative a tutte le altre condotte persecutorie poste in essere dal C., sicchè l'esigenza di "riservatezza" a tutela della persona offesa è venuta meno.
Nè - come si è già evidenziato - nel caso di specie i giudici di merito hanno ritenuto l'insussistenza dei fatti contestati come tentate lesioni aggravate, avendo rilevato soltanto che non è emersa prova sufficiente in relazione all'elemento soggettivo del reato e che per questo i fatti fossero più correttamente riconducibili nella fattispecie di minaccia aggravata.
Non può quindi affermarsi che la regola della procedibilità di ufficio di cui all'art. 612 bis c.p., comma 4 sia venuta meno, perchè ci si è trovati di fronte ad un caso di connessione "apparente" tra gli atti persecutori ed un altro delitto procedibile d'ufficio (Sez. 3, n. 36390 del 06/07/2007, Alberti e altro, Rv. 23756301 Sez. 3, n. 34898 del 06/06/2007, Riera e altro, Rv. 23719701; Sez. 3, n. 17846 del 19/03/2009, C, Rv. 24376001).
Non senza rilievo poi, analizzando la questione secondo l'ottica del diritto di querela correlato alla tutela della riservatezza della persona offesa, è il fatto che nel caso in esame la vittima del reato di atti persecutori ha insistito nella costituzione di parte civile, chiedendo anche in sede di legittimità la conferma delle statuizioni di condanna dell'imputato relative ai danni subiti in conseguenza delle sue condotte persecutorie.
2. Passando all'esame del ricorso, va detto che i primi motivi sono essenzialmente versati in fatto e finalizzati ad una rivalutazione degli elementi probatori non consentita in sede di legittimità.
Prima di dare atto dell'esaustività e logicità della motivazione della Corte territoriale, avendo il ricorrente contestato la sussistenza degli elementi costitutivi dell'art. 612 bis c.p., va precisato, in via generale, che con l'introduzione della fattispecie di atti persecutori il legislatore, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, ha voluto colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorchè non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.
Si è preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l'esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l'incriminazione degli atti persecutori si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell'incolumità fisio-psichica attraverso l'incriminazione di condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone.
E' peraltro utile ricordare come, per il consolidato insegnamento di questa Corte, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall'art. 612 bis c.p., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 46331 del 5 giugno 2013, D. V., Rv. 257560). Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d'ansia e di paura che è indicato come l'evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo "eventualmente" abituale (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024).
Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 33563 del 16/06/2015, B, Rv. 264356).
Trattandosi di reato abituale è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza ed in tal senso l'essenza dell'incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo.
E' dunque l'atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l'appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell'evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacchè alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell'art. 612 bis c.p..
Indubbiamente l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T, Rv. 262636).
Va detto, peraltro, che, ai fini della individuazione dell'evento cambiamento delle abitudini di vita (che - come si dirà più avanti - si è anche verificato nel caso in esame), occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate (Sez. 5, n. 24021 del 29/04/2014, G, Rv. 260580).
Infine si deve precisare che nel delitto di atti persecutori, che -come si è già detto- ha natura di reato abituale di evento, l'elemento soggettivo è integrato dal solo dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, P.M. in proc. A, Rv. 265230; Sez. 5, n. 20993 del 27/11/2012, Feola, Rv. 255436).
3. Fatte le suesposte precisazioni in diritto, risultano non fondate le censure alla sentenza di appello che ha ritenuto integrata la fattispecie contestata.
Invero, è emerso che il C., irritato dal fatto che la figlia avesse denunziato il nonno (ovvero il padre dello stesso imputato) per abusi sessuali subiti quando era ancora minorenne, si era reso autore "di una vera e propria persecuzione per punire la ragazza e per dare sfogo alla sua ira".
Le risultanze processuali hanno evidenziato che il C. almeno in tre occasioni ((OMISSIS)) si era recato sul posto di lavoro della figlia e l'aveva minacciata in maniera grave, nonchè insultata con frasi volgarissime, tanto da creare nella ragazza uno stato di paura che l'aveva portata a limitare i suoi movimenti tra la casa e il suddetto luogo di lavoro.
Del tutto irrilevante per la configurabilità del reato in esame è la circostanza che i suddetti atti persecutori furono posti in essere in un arco temporale circoscritto. Questa Corte ha anche di recente ribadito che è configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti - come nel caso di specie - di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva affermato la sussistenza del reato in relazione a condotte tutte tenute nell'arco di una sola giornata) (Sez. 5, n. 38306 del 13/06/2016, C, Rv. 26795401).
Peraltro, non ci sono dubbi anche sulla sussistenza nel caso in esame dell'elemento psicologico del reato contestato. In proposito, va detto che, trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz'altro unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l'agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta.
Infatti, come si è già detto nel paragrafo precedente, si tratta di dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (citata Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260411).
Nel caso in esame i giudici di merito hanno evidenziato quanto emerso nell'istruttoria dibattimentale in ordine all'elemento soggettivo, sottolineando anche che il C. non si limitò a rimproverare la figlia per le dichiarazioni accusatorie in danno del nonno, "ma le dichiarò apertamente guerra, manifestando il suo rancore ed il suo desiderio di vendetta a comuni conoscenti proprio allo scopo di intimorirla. Stesso atteggiamento spavaldo tenne in occasione degli incontri con la ragazza nel corso delle udienze relative al processo nei confronti del nonno e del giudizio di primo grado relativo al presente procedimento" (pag. 6 della sentenza impugnata).
4. La ricostruzione dei fatti è stata operata dalla Corte territoriale essenzialmente sulla base delle dichiarazioni della persona offesa (esaminata nuovamente in appello), riscontrate anche dalle dichiarazioni del suo datore di lavoro e dal fatto che la ragazza in una delle occasioni aveva chiesto l'intervento dei carabinieri.
Si tratta di valutazioni della prova dichiarativa sorrette da congrua e logica motivazione, sicchè esse sfuggono al sindacato di legittimità.
In proposito va ribadito che, in ordine al giudizio di attendibilità della persona offesa e delle altre prove dichiarative, non può formare oggetto di ricorso per Cassazione la valutazione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni dei fatti e l'indagine sull'attendibilità dei testimoni, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione adottata dal giudice di merito, che, come si è detto, nella ispecie appare coerente e logica (ex multis Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362); infatti il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità.
5. La Corte territoriale ha dato altresì conto delle risultanze in base alle quali ha ritenuto provata la sussistenza dell'evento del reato contestato.
E' infatti emerso che la persona offesa, in conseguenza delle reiterate aggressioni subite, aveva avvertito un forte senso di paura, tanto che la sua vita era stata soggetta a forti limitazioni, "ancora più gravose per una ragazza così giovane, proprio quale difesa dalle aggressioni alla sua vita privata attuate dal padre" (così a pag. 6 della sentenza impugnata).
Va qui ribadito che nel delitto previsto dall'art. 612 bis c.p., che ha natura abituale, l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un'autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016, G, Rv. 26908101).
Con la memoria dell'avv. Del Grosso si è sostenuto che quanto accertato dalla Corte territoriale in ordine all'evento del reato violerebbe il principio di correlazione tra accusa e sentenza, giacchè nell'imputazione non si fa menzione al mutamento delle abitudini di vita ma solo al "perdurante e grave stato di paura" e al timore per la propria e l'altrui incolumità.
L'assunto è manifestamente infondato.
Invero, in primo luogo la Corte territoriale ha dato ampiamente atto dello stato di paura cui fu sottoposta la ragazza per le gravi minacce e offese subite dal padre.
Il fatto poi che abbia evidenziato che tale paura si era tradotta in una pesante limitazione delle abitudini di vita non può certamente integrare violazione del diritto di difesa.
Va qui ribadito che ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori è sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti dall'art. 612 bis c.p. (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, P.M. in proc. A, Rv. 26523101).
Nel caso in esame si sono verificati entrambi e l'imputato ha avuto la possibilità di esercitare il suo diritto di difesa, essendosi formata la prova nel pieno contraddittorio delle parti.
E, in proposito, si deve precisare che il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità di effettiva difesa (tra le tante, si veda in materia la recente Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, nonchè Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
Va inoltre ricordato come non sia ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione, quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa. La contestazione poi non va riferita soltanto al capo d'imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti, che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito (Sez. F, n. 43481 del 7 agosto 2012, Ecelestino e altri, Rv. 253582). In tal senso, dunque, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all'imputato di difendersi, mentre non è necessaria un'indicazione assolutamente dettagliata dell'oggetto della contestazione (Sez. 5, n. 6335/14 del 18 ottobre 2013, Morante, Rv. 258948; Sez. 2, n. 16817 del 27 marzo 2008, Muro e altri, Rv. 239758).
6. Non comprensibile è il quarto motivo di ricorso, con il quale si lamenta l'omessa motivazione in relazione al reato di ingiurie, in relazione al quale già in primo grado era stato dichiarato non doversi procedere per intervenuta remissione di querela.
7. Manifestamente infondato è il quinto ed ultimo motivo di ricorso.
La Corte territoriale ha determinato la pena e ha negato le attenuanti generiche in ragione della valutazione della gravità dei fatti, commessi da un genitore in danno della figlia, nella quale aveva insinuato la paura di essere uccisa e quindi costretta a una vita limitata tra casa e lavoro.
Giova ricordare in proposito che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario, Rv. 259142; precedenti conformi: n. 481 del 1992, Rv. 188951; n. 829 del 1995, Rv. 200641; n. 1182 del 2008, Rv. 238851).
La motivazione sopra riportata consente di ritenere pure ampiamente giustificata la mancata concessione delle attenuanti generiche, giacchè si tratta di un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità e che può ben essere giustificato attraverso l'esame esplicito dei criteri di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Dell'Anna e altri, Rv. 227142; Sez. 4, n. 2840 del 21/02/1997, La Legname e altro, Rv. 207668).
8. Sul primo, secondo, terzo, quinto e sesto motivo proposto con la memoria a firma dell'avv. Maria Del Grosso si è già sopra detto.
Va qui solo precisato che del tutto nuovo è il motivo relativo alla mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale mediante l'esame del teste B. e alla conseguente violazione di legge.
Tale doglianza, infatti, non è stata proposta con il ricorso, nel quale - come si è visto - le censure si sono incentrate soprattutto su vizi motivazionali sia in ordine alla affermazione di responsabilità sia in relazione alla ritenuta attendibilità della persona offesa.
Va qui ribadito il principio secondo il quale al ricorrente in cassazione non è consentito, con i motivi nuovi di cui all'art. 611 c.p.p., dedurre una violazione di legge se era stato originariamente censurato solo il vizio di motivazione (Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012, P.G. in proc. Strisciuglio e altri, Rv. 25232001).
D'altronde questa Corte da tempo ha chiarito che i motiv i "nuovi" devono consistere in un'ulteriore illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono l'originaria richiesta rivolta al giudice dell'impugnazione, nei limiti dei capi o punti della decisione oggetto del gravame, e pertanto non possono consistere in deduzioni riguardanti parti del provvedimento gravato che non sono state oggetto della primitiva impugnazione, frustrandosi altrimenti i termini prescritti dalla legge e la cui inosservanza è sanzionata con l'inammissibilità del gravame (Sez. 1, n. 2559 del 07/05/1998, Lauro, Rv. 21078701).
9. Analoghe considerazioni vanno fatte in relazione al motivo nuovo (il quarto) con il quale si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 99 c.p..
Peraltro dalla motivazione relativa alla determinazione del trattamento sanzionatorio si desume che la Corte territoriale non ha tenuto conto della recidiva contestata, indicando solo la pena fissata al di sopra dei limiti edittali sulla base dei criteri ex art. 133 c.p..
10. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione in favore dell'Erario delle spese di parte civile (ammessa al patrocinio per non abbienti), liquidate nella misura qui di seguito indicata in dispositivo.
A norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 va disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione in favore dell'Erario delle spese di parte civile, liquidate in complessivi Euro 2800,00 oltre accessori di legge. Oscuramento dati.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto d'ufficio.
Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2017.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2017