RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 21-03-2023, la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Vicenza in data 22-07-2022, assolveva Li.Bl. dal reato di lesioni di cui al capo 3 (artt. 582, 585 in relazione all'art. 576, primo comma, n. 5.1 e 577 cod. pen.) e rideterminava la pena, in relazione ai residui reati di cui ai capi 1 (artt. 81 cpv., 56,629 cod. pen.) e 2 (artt. 81 cpv., 61 n. 2, 612-bis, secondo comma, cod. pen.), commessi ai danni di Ja.Br., nella misura di anni due, mesi tre di reclusione ed Euro 600 di multa.
2. Avverso la predetta sentenza, nell'interesse di Li.Bl., è stato proposto ricorso per cassazione, per i motivi che vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. atto cod. proc. pen.
Primo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 629 e 612-bis cod. pen. Alla base degli accadimenti, per nulla chiari, vi è un conflitto tra imputato e persona offesa (Ja.Br.) per ragioni in parte di carattere economico, in parte per l'intercorsa relazione sentimentale; il tutto è risultato aggravato da una probabile situazione di tossicodipendenza della Ja.Br.. Quest'ultima non può dirsi credibile, sia per il contesto in cui la vicenda origina sia poiché talune sue condotte sono in aperto contrasto con quanto la stessa ha ritenuto di dichiarare. E' pacifico che, anche dopo le denunce, le liti, le presunte minacce, l'imputato e la persona offesa hanno ripreso più volte i rapporti, senza che ciò possa essere derivato da sentimenti di paura della donna. Con riferimento specifico al reato di "stalking", la Corte territoriale afferma che "la circostanza per cui la Ja.Br. non sia riuscita ad interrompere il legame con l'imputato e la sua frequentazione" dimostrerebbe come "la stessa fosse soggiogata dal Li.Bl. e non riuscisse a svincolarsi dal suo controllo e ad affrancarsi dalla sua coartazione perché seriamente e gravemente intimorita". L'argomentazione appare del tutto illogica e contraddittoriamente non considera che queste condotte sono state tenuta dalla persona offesa anche dopo aver denunciato l'imputato, circostanza che dimostra inequivocabilmente come la Ja.Br. non avesse temuto ritorsioni di sorta per aver portato all'attenzione delle Forze dell'Ordine la vicenda. Nei messaggi e nella gran mole di comunicazioni acquisite, non vi è traccia alcuna di condotte estorsive. Peraltro, se anche si volesse ritenere essere emersa una qualche finalità di riscossione di un credito nelle condotte del Li.Bl., semplici principi di favor rei avrebbero dovuto portare al più ad una configurazione del reato di cui all'art. 393 cod. peno In relazione, poi, al reato di stalking, v'è totale mancanza dei caratteri fondanti, così come assente è l'abitualità della condotta, posta in essere in un limitatissimo arco temporale. Non è presente, inoltre, la diretta finalizzazione alla persecuzione sul piano soggettivo: le condotte del Li.Bl. appaiono talvolta inurbane, eccessive e inopportune, ma si inseriscono in una modalità comunicativa tra i due caratterizzata da eccessi ma del tutto priva del dolo di persecuzione.
Secondo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 133, 62-bis e 81, primo e secondo comma, cod. peno La Corte territoriale non ha minimamente risposto alle censure svolte in sede di gravame in tema di trattamento sanzionatorio, essendosi limitata ad evidenziare la fragilità della persona offesa, senza alcuna reale considerazione dei criteri offerti dall'art. 133 cod. pen., né una parola viene spesa per giustificare la negazione delle circostanze attenuanti generiche. Lo stesso deve dirsi in riferimento agli aumenti operati per la continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ai reati di cui all'art. 629 e 612-bis cod. proc. pen.
Le doglianze proposte risultano generiche e meramente reiterative del corrispondente motivo di appello ed omettono di confrontarsi con la motivazione della sentenza, oltre a sollecitare una inammissibile rivalutazione della credibilità della persona offesa e del contenuto del materiale probatorio acquisito.
2.1. In proposito, il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui le regole dettate dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (cfr., Sez. U, n. 41461 del 19-07-2012, (Omissis), Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08-07-2014, dep. 2015, (Omissis), Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24-09-2015, (Omissis), Rv. 265104; Sez. 5, n. 21135 del 26-03-2019, S., Rv. 275312). Dette conclusioni appaiono tanto più giustificate se, come nella fattispecie, la persona offesa non si sia costituita parte civile, dal momento che, in tal caso, il valore delle dichiarazioni rese non subisce alcuna attenuazione, essendo il proprio coinvolgimento nel fatto assai più sfumato e potendosi parificare detta posizione a quella di qualunque altro dichiarante.
Peraltro, costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione secondo la quale la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 27322 del 14-04-2008, (Omissis), Rv. 240524; Sez. 3, n. 8382 del 22-01-2008, (Omissis), Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04-11-2004, dep. 2005, (Omissis), Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13-11-2003, dep. 2004, (Omissis), Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27-03-2003, (Omissis), Rv. 225232).
2.1.1. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come, a fronte della pedissequa reiterazione della doglianza, i giudici d'appello abbiano puntualmente disatteso le censure relative all'asserita inattendibilità della Ja.Br., ritenendo, con motivazione congrua e dettagliatamente articolata, di condividere la valutazione di linearità e logicità del racconto operata dal giudice di prime cure, anche alla luce della lettura dei verbali delle udienze del processo di primo grado, dai quali è emersa, peraltro, una posizione di lucida linearità emotiva della persona offesa. E, come sopra evidenziato, inoltre, le dichiarazioni della persona offesa, purché ritenute intrinsecamente credibili - come nella specie -possono essere poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità, senza che sussista la necessità di ricercare elementi di riscontro.
2.1.2. Anche per tale ragione, la paventata insussistenza, tra la documentazione comunque acquisita a supporlo dalle dichiarazioni della Ja.Br., di affermazioni contenenti l'espressa richiesta estorsiva volta al preteso recupero delle somme di denaro asserita mente vantate! dal ricorrente, appare generica e, in ogni caso, insuscettibile di resistere al complessivo giudizio di credibilità delle dichiarazioni della persona offesa, scevre da qualsivoglia intento calunniatorio.
2.2. Le ulteriori censure proposte, dirette a contestare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi delle fattispecie contestate, omettono di confrontarsi con la cospicua motivazione della sentenza, ed appaiono, in definitiva, sollecitare una inammissibile rivalutazione dei l'atti. Sul punto, occorre premettere che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, esula dai poteri del giudice di legittimità quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr., Sez. U, n. 6402 del 30-04-1997, (Omissis), Rv. 207944; Sez. 4, n. 4842 del 02-12-2003, dep. 2004, (Omissis), Rv. 229369).
2.3. Con riferimento in particolare, al delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen., il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità riconosce come il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l'abitualità del reato, né inficia la continuità delle condotte, quando sussista l'oggettiva e complessiva idoneità delle stesse a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in una delle forme descritte dall'art. 612-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 17240 del 20-01-2020, I., Rv. 279111).
2.3.1. Nella fattispecie, l'andamento altalenante della convivenza e la mancata interruzione del legame nonostante le intimidazioni subìte (da collocarsi nel contesto di una verificata fragilità emotiva e psicologica della vittima), unitamente alla conflittualità del rapporto tra il ricorrente e la Ja.Br., paiono coerentemente considerati ai fini della prova dei reati oggetto di condanna.
2.3.2. Del tutto generica appare, poi, la doglianza sulla diversa interpretazione dei messaggi, ritenuti dalla Corte territoriale, intimidatori con motivazione congrua e, come tale, insindacabile nella presente sede di legittimità.
2.4. D'altro lato, assolutamente reiterativa deve ritenersi la doglianza con la quale il ricorrente propugna la sussunzione del fatto entro la fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone di cui all'art. 393 cod. proc. pen., a fronte dell'ineccepibile percorso logico argomentativo della Corte di appello, che ha, correttamente, escluso che nella fattispecie concreta fossero ravvisa bili gli estremi del reato di "ragion fattasi", atteso che la pur esistente pretesa creditoria - ammessa, seppure in parte nel quantum, dalla stessa vittima, si riferisce, tuttavia, al corrispettivo per una partita di sostanza stupefacente, colorando di illiceità il rapporto contrattuale e condizionandone l'azionabilità in giudizio, circostanza, questa, sola idonea a consentire di sussumere il fatto nei termini di cui all'art. 393 cod. proc. pen.
Proprio la convinzione, da parte del Li.Bl., di agire con la finalità di recuperare il supposto credito di 3.000 Euro, come correttamente sottolineato dalla Corte territoriale, non trovava fondamento in alcun titolo lecito ed idoneo, pertanto, a configurare la sussistenza di una legittima pretesa creditoria tutelabile con un'azione giudiziaria.
2.5. Nelle restanti articolazioni, il motivo di ricorso propone censure in fatto ed omette il doveroso confronto con l'ampia e congrua motivazione resa sul punto.
3. Il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole del trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato.
3.1. La Corte territoriale, nel confermare la validità delle scelte compiute in ordine alla determinazione della pena dal giudice di primo grado, ha posto in evidenza non soltanto le ricadute psicologiche che i reati commessi hanno determinato nella vittima, ma anche la complessiva gravità dei fatti.
In tal modo, la Corte territoriale ha implicitamente dato conto dell'impossibilità di addivenire ad una mitigazione della pena inflitta.
Si consideri, al riguardo, quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi rigettata con motivazione implicita la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche, in presenza di adeguata motivazione circa la richiesta della attenuazione del regime sanzionatorio, basata su analogo ordine di motivi (cfr., Sez. 4, n. 2840 del 21-02-1997, (Omissis), Rv. 207668; Sez. 1, n. 12624 del 12-02-2019, (Omissis) .n, Rv. 275057).
3.2. In ogni caso, quanto al lamentato vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sembra che la medesima censura non sia stata previamente dedotta come motivo di appello, secondo quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall'art. 606, comma 3, cod. proc. pen.
Occorre, poi, ricordare che la concessione o il diniego delle circostanze attenuanti generiche costituiscono l'esplicazione di un potere discrezionale del giudice del merito, il quale non è tenuto in particolare a motivare il diniego ove, in sede di conclusioni, non sia stata formalizzata specifica istanza con l'indicazione delle ragioni atte a giustificarne il riconoscimento (Sez. 3, n. 26272 del 07-05-2019, (Omissis), Rv. 276044).
In tale prospettiva, il mero stato di incensuratezza addotto dal ricorrente, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis cod. pen., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, non è più sufficiente ai fini della concessione della diminuente e, peraltro, come osservato dalla Corte territoriale, appare circostanza smentita dagli atti processuali, dai quali risulta che il Li.Bl., durante il processo, si trovava già detenuto per altra causa presso la Casa Circondariale di V , nonché sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa.
3.3. Nel resto, le censure che mirano a contestare l'entità degli aumenti a titolo di continuazione non meritano accoglimento, in quanto la Corte territoriale ha correttamente giustificato l'entità dei singoli aumenti disposti, valorizzando l'ampio arco temporale entro il quale si sono sviluppate le condotte estorsive e persecutorie, dilatatesi in più mesi in considerazione della reiterazione delle condotte illecite pur successivamente alla proposizione della denuncia da parte della persona offesa.
In tale quadro, appare priva di pregio la censura diretta ad evidenziare che i capi di imputazione riportino unicamente le date del 7,9, e 21 febbraio 2021 (quest'ultima, con successiva condotta perdurante), poiché entrambi i reati per cui si procede sono contestati in forma "aperta", circostanza che consente, pertanto, di valorizzare appieno il consistente profilo temporale delle condotte illecite ai fini dell'entità degli aumenti a titolo di continuazione, insuscettibili di rivalutazione in sede di legittimità.
4. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila, così quantificata in ragione dei profili di colpa emergenti dal ricorso, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2024.