top of page

Stalking: il riavvicinamento tra vittima e persecutore può costituire elemento idoneo ad incidere sulla genuinità della testimonianza della vittima

Stalking

Cassazione penale sez. V, 18/01/2021, n.8895

Nei procedimenti relativi al reato di atti persecutori, anche il riavvicinamento o la riappacificazione tra vittima e persecutore possono costituire un "elemento concreto" idoneo, ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p., ad incidere sulla genuinità della deposizione testimoniale della persona offesa, che, ove non possa rimettere la querela, perché irrevocabile, potrebbe essere indotta a circoscrivere, limitare o revocare le dichiarazioni accusatorie in precedenza rese. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima l'acquisizione e l'utilizzazione delle originarie dichiarazioni della persona offesa che, dopo aver denunciato le reiterate condotte di violenza e minaccia subite, per paura di future ulteriori ritorsioni aveva ritrattato e ridimensionato in dibattimento le accuse).

Atti persecutori: la reiterazione delle condotte produce un evento unitario di danno desumibile dal turbamento psicologico della vittima

Atti persecutori: perché l’attenuante della provocazione è esclusa

Recidiva nello stalking: obbligo di contestazione specifica per ogni reato

Atti persecutori: rilevanza giuridica dei messaggi assillanti anche sui social

Atti persecutori: le condotte reiterate configurano il reato anche con lunghe pause

Atti persecutori: il grave turbamento si desume anche senza certificato medico

Stalking: il riavvicinamento episodico non interrompe la continuità del reato

Stalking o maltrattamenti? Come distinguere i reati dopo la separazione

Atti persecutori o molestie? Le differenze tra i due reati

Fine convivenza: maltrattamenti in famiglia o atti persecutori? Ecco quando si configurano

Sospensione condizionale e percorsi di recupero in caso di stalking: quando si applica la legge del 2019

Maltrattamenti o atti persecutori? Cosa succede dopo la fine della convivenza

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Trieste ha parzialmente riformato, limitatamente al trattamento sanzionatorio, la decisione del Tribunale di quella stessa città - che aveva riconosciuto D.K. colpevole di atti persecutori, in esso assorbito il delitto di minaccia di cui al capo 2) - aumentando la pena inflitta all'imputato, e revocando il beneficio della sospensione condizionale della pena, avendo considerato il ricorrente un soggetto socialmente pericoloso e privo di qualsiasi percorso interiore di ravvedimento e pentimento. 2. Propone ricorso per cassazione D.K., con il ministero del difensore abilitato, che svolge due motivi. 2.1. Con il primo, deduce violazione dell'art. 612 bis c.p., comma 4, perché la Corte di appello avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non luogo a procedere per remissione della querela della persona offesa, non essendo rinvenibili, nella condotta contestata, le connotazioni di cui all'art. 339 c.p., richieste dal rinvio disposto dall'art. 612 bis c.p., comma 4, ai fini della irrevocabilità della querela. D'altro canto, secondo la Difesa, mancherebbe anche il requisito della gravità della minaccia. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 500 c.p.p. e art. 612 bis c.p.. Ci si duole che le conclusioni alle quali é pervenuta la Corte di merito siano state condizionate dalle contestazioni formulate dal P.M. nel corso dell'esame della persona offesa che, in dibattimento, ha del tutto ritrattato le dichiarazioni rese in sede di denuncia - querela; contestazioni che hanno caratterizzato anche l'esame del teste Kr.. Sostiene la Difesa che, per le ritrattazioni dibattimentali, la Corte di appello ha infondatamente ravvisato a carico della persona offesa gli estremi della falsa testimonianza (invece della calunnia) sul presupposto, del tutto indimostrato, che avesse subito pressioni da parte dell'imputato per ridimensionare le iniziali dichiarazioni e rimettere la querela. 3. Con requisitoria scritta del 22/12/2020, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, Dr. Paola Filippi, ha chiesto il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi. 4. Con memoria del 13 gennaio 2021 il difensore del ricorrente ha depositato conclusioni scritte insistendo per l'accoglimento di entrambi i motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso non é fondato. 1. E' infondato il primo motivo, che pone la questione della improcedibilità del reato di atti persecutori a seguito della remissione di querela da parte della persona offesa. Nel caso in scrutinio, infatti, gli atti persecutori sono stati integrati anche attraverso la reiterazione di minacce gravi, con le modalità espressamente descritte e contestate nel capo 2, che già il Tribunale aveva ritenuto assorbito nel reato di stalking, di cui al capo 1. Da tanto, deriva la irrevocabilità della querela, ai sensi dell'art. 612 bis c.p., comma 4, e l'infondatezza della doglianza difensiva. 1.1. E' noto, infatti, che la disciplina della querela per il reato di cui all'art. 612 bis c.p., soggiace a regole particolari (essa può essere proposta nel termine di sei mesi (e non entro gli ordinari tre mesi), che riguardano anche la remissione della querela (che può essere solo processuale), prevedendosi alcuni casi di irrevocabilità, se il fatto é stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'art. 612, comma 2. La querela può essere, infatti, ritenuta irrevocabile in presenza di due presupposti: la reiterazione delle minacce e l'espressione delle stesse nei modi previsti dal precedente art. 612 c.p., comma 2. Si duole il ricorrente che la Corte di appello abbia affermato la irrevocabilità della querela in carenza della gravità delle minacce e delle connotazioni di cui all'art. 339 c.p.. 1.2. La doglianza é palesemente infondata, innanzitutto perché la reiterata gravità delle minacce é stata contestata chiaramente nel capo 2 dell'imputazione, ritenuto assorbito nel reato di atti persecutori di cui al capo 1, trattandosi di minacce commesse nel medesimo contesto spaziale e fattuale (Sez. 5 - n. 12730 del 21/01/2020, Rv. 278862). Le minacce in questione, infatti, secondo il contenuto del capo di imputazione, sono state commesse mediante l'invio di numerosi messaggi telefonici del seguente tenore: "Vi ucciderò tutti e due"; "non finisce qui"; "vengo a te e ti entro in casa"; "ti ucciderò"; e di altri di analogo contenuto, nonché di un file audio registrato dall'imputato in una occasione in cui picchiava la ragazza che gli giurava che si sarebbe comportata come lui voleva, tutti riportati nel capo 2. E' del resto incontestato che, per quanto risulta chiaramente dagli atti, tali messaggi erano stati inviati dal telefono cellulare dell'imputato alla persona offesa, con la quale, all'epoca, intratteneva una relazione sentimentale. Giova solo ricordare che, secondo pacifico orientamento di questa Corte, con l'espressione "minaccia grave" contenuta nell'art. 612 c.p., comma 2, il legislatore ha inteso dare rilievo al turbamento psichico che l'atto intimidatorio può cagionare nel soggetto passivo, e che, ai fini della valutazione della gravità della minaccia, i criteri, che debbono orientare il giudice di merito nel suo prudente apprezzamento, sono costituiti dal tenore delle espressioni verbali profferite e, come affermato in alcune pronunce, dal contesto in cui esse vengono pronunciate (Sez. 6, n. 35593 del 16/6/2015, Romeo, Rv. 264341; Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, Criscio, Rv. 275889), con valutazione suscettibile di controllo da parte del Giudice di legittimità sotto il profilo della logicità e completezza della motivazione. Nel valutare se e in quale grado le minacce avessero ingenerato timore o turbamento nella persona offesa, i giudici di merito, con motivazione allineata al richiamato orientamento, e immune da vizi, sulla base del criterio della verosimiglianza della lesione del bene della vita insito nella intimidazione con la quale se ne prospetti, alla vittima, la soppressione, hanno valorizzato le violente aggressioni perpetrate ai danni della P., anche per futili motivi, nonché le evidenze provenienti dalla prova dichiarativa circa lo stato di frustrazione della donna, descritta come persona terrorizzata dalla presenza dell'imputato. 1.3. Quanto al secondo aspetto segnalato dalla Difesa, già con la sentenza n. 28713 del 21 giugno 2018 questa Corte ha chiarito che il rinvio operato dall'art. 612 bis, al comma 2 dell'art. 612 deve intendersi "pieno", riferendosi, quindi, a tutti i casi di minaccia di cui all'art. 612 c.p., comma 2, purché accompagnata dall'ulteriore requisito della reiterazione (sez. 5 n. 28713 del 24 maggio 2018, n. m.), vale a dire che la predetta disposizione di legge sancisce la irrevocabilità della querela se le minacce sono reiterate e connotate da gravità o perché commesse nei modi di cui all'art. 339 c.p.. In successive pronunce si é , altresì, chiarito che nessuna implicazione ha, rispetto all'irrevocabilità della querela per il delitto di stalking, la modifica normativa che ha interessato il reato di minaccia grave ex art. 612 c.p., comma 2, che ha visto mutare il proprio regime di procedibilità - da ufficio a querela di parte - a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36 (sez. 5 n. 12801 del 21/02/2019, Rv. 275306; Conf. 5092 del 14/01/2020, non mass.). Questo perché la previsione é dettata, evidentemente, per le situazioni nelle quali la particolare incidenza intimidatoria della condotta induce a temere che la remissione della querela non abbia i caratteri di assoluta volontarietà e libertà e renda, quindi, inopportuno, affidare interamente alle determinazioni della persona offesa la perseguibilità del reato, in linea con i principi di cui all'art. 55 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza sulle donne (ratificata dal Parlamento con L. 27 giugno 2013, n. 77, in base alla quale é necessario garantire la prosecuzione del processo penale per determinati reati di violenza, anche quando la persona offesa dovesse ritrattare l'accusa o procedere alla remissione di querela), in attuazione della quale la L. 15 ottobre 2013, n. 119, art. 1, ha introdotto, appunto, le disposizioni riguardanti la remissione di querela, e la sua irrevocabilità, contenute nell'art. 612 bis c.p., comma 4. La ratio della scelta di rendere irrevocabile la querela si fonda sull'espressa esigenza di impedire che la persona offesa possa essere assoggettata a pressioni o minacce finalizzate proprio a consentire l'estinzione del processo a carico dell'autore del reato. Come si é osservato in dottrina, si tratta di una scelta apprezzabile anche sotto altra angolazione, in quanto, privando la persona offesa dello strumento processuale tipico per porre fine al processo, quale é la remissione di querela, impedisce anche la "permuta tra valori che possono essere ritenuti non negoziabili quali la libertà sessuale o la libertà personale e la monetizzazione degli stessi che avviene negli accordi di risarcimento del danno da reato condizionati alla remissione della querela che ha dato impulso al processo". Giova aggiungere che la discussione parlamentare che ha portato alla legge di conversione 15 ottobre 2013 n. 119, con modificazioni, del D.L. n. 93 del 2013, é stata condizionata dalle ragioni della opzione contraria alla scelta di impedire la revocabilità della querela, che evidenziavano la problematicità suscitata dalla circostanza che il processo dovesse in ogni caso proseguire, anche quando l'autore del reato e la vittima si fossero riconciliati e fossero terminati i comportamenti molesti. Per questo, la soluzione privilegiata dal legislatore ha comportato un parziale ritorno, rispetto al D.L. n. 93 del 2013, del principio generale della revocabilità della querela, a cui si affiancano le ipotesi eccezionali di irrevocabilità. La querela, nel caso di specie, deve, dunque, qualificarsi, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, irrevocabile, in ragione delle reiterate gravi minacce subite dalla vittima. 3. Anche il secondo motivo, che denuncia l'illegittimo utilizzo, ai fini della valutazione di responsabilità, di contenuti dichiarativi emersi in dibattimento attraverso le contestazioni, é infondato, dal momento che la Corte di appello ha affermato la responsabilità del ricorrente attenendosi a consolidati canoni ermeneutici. 3.1. E' noto, infatti, che le dichiarazioni fornite dal testimone nel corso delle indagini preliminari e lette per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. - al di fuori dei casi di consenso delle parti o di violenza, minaccia o subornazione possono essere valutate solo ai fini della credibilità dello stesso, non come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese (Sez. 3, n. 20388 del 17/02/2015, Rv. 264035; conf. Sez. 2, n. 13910 del 17/03/2016, Rv. 266445). Di contro, si ritiene che le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone, che siano state successivamente confermate - anche se in termini laconici -, vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale (Sez. 4, n. 19873 del 09/03/2009, Rv. 244042; conf. Sez. 2, n. 35428 del 08/05/2018, Rv. 273455). Si tratta, in sostanza, di contenuti predibattimentali che non entrano "automaticamente" nel compendio probatorio utile per l'accertamento di responsabilità, dal momento che l'utilizzo come prova dei contenuti dichiarativi emergenti dalle contestazioni dipende dall'atteggiamento dibattimentale del dichiarante: se questi li ritratta, tali contenuti non potranno essere utilizzati (salva la possibilità di attivare l'incidente previsto dall'art. 500 c.p.p., comma 4); se il testimone li conferma, essi assumono, invece, dignità dibattimentale e, qualora siano valutati credibili, possono essere utilizzati come prova della responsabilità. Peraltro, il codice individua i casi in cui le dichiarazioni predibattimentali non confermate in contraddittorio possono essere utilizzate come prova, ovvero i casi di impossibilità oggettiva imprevedibile e sopravvenuta di ripetizione (artt. 512 e 512 bis c.p.p.) ed i casi in cui l'incidente dibattimentale previsto dall'art. 500 c.p.p., comma 4 abbia condotto alla verifica della subornazione. 3.2. Sotto tale ultimo profilo, giova ricordare che, ai fini dell'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni in precedenza rese dal teste ai sensi dell'art. 500 c.p.p., comma 4, il procedimento incidentale diretto ad accertare se il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro al fine di non deporre o di deporre il falso, pur non richiedendo una prova certa oltre ogni ragionevole dubbio, deve, comunque, fondarsi su elementi sintomatici e rivelatori dell'intimidazione subita dal teste, connotati da precisione e persuasività, non potendosi ritenere sufficienti i meri sospetti o soltanto il timore soggettivo di potere essere minacciato (Sez. 1 n. 2511 del 12/0572015, Rv. 264016; Sez. 2 n. 50323 del 22/10/2013, Rv. 257978). Si é già affermato che gli elementi concreti, sulla base dei quali é possibile ritenere che il testimone sia stato sottoposto a pressioni, desumibili da qualunque circostanza sintomatica della subita intimidazione, purché connotata da obiettività e significatività, possono essere integrati anche dalle modalità della deposizione o dal contegno tenuto in dibattimento, e, quindi, anche soltanto da circostanze emerse nello stesso dibattimento, qualora la prudente valutazione del giudice gli consenta di cogliere dall'atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale i segni della subita intimidazione (Sez. 6, n. 29342 del 10/04/2019, Rv. 276279). Nella giurisprudenza di legittimità, nell'affrontare la questione processuale che attiene alla possibilità di acquisire ex art. 500 c.p.p., comma 4, i verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalla persona offesa, nell'ipotesi in cui questa, in dibattimento, ritratti le suddette dichiarazioni, con riferimento al delitto di violenza sessuale (per il quale, l'art. 609-septies c.p. contiene un'analoga previsione di irrevocabilità della querela), si é ritenuto che anche il riavvicinamento o la riappacificazione della persona offesa e dell'imputato possono costituire un "elemento concreto" idoneo, ai sensi dell'art. 500 c.p.p., comma 4, ad incidere sulla genuinità della deposizione testimoniale della persona offesa, nel senso che questa, non potendo rimettere la querela (poiché irrevocabile), potrebbe essere indotta a circoscrivere, limitare o revocare le dichiarazioni accusatorie in precedenza rese. (Sez. 3, n. 38109 del 03/10/2006, Rv. 235756; conf. Sez. 3, n. 27117 del 04/03/2015 Rv. 264032). L'approdo é utilizzabile anche con riguardo alla fattispecie degli atti persecutori, essendo coerente con la ratio sottesa alla modifica legislativa dell'art. 612 bis c.p. - con la quale si é scelto di impedire la possibilità di remissione della querela - individuabile, come si é già ricordato, nella salvaguardia della persona offesa da eventuali pressioni o minacce da parte dell'autore del reato, finalizzate proprio ad ottenere la remissione e quindi l'estinzione del processo. Finalità che potrebbe essere, invece, elusa dalla ritrattazione delle proprie accuse nel momento in cui la vittima é sottoposta ad esame in dibattimento, ex art. 500 c.p.p.. 3.3. Giova altresì ricordare che, per condiviso orientamento giurisprudenziale, in ordine alle modalità di valutazione delle dichiarazioni acquisite ex art. 500 c.p.p., comma 4 e al rapporto fra queste e quelle rese in dibattimento dal teste minacciato, le violenze, le minacce, le offerte o le promesse di denaro o di altre utilità al testimone, affinché non deponga ovvero deponga il falso, autorizzano sì il giudice a disattendere la deposizione del teste in giudizio, ad acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni predibattimentali del teste medesimo, contenute nel fascicolo del pubblico ministero, ma non lo esonerano dal vagliare, secondo la regola di giudizio di cui all'art. 192 c.p.p., l'attendibilità di queste ultime, che non può essere ritenuta automatica sulla scorta dell'accertato fattore illecito esterno (Sez. 2, n. 50323 del 22/10/2013, Rv. 257980 - 01; conf. Sez. 2 -, n. 50035 del 19/09/2018, Rv. 274716). Si é infatti chiarito che "l'art. 500 c.p.p., commi 4 e 5, in presenza di circostanze emerse nel corso del giudizio, tali da lasciar fondatamente ritenere che l'esame dibattimentale sia stato inquinato affinché non riproduca quanto il teste ebbe a dichiarare in sede d'indagine, consente, per ripristinare il libero contraddittorio dibattimentale, il recupero proprio di ciò che l'intervento esterno voleva disperdere, autorizzando il giudice (ove questi ritenga realizzata l'ipotesi) ad apprezzare la dichiarazione resa precedentemente ed a valutarla come prova dei fatti affermati, salvo sempre l'obbligo di motivarne l'attendibilità (non automaticamente desumibile dall'intervento del fattore illecito esterno), anche mediante il ricorso ad elementi intrinseci della dichiarazione stessa: se, infatti, ravvisare delle violenze o delle minacce al teste costituisce una valida ragione per disattendere la deposizione resa in giudizio, non per ciò solo é possibile senz'altro ritenere vera, acriticamente, la dichiarazione predibattimentale" (Sez. 2, n. 50323 del 22/10/2013 Rv. 257980). 3.4. Venendo al caso in scrutinio, deve evidenziarsi che é la Corte di appello a ritenere "evidente, ex art. 500 c.p.p., comma 2, l'assoluta inattendibilità del contenuto della deposizione resa dalla persona offesa nel corso del dibattimento" (pg. 5); a sostenere che la persona offesa "ha ritrattato, giungendo perfino a rimettere la querela, non solo per il fatto di trovarsi in una condizione di sudditanza psicologica ma altresì per il timore di subire ulteriori ritorsioni e violenze da parte dell'imputato medesimo, il quale ha approfittato di tale condizione di inferiorità psicologica e fisica della persona offesa per ottenere da costei il compimento di azioni tese a neutralizzare la precedente denuncia" (pg. 10); ad affermare che "il contenuto della deposizione della persona offesa integra il diverso delitto di falsa testimonianza, avendo al teste ritrattato le accuse verosimilmente per il rinnovato timore di essere nuovamente sottoposta a reiterati maltrattamenti da parte dell'imputato" (pg. 3). Insomma, secondo i giudici distrettuali, proprio per effetto delle reiterate minacce subite, la testimonianza della persona offesa era da considerarsi chiaramente reticente a cagione delle intimidazioni subite dall'imputato. Conseguentemente, la regula juris valevole nel caso di specie é quella declinata dall'art. 500 c.p.p., comma 4, a tenore del quale il giudizio sulla colpevolezza va effettuato solo sulla base della valutazione delle dichiarazioni rese dal teste nella fase delle indagini preliminari (Sez. 2 n. 50035 del 19/09/2018, Rv. 274716). Dichiarazioni che neppure necessitano di riscontri esterni, secondo la regola generale dell'art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, essendo sufficiente la semplice testimonianza della persona offesa, ove questa risponda a criteri di logicità e coerenza intrinseca, secondo l'orientamento, oramai consolidato di questa Corte, (cfr. ex multis Sez. 2, n. 7667 del 29/1/2015, Rv. 262575; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Rv. 239342), per cui, in tema di valutazione della prova testimoniale, l'attendibilità della persona offesa dal reato é una questione di fatto, che ha la sua chiave di lettura nell'insieme di una motivazione logica, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni; ipotesi, quest'ultima, che non ricorre affatto nella specie. 3.5. Deve rilevarsi, tuttavia, che, in realtà, la Corte di merito ha ricostruito la responsabilità dell'imputato - nonostante le ritrattazioni della persona offesa effettuando una puntuale ricognizione delle fonti di prova dibattimentali, le ha sinergicamente valutate attraverso un iter ricostruttivo che ha posto in luce la personalità dell'autore e della vittima e la natura del rapporto intercorso tra i due, come emersi sia dalla prova dichiarativa che dalle acquisizioni documentali. In particolare, dalla numerosa messaggistica e dalla certificazione medica, ha tratto la reiterazione di condotte violente e minacciose da parte del ricorrente nei confronti della persona offesa, lo stato di prostrazione fisica e psicologica di quest'ultima, testimoniato anche dalla polizia giudiziaria, intervenuta su richiesta della donna. Ancora, sono state evidenziate, quali fonti di prova obiettive, oltre alle stesse dichiarazioni dell'offesa che, in dibattimento, pur in sede di ritrattazione, ha dichiarato che "...a me hanno dato fastidio le minacce...", anche le precise e credibili dichiarazioni dell'amica Kr., che ha ricostruito la trama dei rapporti esistenti tra le parti, riferendo delle violenze e delle minacce gravi che da sempre avevano caratterizzato la condotta del ricorrente, avendovi anche assistito in alcune occasioni. E' alla luce di tali plurimi elementi di prova acquisiti nel dibattimento, nonostante le ritrattazioni della persona offesa, che la Corte distrettuale ha confermato l'affermazione di responsabilità, che si fonda, quindi, non tanto sulle dichiarazioni rese dalla vittima durante le indagini - ai sensi dell'art. 500 c.p.p., comma 4 - quanto su elementi probatori decisivi e indipendenti dal contenuto delle dichiarazioni della persona offesa, secondo una valutazione condotta dalla Corte di appello ai sensi del citato art. 500, comma 2, con la quale, peraltro, il ricorrente non si confronta neppure. 3.6. Ritiene, in sintesi, il Collegio che, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, la Corte di merito ha ravvisato nella testimonianza della persona offesa un chiaro tentativo di ridimensionare l'accaduto, sotto la spinta dalla paura di future ulteriori gravi ritorsioni, così ragionevolmente ritenendo integrata la situazione di cui all'art. 500 c.p.p., comma 4, che, secondo le coordinate ermeneutiche indicate, consente di utilizzare, ai fini della prova della responsabilità, le dichiarazioni rese dalla persona offesa durante le indagini preliminari. Tuttavia, i giudici di merito hanno effettuato la valutazione circa la sussistenza dei fatti contestati anche alla luce del complessivo compendio probatorio acquisito nel corso della progressione processuale, ritenendo poco "credibile" il tentativo di ridimensionamento emerso, e ricostruendo sulla base di tali, ulteriori, convergenti fonti di prova la responsabilità del ricorrente, nel rispetto della regola di giudizio di cui all'art. 500 c.p.p., comma 2. Così operando la Corte territoriale ha reso una motivazione che copre ogni aspetto della valutazione di merito, senza fratture logiche manifeste e decisive ed é in linea con le indicate coordinate ermeneutiche. 4. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 4.1. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2021. Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021
bottom of page