RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'appello di Firenze ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal Tribunale di Pistoia, che aveva condannato S.F. per atti persecutori in danno di T.E., donna con cui aveva avuto una relazione sentimentale.
Secondo quanto accertato in sentenza l'imputato, che aveva vissuto una relazione burrascosa con la donna, a causa del suo carattere violento e dell'uso di alcol, dopo la rottura definitiva della relazione, avvenuta il (OMISSIS), prese a molestare (con continue telefonate; con passaggi frequenti davanti al negozio della donna; con richieste di denaro, fatte vantando crediti inesistenti; con l'impedirle, in una occasione, di muoversi dal luogo in cui aveva parcheggiato l'auto), ingiuriare e persino aggredire la ex-convivente, fino a procurarle un grave e persistente stato di ansia e di paura.
Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa e dei genitori, nonchè del figlio e di vari clienti del negozio gestito dalla donna.
2. Ricorre per cassazione S.F., a mezzo del difensore, con due motivi.
Col primo lamenta l'erronea applicazione dell'art. 336 cod. proc. pen., derivante dal fatto che solo nella denuncia del 29 agosto 2010 è contenuta l'istanza di punizione del colpevole, mentre tutti quelli successivi mancano della richiesta condizione di procedibilità. Perciò, trattandosi di episodi occorsi in soli tre giorni, verrebbe meno la stessa esistenza del reato.
Col secondo lamenta una contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione attinente al giudizio di responsabilità. I giudici di merito non hanno tenuto conto - nonostante la sua espressa allegazione e l'esistenza di prove a suo favore - del fatto che era stato lui a lasciare la T., avendo avviato una nuova relazione sentimentale, e non viceversa, sicchè non aveva nessun motivo di ricercarla e molestarla. In effetti, deduce, la sua ricerca della donna era finalizzata esclusivamente ad ottenere la restituzione di quanto dovutogli (Euro 1.500). Invece, era la donna a nutrire acredine nei suoi confronti, tant'è che lo accusò ingiustamente dell'incendio del suo negozio, avvenuto il 28 agosto 2010, e di aver rubato nel negozio stesso: il tutto perchè era stata da lui lasciata e per soddisfare il desiderio di vederlo in galera.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non merita accoglimento.
1. Il carattere del delitto di atti persecutori, quale reato abituale improprio (in quanto fatto di condotte che, seppur prese isolatamente, costituiscono reato), rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere anche dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende anche a queste ultime, poichè, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l'elemento oggettivo del reato (Cass., n. 41431 del 11/7/2016, rv 267868). Il primo motivo di ricorso è perciò infondato.
2. Il motivo relativo alla responsabilità è inammissibile, perchè meramente ripetitivo di doglianze già espresse dinanzi al giudice d'appello e da questi motivatamente disattese, laddove è stato fatto rilevare che i contrasti in ordine ai rapporti economici esistenti tra i due non escludono un atteggiamento e una volontà persecutoria dell'uomo e che le accuse relative all'incendio dell'autovettura e al furto nel negozio non possono affatto dirsi connotate di fine calunniatorio, essendo solo espressive del sospetto, nutrito dalla donna e legittimamente manifestato in denuncia, che si trattasse di atti posti in essere dall'imputato per fini vendicativi. Per il resto, la sentenza è ricca di elementi probatori - provenienti non solo dalla persona offesa, ma anche dalla madre e dal figlio di quest'ultima e da testi estranei (compresi agenti di polizia), nonchè dall'esame dei tabulati telefonici e delle conversazioni telefoniche - tutti univocamente convergenti verso l'ipotesi accusatoria e compiutamente valorizzati dal giudicante, sicchè il dedotto vizio motivazionale è palesemente insussistente. A nulla vale osservare, quindi, che la Corte territoriale non abbia confutato espressamente la tesi difensiva (secondo cui le accuse della donna originavano dall'acredine nutrito nei suoi confronti), dal momento che quella tesi è in radicale contrasto con la ricostruzione della vicenda, per come operata dal giudicante. Si tratta, quindi, di tesi non implicitamente smentita, ma palesemente disattesa: il che esclude il dedotto vizio motivazionale.
3. Segue il rigetto del ricorso atteso che i motivi proposti, in parte infondati e in parte inammissibili, non possono trovare accoglimento per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell'art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p. il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2018