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IL CASO DI STUDIO: Bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, assoluzione parziale.




Il caso di studio riguarda un processo per bancarotta fraudolenta distrattiva celebrato dinanzi alla Corte di Appello di Napoli contro diversi imputati, conclusosi con una sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto per alcuni degli imputati.

CASO DI STUDIO: Bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, assoluzione parziale.

Indice:


IL CASO

Capo di imputazione: A) del delitto p. e p. dagli artt. 110 c.p., 216 comma 1 n. 1 e comma 2, 219 comma 2 n. 1 e 223 RD 267/1942, perché, in concorso ed unione tra

loro,

- Pe. Ge. in qualità di amministratore (Presidente del C.d.A.) della società "CO. Co. Me. La. a r.l." dal maggio 2001 al 24.9.2008 e di liquidatore della medesima società dal 24.9.2008,

- Po. Pa. in qualità di amministratore legale (Presidente del C.d.A.) fino al 2001 e successivamente di amministratore di fatto della società

"CO. Co. Me. La. a r.l.",

- Co. An. in qualità di liquidatore della società "CO. Co. Me. La. Ar.l.",

- Ca. Vi. in qualità di vicepresidente del C.d.A. e di amministratore di fatto della società "CO. Co. Me. La. a r.l.", nonché amministratore unico della IT. IM. TE. srl (società avente il medesimo oggetto e il medesimo scopo sociale della cooperativa, che ha continuato a svolgere la medesima attività con l'utilizzo degli impianti, dei macchinari e delle rimanenze di materiale, con le medesime commesse ed avvalendosi della medesima forza lavoro e dell'avviamento),

- Ca. Ra. in qualità di consigliere di amministrazione della società "CO. Co. Me. La. a r.l." dal 16.10.2006 e di socio e amministratore di fatto della IC. It. srl (il cui amministratore unico è la moglie) e di socio della IT. IM. TE. srl (il cui amministratore unico è il padre),

- De Ro. Da. in qualità di amministratore unico della IC. It. Srl (società avente il medesimo oggetto e il medesimo scopo sociale della IT. IM. TE. srl e, quindi, della cooperativa, che ha continuato a svolgere la medesima attività con l'utilizzo degli impianti, dei macchinari e delle rimanenze di materiale, con le medesime commesse ed avvalendosi della medesima forza lavoro e dell'avviamento), allo scopo di recare pregiudizio ai creditori della società fallita e di recare a sé o ad altri un ingiusto profitto, tenevano le scritture contabili obbligatorie della società in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio fallimentare e dei movimenti degli affari, e distraevano beni facenti parte del patrimonio sociale,

ed in particolare:

- distraevano beni della società CO. Co. Me. La. a r.l. che venivano ceduti a titolo gratuito prima alla IT. IM. TE. srl e poi alla IC. It. srl in favore delle quali veniva effettuata una complessiva dismissione aziendale;

- distraevano, in ogni caso, materie prime e merci - o i relativi corrispettivi - per un valore complessivo di Euro 743.635,00;

- distraevano il saldo cassa della fallita cooperativa per un ammontare di Euro 10.500,00,

così determinando il dissesto della società CO. Co. Me. La. a r.l. e sottraendo l'intera azienda alla garanzia patrimoniale dei creditori, a fronte di un attivo rinvenuto di fatto inesistente. Con l'aggravante di aver cagionato un danno di notevole entità e di aver commesso più fatti tra quelli previsti dall'art. 216 L. Fall.

In (omissis), sentenza dichiarativa di fallimento del 19 ottobre 2011

Con la recidiva per Pe. Ge. e Co. An.


Decisione: Imputato assolto per non aver commesso il fatto.

Il Collegio ha affermato che i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, L.F.) e quello di bancarotta impropria di cui all'art. 223 comma secondo, n. 2, L.F. hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività - né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili - ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento.


IL TESTO DELLA SENTENZA

Tribunale Napoli sez. III, 08/02/2022, (ud. 28/01/2022, dep. 08/02/2022), n.830

Svolgimento del processo

Con decreto emesso in data 23.12.2016, il Gup del Tribunale di Napoli disponeva il rinvio a giudizio di Pe. Ge., Po. Pa., Co. An., Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da. per i reati di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, e bancarotta impropria, analiticamente indicati in epigrafe.


All'udienza del 26.10.2018, a seguito di alcuni rinvii determinati dall'astensione degli avvocati e da difetti di notifica, il Presidente dichiarava aperto il dibattimento e, letto il capo di imputazione, dava la parola alle parti, le quali articolavano le richieste di prova, nei termini di cui al verbale di udienza; ammesse le prove richieste dalle parti, veniva escusso il teste del Pm, Am. An., all'esito della cui deposizione si disponeva acquisirsi le relazioni redatte ex art. 33 L. Fall. ed il programma di liquidazione, comprensivo di allegati, depositati dal precedente curatore, dottor Ga. Ca., deceduto.


Alla successiva udienza del 15.2.2019, il Tribunale disponeva acquisirsi, su accordo delle parti, la documentazione prodotta dalla difesa del Pe., attestante il pagamento ad Equitalia del decreto penale di condanna per mancato versamento INPS con dichiarazione di estinzione del debito. Quindi, si procedeva all'esame degli imputati Pe. Ge., Ca. Vi. e Ca. Ra., con acquisizione degli interrogatori resi dagli stessi nelle date 16.10.2014 e del 22.10.2014.


All'udienza del 15.11.2019, dopo un rinvio per astensione degli avvocati, la difesa del Co. depositava una memoria con relativi allegati ed il Tribunale ne disponeva l'acquisizione.


L'istruttoria dibattimentale proseguiva, poi, all'udienza del 14.2.2020 mediante l'escussione del teste della difesa De Lu. Bo. Da.; quindi, il difensore dei Ca. e della De Ro. dichiarava di rinunciare all'audizione dell'altro teste della propria lista, As. Al., ed il Tribunale, nulla osservando le altre parti, autorizzava la rinuncia proposta, revocando in tal senso l'ordinanza ammissiva delle prove. Il difensore del Pe. chiedeva di poter esaminare, ai sensi dell'art. 507 c.p.p., i testi As. Lu. e Pa. Vi.. Il Tribunale, ritenendo tale approfondimento istruttorio assolutamente necessario ai fini del decidere, ne ammetteva la citazione per l'udienza del 15.5.2020, non celebratasi a causa della situazione di emergenza epidemiologica in atto (COVID 19).


Quindi, dopo un ulteriore rinvio per impedimento del difensore dei Ca., i testi As. Lu. e Pa. Vi. venivano sentiti all'udienza del 14.5.2021. In quella sede, rigettate le ulteriori richieste avanzate sempre ai sensi dell'art. 507 c.p.p., il processo era rinviato per la discussione.


All'udienza del 14.1.2022, mutato il collegio giudicante e rinnovato il dibattimento, con declaratoria di utilizzabilità di tutte le prove ritualmente acquisite, il Presidente dichiarava chiusa l'istruttoria dibattimentale e dava la parola alle parti, le quali concludevano nei termini riportati in epigrafe.


All'odierna udienza, sulle conclusioni già rese, all'esito della deliberazione in camera di consiglio, il Tribunale decideva la causa come da dispositivo letto in udienza, riservandosi il deposito dei motivi nel termine di giorni trenta.


Motivi della decisione

Il Tribunale ritiene che, all'esito dell'espletata istruttoria dibattimentale, possa dirsi inequivocabilmente provata la penale responsabilità degli imputati Pe. Ge. e Po. Pa., in ordine a tutti i reati loro ascritti, e degli imputati Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da. per il solo reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, come contestato. Diversamente, si ritiene che, per l'imputato Co. An. non siano emersi elementi per poterne adeguatamente sostenere il coinvolgimento nelle vicende di bancarotta, oggetto delle odierne imputazioni.


Ed, invero, come risulta dalla relazione redatta in data 28.12.2011 ex art. 33 L. Fall. dal dottor Ga. Ca., acquisita agli atti di causa, la società CO. Co. Me. La. a r.l. era stata costituita in data 21.2.1979, allo scopo di realizzare attività di industria, commercio, trasformazione, riparazione, lavorazione di prodotti di qualsiasi genere derivanti da lamiere zincate. Al momento della costituzione, la sede legale ed operativa era in (omissis), alla via (omissis); vi era un consiglio di amministrazione, presieduto, sino al maggio del 2001, da Po. Pa., e successivamente da Pe. Ge., liquidatore e legale rappresentante al momento del fallimento, dichiarato con sentenza del Tribunale di Napoli del 19.10.2011.


Con atto del 24.9.2008, la società veniva posta in liquidazione, con nomina a liquidatore del Pe., già presidente del Consiglio di Amministrazione, e trasferimento della sede legale, in via (omissis), sempre in (omissis).


In assenza delle scritture contabili, non depositate dall'amministratore, il curatore acquisiva alcune importanti informazioni circa il funzionamento della società dalle dichiarazioni rese dal Pe., il quale, interrogato in data 28.10.2011, riferiva che la cooperativa operava nel settore della lavorazione di lamiere zincate, interessandosi della realizzazione per conto terzi di impianti di condizionamento. Al momento vi erano una decina di dipendenti, mentre in passato, sino agli anni 2005/2006, ve ne erano stati una ventina. Circa la compagine societaria, egli dichiarava che vi erano nove soci, alcuni dei quali andati in pensione e sostituiti dai figli. Quanto alla sede legale, egli riferiva che, attualmente, era in via (omissis) presso lo studio del commercialista, dott. Pa. Vi..


A suo avviso, l'attività era cessata intorno alla metà dell'anno 2009; nel frattempo, nel settembre del 2008, la società era stata posta in liquidazione, a causa di una progressiva riduzione delle commesse.


Circa le cause del dissesto, il Pe. le attribuiva appunto ad una graduale diminuzione delle commesse, precisando che il fallimento era stato dichiarato su iniziativa di alcuni lavoratori che non avevano percepito il TFR; del resto, neanche lui aveva avuto la liquidazione. Per quanto a sua conoscenza all'epoca dei fatti, non essendosi mai interessato degli aspetti gestionali ed amministrativi, la società aveva debiti per tasse e contributi non pagati; tuttavia, di recente aveva appreso dell'esistenza di una ben più consistente debitoria, anche nei confronti di INPS, INAIL e verso l'Erario.


Ebbene, proprio in relazione alle cause del dissesto e alla situazione debitoria della cooperativa, le dichiarazioni del Pe. venivano approfondite, in assenza di scritture contabili, attraverso l'esame dei bilanci societari, ritualmente depositati per gli anni 2008, 2009 e 2010, in cui veniva fotografata la situazione di crisi aziendale, come prospettata dall'amministratore; ed, infatti, il bilancio chiuso al 31.12.2007 presentava un utile di Euro 12.838,00, mentre quelli successivi si chiudevano in perdita (quello al 31.12.2008 si chiudeva con una perdita di Euro 247.680,00, quello al 31.12.2009 si chiudeva con una perdita di Euro 414.628,00, quello al 31.12.2010 si chiudeva con una perdita di Euro 426.703,00).


Del tutto coerenti erano, poi, i dati evincibili dalla Relazione Economico Patrimoniale Finanziaria e dalla Situazione Economico Patrimoniale Finanziaria, depositate dal Pe. nel corso dell'udienza prefallimentare. Nella citata relazione si dava atto che la cooperativa era stata posta in liquidazione, oltre che per mancanza di commesse e per la difficoltà di incassare fatture scadute, anche a causa dell'aggravarsi delle posizioni debitorie verso gli enti previdenziali e verso l'Agenzia delle Entrate; nella Situazione, invece, veniva esposto un passivo di Euro 476.972,21, a fronte di un attivo di Euro 39.600,00, di cui Euro 10.600,00 per liquidità ed Euro 29.000,00 per crediti da incassare.


Quanto agli effettivi poteri gestori, il Pe. riferiva di non essersi mai interessato degli aspetti amministrativi e dirigenziali della CO., attribuendo a Po. Pa. la responsabilità dell'amministrazione di fatto della cooperativa.


A tale riguardo, egli dichiarava di essere stato nominato liquidatore, pur non avendo mai avuto contezza del reale significato di quell'incarico; proprio per questo, su sua espressa richiesta, in data 30.5.2009 veniva nominato, in sua vece, Co. An., soggetto esterno alla società, il quale, tuttavia, il 9.11.2010, rassegnava le sue dimissioni non essendo mai stato pagato. Da quella data, il Pe. tornava ad essere liquidatore. Del resto, anche quando aveva ricoperto la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione, aveva assunto quel ruolo solo formalmente, avendo sempre lavorato come capo cantiere e non essendosi mai interessato dell'attività amministrativa e dirigenziale, negando di aver mai apposto firme su contratti e assegni bancari. A gestire la società era sempre stato, a suo dire, Po. Pa., dapprima come presidente del Consiglio di Amministrazione e poi, andato in pensione, come amministratore di fatto, intrattenendo rapporti con fornitori e clienti, predisponendo preventivi, emettendo fatture e finanche firmando documenti contabili ed amministrativi ed assegni bancari. Il Po. - ribadiva il Pe. nel corso dell'interrogatorio reso al curatore - era di fatto l'amministratore della società.


Ebbene, sulla scorta delle informazioni assunte, la curatela convocava Po. Pa., il quale, nel contestare categoricamente quanto riferito dal Pe., dichiarava che aveva ricoperto la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione solo fino all'anno 2001, data in cui era andato in pensione; da quel momento, egli si era limitato a fornire amichevolmente un aiuto nella gestione della cooperativa, in quanto i rapporti con clienti e fornitori erano sempre stati intrattenuti da lui. Contestava, tuttavia, di aver mai apposto la firma del Pe. su documenti contabili o bancari, precisando che, qualche volta, lo aveva semplicemente accompagnato in banca. Ribadiva, dunque, che l'attività di amministrazione della cooperativa era stata svolta da Pe. Ge. insieme al vice presidente del Consiglio di Amministrazione, Ca. Vi..


Egli, inoltre, riferiva che, dopo la messa in liquidazione della società, l'attività era proseguita sino alla metà dell'anno 2009, allorquando, considerato l'aggravarsi della situazione di dissesto, i soci decidevano di costituire, in data 23.7.2009, una nuova società, la IT. IM. TE. srl, avente lo stesso oggetto sociale della cooperativa. L'amministratore di tale nuova società era Ca. Vi., mentre le quote erano detenute dal Po. stesso, da Pe. Cl., figlio di Ge., Ca. Ra., figlio di Vi., e Pi. Gi., già socio della CO. A suo dire, la nuova società si era sostituita alla fallita, svolgendo la medesima attività, presso lo stesso sito ed utilizzando gli stessi impianti e macchinari, impossessandosi anche delle rimanenze di materiale e delle relative commesse in corso. Solo a titolo formale la CO. aveva emesso le fatture del 31.7.2009 (una di Euro 19.734,00 per l'acquisto dei macchinari ed un'altra di Euro 22.769,90 per le rimanenze di merce) e del 25.3.2010 (di Euro 1.200,00 per la cessione di un camion, precedentemente acquistato dalla CO. per Euro 36.000,00). Ma, in ogni caso, non vi era stato alcun pagamento.


Nel narrare le vicende della fallita, il Po. proseguiva riferendo che, a causa di conflitti sorti con gli altri soci, si decideva di costituire una ulteriore società, la IC. It. srl, la quale svolgeva la medesima attività della fallita, nello stesso stabilimento, utilizzando gli stessi macchinari e le medesime attrezzature. Soci di questa nuova compagine erano De Ro. Da., amministratrice e fidanzata di Ca. Ra., e Li. As., moglie di Ca. Vi..


Acquisite, dunque, anche le dichiarazioni di Po. Pa., la curatela constatava, in occasione delle operazioni di inventario, che, effettivamente, in via (omissis), presso la sede della CO., vi era la società IC. It. srl; sul posto vi era Ca. Ra., il quale si qualificava dipendente della citata società e già socio della fallita. Il Ca., dopo aver riferito che la nuova società occupava da un anno i locali della cooperativa in forza di un contratto di locazione di immobile commerciale stipulato il 19.5.2011, dichiarava che la società aveva acquistato i macchinari della fallita, come da fattura, che esibiva, n. 1 del 30.3.2011, dell'importo di Euro 20.000,00 oltre IVA, aggiungendo che di tale somma era stato pagato solo un acconto di 500,00 Euro, in quanto, avendo avuto notizia che la cooperativa era fallita, ci si era riservati di corrispondere la restante parte al curatore.


Specularmente, poi, nella contabilità della CO., ed in particolare nella Situazione Economico Patrimoniale depositata dall'amministratore, risultava annotato un credito di 19.500,00 Euro nei confronti della IC. It. srl.


Anche Pe. Ge., nel corso dell'interrogatorio, confermava che quei macchinari erano stati venduti alla IC. It. srl per circa 20.000,00 Euro.


E proprio il mancato integrale pagamento di tale somma, unitamente alle ulteriori acquisizioni probatorie, induceva il curatore non solo a ritenere che si era trattato di una vendita fittizia, ma a considerare simulata l'intera operazione di passaggio da una società all'altra, inquadrabile, a suo avviso, nell'ambito di una vera e propria cessione gratuita dell'azienda, come tale avente tutti i connotati di una condotta distrattiva. Tale conclusione era ribadita nel programma di liquidazione redatto in data 16.3.2012 ex art. 104 L. Fall.


Nell'occasione, il dottor Ca., dopo aver ricostruito le vicende societarie nei termini sopra esposti, rilevava che, anche a parere dell'avv. Li. Pe., che allegava, vi era stata una cessione dell'azienda.


Ciò nonostante, non sembrava opportuno intraprendere azioni per l'apprensione dell'intera azienda, dovendosi preferire azioni volte al recupero dei soli macchinari, di più certo e sicuro realizzo. Circa il valore di questi beni, lo stesso era certamente maggiore rispetto ai 20.000,00 Euro di cui alla fattura n. 1 del 30.3.2011; si consideri che solo il (omissis), indicato in fattura per Euro 8.275,33, risultava acquistato dalla CO. per Lire 255.000.000. Inoltre, dalla documentazione contabile depositata dal liquidatore, vi era un verbale di assemblea ordinaria del 20.10.2010 cui era allegata una Analisi Finanziaria in Liquidazione che esponeva all'attivo della fallita un importo di Euro 139.000,00 di cui Euro 80.000,00 per macchinari ed Euro 5.000,00 per attrezzi vari. Appariva dunque strano che, a distanza di soli pochi mesi, quei macchinari fossero stati alienati alla IC. It. srl per soli 20.000,00 Euro.


Nel medesimo programma, il curatore evidenziava ancora che la documentazione contabile depositata dal Pe. appariva del tutto disordinata, tale da ostacolare una esatta conoscenza della consistenza patrimoniale della fallita.


Gli unici dati affidabili erano quelli evincibili dai bilanci, ed in particolare dal conto economico allegato ai bilanci chiusi al 31.12.2009 e al 31.12.2010, in cui erano esposti dei costi di produzione rispettivamente pari ad Euro 415.489,00 e ad Euro 427.083,00 e ricavi di vendite pari a zero.


Ora, tenuto conto di questo dato contabile e considerati tutti i passaggi tra le varie società, come sopra analizzati, era del tutto evidente che, nei periodi considerati, "la fallita sia stata utilizzata come centro di imputazione di costi di esercizio, ma non dei rispettivi ricavi", i quali, evidentemente, erano imputati alle nuove società, nel frattempo beneficiarie a titolo gratuito della complessiva struttura aziendale della fallita.


Tale circostanza trovava conferma nelle ulteriori acquisizioni economico finanziarie: in particolare, nei suddetti bilanci, a fronte di costi per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci rispettivamente pari ad Euro 351.585,00 ed Euro 392.050,00, i ricavi della vendita erano pari a zero. Lo stesso dicasi per le rimanenze, il cui valore era rimasto invariato dal 2008 al 2010 per un importo di Euro 20.000,00. Di conseguenza, come puntualmente esposto dal curatore, "dette merci o materie, per un totale complessivo di Euro 743.635,00, risultavano completamente scomparse dal ciclo produttivo" costituendo una illecita grave sottrazione di beni aziendali.


Ancora, nella disamina delle condotte di sottrazione del patrimonio societario, il curatore evidenziava quella avente ad oggetto la somma di Euro 10.500,00, costituente il saldo cassa contanti, come indicato nella Situazione Patrimoniale prodotta dal Pe., il quale, nelle dichiarazioni rese, affermava che effettivamente la società aveva avuto quel saldo cassa in contanti, che, a suo dire, era stato utilizzato per pagare professionisti e per le spese di trasloco dei beni aziendali, depositati in un capannone attiguo. Non vi era tuttavia alcun documento a sostegno di tale asserzione.


Escussa all'odierno dibattimento, la teste Am. An., subentrata nell'incarico di curatrice stante il decesso del precedente curatore, operava una ricostruzione delle vicende societarie perfettamente sovrapponibile a quella del collega, aggiungendo che il passivo ammontava a circa 1.200.000,00 Euro ed era costituito da crediti di dipendenti per TFR non pagati, oltre a crediti per imposte, tasse e contributi INPS non pagati e crediti di fornitori.


L'attivo realizzato era di circa 53.000,00 Euro, derivante da una transazione con Pe. Ge. (all'esito del giudizio di responsabilità) per Euro 27.000,00, dal recupero di alcuni crediti e dal pagamento, ottenuto giudizialmente, dei macchinari ceduti alla IC. It. srl.


Quanto alle scritture contabili, oltre ai bilanci riferiti agli anni 2008, 2009 e 2010, pubblicati al registro delle Imprese ed acquisiti dal curatore, era stato depositato il libro giornale, che però si arrestava al 2007 e dunque non era aggiornato. Per il resto, era stata depositata poca e confusionaria documentazione.


Nel rispondere alle domande della difesa del Pe., la teste precisava che l'imputato aveva dato mandato ad un legale per il pagamento delle fatture emesse dalla fallita per la vendita dei macchinari alla IT. IM. TE. srl, aggiungendo che il Pe. era sempre stato molto disponibile e collaborativo con la curatela.


Quanto, infine, a Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da., la teste riferiva di non aver approfondito la posizione di costoro.


Ebbene, così esposte le risultanze dell'attività di indagine condotta dalla curatela fallimentare e le conclusioni cui, sulla scorta di dette risultanze, si era addivenuti, occorre rilevare tali emergenze abbiano trovato importanti, sia pur parziali, elementi di conferma proprio nelle dichiarazioni rese, sin dall'immediatezza, da alcuni degli imputati, i quali avevano fornito una versione dei fatti in parte sovrapponibile a quella sin qui proposta, divergendone solo in relazione all'ultima cessione analizzata, quella in favore della società IC. It. srl e, naturalmente, in ordine alle posizioni soggettive di ciascuno di loro.


In particolare, Pe. Ge., nel corso dell'interrogatorio reso in data 16.10.2014, acquisito agli atti di causa su accordo delle parti, nel confermare quanto già dichiarato al curatore, ribadiva la sua estraneità nell'amministrazione della CO., gestita di fatto sempre e solo dal Po. Pa., pur dopo che questi aveva formalmente dismesso la carica. Di conseguenza, non aveva mai avuto accesso alla documentazione contabile, che era custodita dalla segretaria As. Lu. all'interno dell'azienda, avvalendosi la società anche di professionisti esterni, tra cui il consulente del lavoro, ragioniere Pi., e un commercialista, di cui al momento non ricordava il nome. Quanto ai rapporti con le banche, egli riferiva che, pur avendo firmato, dal 2001 al 2009, una decina di assegni, aveva comunque conferito a Po. Pa., il quale teneva in via esclusiva i rapporti con i fornitori, una delega ad operare in banca, la (...), e a firmare assegni, atteso che, per le mansioni svolte, egli era sempre fuori per lavoro. Allo stesso modo, poteva aver firmato qualche documento contabile, in quanto gli veniva richiesto dalla As. o dal Po., ma, probabilmente, molte firme non erano le sue.


Nel corso della deposizione, il Pe. dichiarava che la sede operativa della CO. era in (omissis), alla via (omissis), ove vi erano tutti i macchinari e le attrezzature per la realizzazione dei manufatti commercializzati in tutta Italia. Nell'anno 2008 la società era entrata in crisi di liquidità e, non avendo effettuato il versamento delle contribuzioni per i soci/dipendenti, egli aveva ricevuto un decreto penale di condanna per tale titolo di reato. Proprio nel tentativo di salvare l'attività, il Pe., unitamente a Po. Pa., Ca. Vi. e Pi. Gi., aveva deciso di costituire una nuova società, la IT. IM. TE. srl, accettando, nel frattempo, la nomina di liquidatore della CO., pur non sapendo quali fossero i compiti inerenti tale carica; quindi, a causa di contrasti insorti con il Po. e con il Ca., si era dimesso ed era stato nominato Co. An., il quale aveva mantenuto la funzione per circa un anno, subentrando poi nuovamente il Pe., il quale sperava, con questa nomina, di poter garantire un futuro al figlio Cl.. La IT. IM. - e di ciò ne era certo - svolgeva la propria attività negli stessi locali della fallita, utilizzando le stesse attrezzature, gli stessi macchinari e le rimanenze di magazzino, pur non conoscendo i criteri in base ai quali erano stati stimati detti macchinari, avendovi provveduto il Po.; poteva solo dire che, in veste di liquidatore della CO., egli aveva ricevuto, da Ca. Ra., un assegno di 500,00 Euro come anticipo del corrispettivo pattuito per la cessione.


In ordine, poi, alla società IC. It. srl, il Pe. non sapeva riferire nulla, se non che aveva la stessa sede della CO. e della IT. IM. TE. srl.


Quanto, infine, alla rimanenza di cassa, di Euro 10.500,00, egli riferiva di aver utilizzato quella somma per alcune spese societarie, in particolare per pagare una fattura al commercialista, dott. Pa., per una consulenza prestata in favore della fallita ed ima fattura all'avv. Tr. per la procedura di fallimento, nonché per pagare il decreto penale di condanna, alcune utenze e l'INPS. Inoltre, aveva pagato circa 2.800,00 Euro, su incarico di Ca. Vi., per trasferire i beni aziendali in un capannone attiguo.


Esaminato in dibattimento, il Pe. confermava quanto già dichiarato in sede di indagini preliminari, aggiungendo che la contabilità della fallita era tenuta da Sa. An.. Precisava, ancora, che le sue mansioni all'interno della cooperativa erano di trasferista, così come Ca. Vi.; in pratica, ciascuno di loro con la propria squadra si trasferiva nei cantieri in diverse città italiane e vi permaneva per tutta la settimana.


Sostanzialmente coincidenti erano, poi, le dichiarazioni rese da Ca. Vi., il quale, nel corso dell'interrogatorio reso in data 22.10.2014, acquisito agli atti di causa su accordo delle parti, riferiva di aver iniziato a lavorare per la CO. dal 1979 sino alla messa in liquidazione. Egli, in particolare, era stato socio e vicepresidente, ma aveva ricoperto tale carica solo formalmente, avendo sempre svolto mansioni di operaio specializzato nel montaggio degli impianti di condizionamento, per la cui esecuzione doveva spesso recarsi fuori provincia.


A suo dire, la CO. era stata sempre gestita da Po. Pa., anche quando, dopo il 2001, costui era andato in pensione, avendo continuato di fatto ad amministrarla, anche perché sia lui che il Pe., presidente del Consiglio di Amministrazione, erano sempre fuori per lavoro. Naturalmente, egli non aveva alcun potere di firma sui documenti della società, ma sapeva che il Pe. aveva rilasciato deleghe al Po. per consentigli una completa autonomia gestionale. Pur non conoscendo


i motivi per cui la CO. era andata in crisi, sapeva comunque che, sin dall'anno 2004, si era registrata una riduzione delle commesse e un incremento dei debiti. Ad un certo punto, essendo la crisi irreversibile, il Po. aveva prospettato a lui e agli altri soci/lavoratori la possibilità di costituire una nuova società, la IT. IM. TE. srl, e lui, così come il Pe. e il Pi., aveva aderito al progetto, nel quale erano coinvolti anche i figli, Ca. Ra., Pe. Cl., figlio di Pe. Ge., e Pi. Gi., figlio di Pi. Fr.. In questa nuova compagine, su indicazione del Po., egli aveva assunto formalmente il ruolo di amministratore, pur restando la gestione appannaggio esclusivo del Po.. La nuova società aveva la stessa sede della fallita e lavorava con le stesse attrezzature e gli stessi macchinari. A suo dire, loro sapevano che la CO. stava fallendo, ma il Po. li aveva rassicurati che il passaggio tra le due società non avrebbe creato problemi.


Riferiva, inoltre, di non essere a conoscenza dell'esistenza di rimanenze di magazzino.


Ad un certo punto, vi era stato un litigio con il Po., in quanto si era reso conto che costui lo stava usando, come aveva fatto con il Pe., facendogli assumere tutti i rischi connessi alla funzione; di conseguenza, egli aveva deciso di chiudere la società, ma non vi era riuscito in quanto il Po., che deteneva il 34% del capitale, non si presentava alle riunioni. Dopo il litigio con il Po., ma prima della costituzione della nuova società, la IC. It. srl, la IT. IM. aveva restituito i macchinari alla CO.; vi aveva provveduto lui stesso, come amministratore, consegnando i macchinari al Pe., nella qualità di liquidatore. Aggiungeva, inoltre, di non aver mai pagato nulla, neppure come canone di affitto, per questi macchinari.


Quanto alla IC. It. srl, egli non sapeva dire alcunché, in quanto la società faceva capo a suo figlio Ra. e a sua moglie De Ro. Da..


In sede di esame dibattimentale, il Ca. aggiungeva che anche Pe. Ge. era un operaio e, proprio come lui, aveva assunto la carica solo formalmente.


Ca. Ra., infine, interrogato dagli inquirenti in data 22.10.2014 (verbale di interrogatorio acquisito agli atti), riferiva che aveva lavorato come operaio per la CO. dal 2006, appena terminati gli studi, al 2009, pur essendosi prestato a diventare socio, come gli altri operai, per raggiungere il numero minimo previsto dalla legge per le cooperative. Era stato Po. Pa. a fargli questa proposta; egli, tuttavia, non aveva mai partecipato ad assemblee o riunioni, ma era il Po. che, quando gli pagava lo stipendio, gli sottoponeva documentazione che lui firmava, quale socio, senza leggere il contenuto, e ciò perché vi era la massima fiducia. Nell'anno 2008, il Po. li aveva messi a conoscenza del fatto che la società sarebbe stata posta in liquidazione, cosa che aveva sorpreso tutti, anche lo stesso Pe. Ge.. Dopo la liquidazione, il Po. aveva prospettato al Ca. e agli altri figli degli ex soci, Pi. Gi. e Pe. Cl., la possibilità di costituire una nuova società, la IT. TE. srl, che avrebbe consentito di continuare a lavorare nel settore, svolgendo la medesima attività della fallita, negli stessi locali e con gli stessi macchinari, per l'acquisto dei quali era stata emessa, solo pro forma, una fattura; per questo motivo, i macchinari erano stati poi restituiti alla CO.. La carica di amministratore di questa nuova società veniva As. dal padre Ca. Vi.. In ogni caso, le continue discussioni con il Po., che intendeva gestire a suo piacimento la società, avevano di fatto frenato le attività della stessa; ma l'assenza del Po., che volutamente non partecipava alle riunioni, aveva di fatto reso impossibile la messa in liquidazione.


Verso la fine del 2010, egli aveva deciso di costituire una nuova società, la IC. It. srl, in cui lavorava come operaio anche suo cognato De Lu. Bo. Da.; la nuova società aveva fittato i locali della CO. di via (omissis), acquistando anche i macchinari per Euro 20.000,00, di cui solo 500,00 Euro pagati. La curatela aveva fatto stimare quei beni per 30.000,00 Euro e a questo prezzo la IC. It. srl li aveva comprati, versando il denaro nelle casse del fallimento. Amministratrice della nuova società era sua moglie De Ro. Da., la quale non si era mai interessata della gestione della società, di sua esclusiva pertinenza.


Esaminato all'odierno dibattimento, il Ca. confermava le dichiarazioni già rese.


Come già anticipato, dunque, non solo Pe. Ge., ma anche Ca. Vi. e Ca. Ra., così come aveva fatto Po. Pa. nel corso dell'interrogatorio reso al curatore, confermavano che la società IT. IM. TE. srl altro non era che una prosecuzione della fallita, la cui costituzione era stata decisa allorquando ci si era resi conto che la situazione di crisi della CO. era divenuta irreversibile, non tanto a causa di una riduzione delle commesse, ma soprattutto a causa degli ingenti debiti, di natura tributaria e previdenziale, contratti nel corso degli anni. Era evidente che, a dispetto di quello che avevano voluto far credere gli imputati, il motivo della costituzione della nuova compagine non poteva essere la prospettata diminuzione dei contratti, posto che, in tal caso, non vi sarebbe stata alcuna attività da proseguire fruttuosamente e, dunque, non avrebbe avuto senso costituire altra società.


La verità è che la debitoria accumulata, pari a circa un milione duecento mila Euro, era davvero consistente e non vi poteva essere altra soluzione, per poter continuare a lavorare, che quella poi concretamente adottata.


Sul punto, le dichiarazioni provenienti dai soggetti che erano stati i protagonisti indiscussi della vicenda, sopra compiutamente riportate, sono chiarissime.


Tutti concordavano nel sostenere che, a fronte dell'aggravarsi della situazione di dissesto (perfettamente fotografata nei bilanci societari e nei documenti di accompagnamento, come analizzati dal curatore), i soci avevano deciso di costituire, in data 23.7.2009, dunque prima del fallimento e subito dopo la messa in liquidazione, una nuova società, la IT. IM. TE. srl, avente lo stesso oggetto sociale della cooperativa, cui si era di fatto sostituita, svolgendo la medesima attività, negli stessi locali ed utilizzando gli stessi macchinari e le stesse attrezzature, impossessandosi anche delle rimanenze di magazzino. Si ricordi, a tale proposito, che la CO. aveva emesso, solo pro forma, alcune fatture di vendita dei macchinari, per i quali non era stato versato alcun corrispettivo.


Di tutto ciò si è diffusamente parlato.


Quel che qui occorre ribadire è che la descritta operazione - passaggio dalla CO. Co. Me. La. a r.l. alla IT. IM. TE. srl - si sostanziava in una cessione gratuita dell'azienda, inquadrabile nell'ambito di un più ampio progetto di dismissione aziendale, progetto nel quale era prevista, e poi concretamente attuata, la costituzione di una terza società, la IC. It. srl.


Anche la IC. It. srl, come la precedente, svolgeva la medesima attività della CO., negli stessi locali ed utilizzando le stesse attrezzature e gli stessi macchinari che, tuttavia, sarebbero stati acquistati, pochi mesi prima del fallimento, dalla cooperativa.


A tale riguardo, infatti, Ca. Ra., nel ribadire che non vi era alcun collegamento con la fallita e che la decisione di costituire la nuova società era stata As. alcuni mesi dopo che la IT. IM. aveva abbandonato il sito, condotto in locazione in virtù di un contratto stipulato ex novo con il proprietario, Pa. Vi., esibiva una fattura, datata 30.3.2011, emessa dalla CO. per l'acquisto dei macchinari al prezzo di Euro 20.000,00.


Di questa somma, poi, sarebbe stato effettivamente corrisposto solo un acconto di Euro 500,00, in quanto, avendo appreso del fallimento della cedente, ci si era determinati a versare la restante parte alla curatela fallimentare.


Si sarebbe trattato, dunque, di un'operazione del tutto lecita.


Ad avviso del Tribunale, tuttavia, tale ricostruzione, pur apparendo astrattamente plausibile, è invece del tutto fuorviante, giacché risponde ad una visione assolutamente parziale ed isolata della vicenda, del tutto avulsa dal contesto in cui essa era maturata.


Per comprendere appieno le reali motivazioni sottese alla descritta operazione occorre, invero, considerare che erano stati gli stessi soci della cooperativa a porla in essere. Si ricordi che Ca. Vi. era stato socio e vicepresidente del Consiglio di Amministrazione della CO., oltre ad aver rivestito la carica di amministratore unico della società IT. IM., che, per sua espressa ammissione, non era altro che la prosecuzione della prima, mentre il figlio Ca. Ra. era stato socio e consigliere di amministrazione della CO. e, di seguito socio della IT. IM..


Ed evidentemente, proprio per non destare sospetti, le quote della nuova società erano intestate a De Ro. Da., moglie di Ca. Ra., e Li. As., moglie di Ca. Vi..


Oltretutto, sempre per quanto riferito dai soggetti coinvolti, l'idea di costituire la IC. It. srl era nata a seguito di contrasti sorti con il Po. nella gestione della IT. IM. e nella impossibilità di sciogliere tale società per l'assenza del socio.


Se poi si aggiunge che la IC. It. srl svolgeva la medesima attività della fallita CO., negli stessi capannoni, con gli stessi macchinari e le medesime attrezzature, e del tutto gratuitamente, allora il cerchio si chiude.


Come si è visto, il Ca. Ra., nel sostenere trattarsi di nuova ed autonoma società, asseriva di aver acquistato i macchinari della fallita al prezzo, concordato, di Euro 20.000,00.


Ora, non solo tale somma appariva del tutto sproporzionata rispetto al reale valore dei beni asseritamente ceduti, che era notevolmente maggiore, ma non era stata neanche effettivamente ed integralmente versata, essendosi il Ca. limitato a corrispondere un acconto di eviro 500,00, in quanto, a suo dire, aveva avuto contezza che la CO. sarebbe fallita di lì a poco e, dunque, si sarebbe riservato di pagare direttamente alla curatela.


Tuttavia, considerando che la fattura di acquisto recava la data del 30.3.2011 e che il fallimento della società venditrice sarebbe intervenuto a distanza di molti mesi, precisamente il 19 ottobre 2011, viene da chiedersi come avrebbe potuto il Ca. prevedere tale evenienza. La verità è che, a dispetto di quanto sostenuto dall'imputato Ca. Ra., la società IC. It. srl era stata costituita per garantire la prosecuzione dell'attività della fallita, fortemente indebitata e condotta, dunque, all'inevitabile fallimento.


Queste stesse ragioni, si è visto, avevano precedentemente spinto i medesimi soggetti a costituire la IT. IM. TE. srl.


Ed, allora, pare evidente che i due passaggi societari, come sin qui ricostruiti, debbano essere correttamente inquadrati nell'ambito di un


complessivo progetto di dismissione aziendale, finalizzato a proseguire l'attività di impresa con nuove società, utilizzando la fallita come centro di imputazione dei costi e delle spese.


Ciò era stato il frutto di un'attenta pianificazione ed organizzazione, ove si consideri che la IT. IM. era subentrata alla CO. in un momento in cui quest'ultima società aveva già accumulato una consistente debitoria, di più di un milione di Euro, con perdite di esercizio di centinaia migliaia di Euro, registrate sin dall'anno 2008. Si è visto, infatti, che il bilancio al 31.12.2008 era chiuso con una perdita di Euro 247.680,00, quello al 31.12.2009 con una perdita di Euro 414.628,00 e quello al 31.12.2010 con una perdita di Euro 426.703,00.


Può dirsi, dunque, inequivocabilmente provato che il piano delittuoso, programmato nel momento in cui si erano accumulati tantissimi debiti, molti dei quali per imposte, tasse e contributi INPS non pagati, era proprio quello di cedere l'azienda, proseguendo l'attività con altra veste societaria, destinando le risorse disponibili alla nuova società e lasciando i creditori completamente privi della benché minima garanzia.


A tale riguardo, non può adeguatamente sostenersi che tale operazione fosse il frutto di un'iniziativa imprenditoriale nell'ambito di un cd. "gruppo di imprese", posto che il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale sussiste anche in presenza di un'iniziativa economica in sé legittima che si riferisca ad una impresa in stato pre-fallimentare, producendo riflessi negativi per i creditori (cfr. Cass. penale, sez. 5, 1.4.2015, n. 24024).


Ciò perché, se è vero che il trasferimento di un ramo di azienda o la cessione di azienda non rappresenta, in astratto, una operazione illecita, rientrando nella sfera di autonomia dell'imprenditore che mantiene, sino allo spossessamento attuato con la dichiarazione di fallimento, la disponibilità dei beni di cui si compone l'azienda, è pur vero che tale facoltà deve essere esercitata nel rispetto delle norme e dei principi che la regolano.


Va a tale proposito richiamata la sentenza n. 10778 del 10.1.2012, a mente della quale integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione, anche fattuale, di un ramo di azienda che renda non più


possibile l'utile perseguimento dell'oggetto sociale senza garantire contestualmente il ripiano della situazione debitoria della società.


Ne consegue che anche iniziative imprenditoriali, potenzialmente ed astrattamente legittime, possono assumere, per il modo in cui sono attuate, il carattere della illiceità, per i riflessi che hanno sugli interessi del ceto creditorio.


Nel caso in esame è di tutta evidenza la dannosità dell'operazione per i creditori, lasciati completamente senza garanzia.


Proseguendo nella disamina delle attività distrattive del patrimonio societario, va menzionata quella avente ad oggetto le rimanenze di magazzino, del valore totale complessivo di Euro 743.635,00, registrate in contabilità ma completamente scomparse dal ciclo produttivo e dunque, indebitamente sottratte.


Altra posta sottratta era quella di Euro 10.500,00, costituente il saldo cassa contanti, come indicato nella Situazione Patrimoniale prodotta dal Pe., il quale, nelle dichiarazioni rese, affermava che la società aveva un saldo cassa di Euro 10.500,00 in contanti, che, a suo dire, era stato utilizzato per pagare professionisti e per le spese di trasloco dei beni. Non vi era tuttavia alcun documento a sostegno di tale asserzione.


Va, a tale riguardo, ricordato che, secondo il consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, quando sia provato che l'imprenditore abbia avuto a disposizione determinati beni, ove non abbia saputo rendere conto del loro mancato reperimento o non abbia saputo giustificare la destinazione per le effettive necessità dell'impresa, si deve dedurre che li abbia dolosamente distratti, posto che il fallito ha l'obbligo giuridico di fornire la dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al suo patrimonio, con la conseguenza che dalla mancata dimostrazione può essere legittimamente desunta la prova della distrazione o dell'occultamento (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 7048 del 27/11/2008).


Non si richiede, peraltro, alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683). La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in ima pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa (cfr. Cass. penale, SU, 31.3.2016, n. 22474).


Quanto all'elemento psicologico della bancarotta distrattiva esso consiste nel dolo generico per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (tra le tante: Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Le., Rv 261348).


Ebbene, ciò posto in ordine alla sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 216, comma 1, n. 1, L. fall.), in relazione ai fatti di distrazione sopra compiutamente esaminati, occorre ora soffermarsi sulle posizioni soggettive degli odierni imputati, giacché, come si vedrà, non tutti i soggetti coinvolti, a vario titolo, nella vicenda che ci occupa possono ritenersi responsabili di tali condotte.


Lo è certamente l'imputato Po. Pa., il quale aveva ricoperto la carica di amministratore della fallita, quale presidente del Consiglio di Amministrazione, sino al 2001, continuando, pur dopo la formale dismissione dell'incarico per pensionamento, a porre in essere atti di gestione, rendendosi dunque autore di tutte le condotte distrattive, sopra compiutamente esaminate, quale amministratore di fatto.


In linea generale, deve osservarsi come l'amministratore di fatto (equiparato a quello di diritto in virtù di quanto disposto dall'art. 2639 cc introdotto con D. Lgs. 6/2003) sia colui che "esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolto in modo non episodico o occasionale" (cfr. Cass. sez. 5, 17.10.2005, n. 43300; sez. 5, 20.6.2013, n. 35346).


In quanto tali, gli amministratori di fatto sono gravati dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, assumendo, di conseguenza, la penale responsabilità per tutti i comportamenti a lui addebitabili (vedi, in tal senso, Cass. penale, sez. 5, 20.5.2011, n. 39593; Cass. penale, sez. 5, 2.3.2011, n. 15065; Cass. penale, sez. 5, 11.1.2008, n. 7203).


Come sostenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, infatti, "in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta" (cfr. Cass. penale, sez. 5, 13.4.2006, n. 19145). Ed, ancora, "nei reati di bancarotta in ambito societario, soggetto attivo può essere anche colui che svolga in via di mero fatto le funzioni di amministratore, poiché le fattispecie legali non introducono alcuna distinzione tra ruolo corrispondente ad una carica formale ed analoga funzione esercitata in via di fatto" (cfr. Cass. penale, sez. 5, 5.6.2003, n. 36630).


Ciò posto in linea di principio, va rilevato come dall'espletata istruttoria dibattimentale siano emersi plurimi elementi volti ad affermare il pieno coinvolgimento del Po., quale gestore di fatto della società CO., in ordine alle condotte distrattive oggetto delle odierne contestazioni.


Già presidente del Consiglio di Amministrazione della fallita, egli, successivamente al pensionamento, aveva continuato ad interessarsi dell'attività gestoria, intrattenendo in prima persona i rapporti con i fornitori ed i clienti, come documentato dalle fatture, preventivi e ordini di acquisto relativi agli anni 2003, 2006 e 2008, prodotti all'udienza del 14.1.2022. Era, dunque, il Po. il riferimento per fornitori e clienti.


Ed era sempre il Po. ad interfacciarsi con le banche, anche quale delegato del Pe.


Del resto, era stata sua l'idea di costituire una nuova società, la IT. IM. TE. srl, della quale era divenuto socio, allorquando la situazione di dissesto della cooperativa si era aggravata. Si è visto, infatti, che, nell'anno 2008, l'imputato aveva convocato i soci della fallita per comunicare loro la messa in liquidazione, proponendo contestualmente la costituzione della nuova compagine, assumendo egli stesso, insieme al figlio e agli altri soci della CO., la titolarità di quote sociali.


Peraltro, che lui avesse in questa nuova società, costituente una mera prosecuzione della fallita, un ruolo di primo piano, è dimostrato dal fatto che la stessa era stata sciolta proprio a causa di discussioni insorte in conseguenza del suo comportamento, volto ad una gestione esclusiva dell'attività.


Ed era sempre il Po. ad organizzare il lavoro dei dipendenti. Significative, al riguardo, sono le dichiarazioni rese all'udienza del 14.2.2020 da De Lu. Bo. Da. il quale riferiva di aver lavorato per la CO. per circa tre anni, dal 2005/2006 al 2009, con il ruolo di apprendista, precisando che la società era gestita da Po. Pa..


Quale amministratore di fatto, dunque, Po. Pa. è responsabile di tutti i reati a lui ascritti.


Naturalmente, la ritenuta responsabilità di Po. Pa., quale amministratore di fatto della fallita, non esclude la concorrente responsabilità dell'amministratore di diritto, Pe. Ge., presidente del Consiglio di Amministrazione dal 2001 al 24.9.2008, eccettuato un brevissimo periodo in cui tale carica era stata ricoperta da Co. An., e successivamente liquidatore.


Si è visto, infatti, come il Pe. non abbia svolto tale ruolo solo formalmente, avendo partecipato attivamente alla gestione della società. E lo dimostra il fatto che, dopo aver rassegnato le dimissioni, facendo così nominare un nuovo amministratore, egli si era reso poi disponibile ad assumere nuovamente la funzione, ben sapendo evidentemente di cosa si trattasse.


Del resto, era stato proprio il Pe., insieme al Po., a proporre agli altri soci di costituire una nuova società, la IT. IM., nel tentativo di salvare l'attività della cooperativa che, a causa della forte debitoria, stava fallendo.


La circostanza che egli svolgesse anche attività lavorativa, con mansioni di trasfertista, non esclude la concorrente titolarità di compiti dirigenziali, giacché, come riferito all'udienza del 14.5.2021 dalla teste As. Lu., dipendente della CO. dal 1981 al 2009 con mansioni di segretaria contabile, Pe. Ge. svolgeva tutte le attività legate al suo ruolo, anche perché, essendo una cooperativa, vi era collaborazione tra tutti i soci. In particolare, la As. dichiarava che il Pe. lavorava anche sui cantieri, nelle varie sedi in varie città d'Italia e capitava che, a volte, si assentasse anche per alcuni mesi, ma ciò non influiva sullo svolgimento dei suoi compiti gestori, perché non era sempre necessaria la sua presenza in azienda.


Pe. Ge., dunque, aveva concretamente e fattivamente amministrato la fallita, gestendone l'attività (si ricordi, ad esempio, che era stato proprio lui a ricevere l'acconto di 500,00 Euro dovuto quale corrispettivo della vendita dei macchinari, o a dare mandato all'avvocato Me. per sollecitare il pagamento delle fatture emesse nei confronti della IT. IM. e, ancora, a disporre del saldo cassa di 10.500,00 Euro, pagando avvocati e commercialisti).


A fronte di tali evenienze, appare francamente poco credibile che egli non avesse compreso la portata del suo ruolo ed i compiti connessi alla funzione ricoperta, avendo anche, per sua stessa ammissione, firmato assegni e conferito al Po. la delega ad operare sui conti correnti della società.


Egli era ben consapevole dei disegni criminosi ideati e posti in essere dal Po., alla cui realizzazione egli vi aveva dolosamente contribuito. Riguardo, poi, le posizioni degli altri imputati, il Tribunale ritiene che Ca. Vi., nella qualità di vice presidente del Consiglio di Amministrazione della fallita ed amministratore unico della IT. IM. TE. srl, Ca. Ra., quale consigliere di amministrazione della fallita e socio ed amministratore di fatto della IC. It. srl, nonché socio della IT. IM. TE. srl e De Ro. Da., nella qualità di amministratore unico della IC. It. srl, debbano essere considerati responsabili delle condotte distrattive loro contestate in relazione ai fatti di dismissione aziendale, sopra compiutamente esaminati.


Ca. Vi. e Ca. Ra., in particolare, facevano parte, il primo come vice presidente ed il secondo come consigliere, dell'organo direttivo della CO. e, in questa veste, consapevoli dello stato di decozione in cui la società versava, avevano deciso di costituire nel tempo due diverse società, per proseguire l'attività imprenditoriale della cooperativa.


Di tutto ciò si è diffusamente parlato.


Quel che qui occorre ribadire è che alla realizzazione di quel programma delittuoso, ideato e programmato per consentire una prosecuzione delle attività aziendali con altra veste societaria, in frode ai creditori, abbiano concretamente contribuito, nelle rispettive qualità, anche Ca. Vi. ed il figlio Ra..


Sul punto, giova solo rilevare come la tesi difensiva di una loro estraneità costituisca una mera congettura del tutto priva di riscontri fattuali ed, anzi, apertamente sconfessata da tutti gli elementi di prova acquisiti all'odierno dibattimento, inequivocabilmente concordanti nel senso opposto.


Basti ricordare che Ca. Vi. e Ca. Ra. avevano già rivestito ruoli formali dapprima nell'ambito della cooperativa e, poi, in seno alla neo costituita IT. IM. e, per questi motivi, erano perfettamente a conoscenza della situazione dissestata della fallita e si erano prestati a costituire la nuova società, perfettamente sovrapponibile, quanto alle attività svolte, ai macchinari utilizzati (acquistati a prezzi irrisori, e sostanzialmente ceduti gratuitamente) e alla sede operativa, alla prima.


Affermare, dunque, la loro estraneità appare francamente una mera petizione di principio.


Parte di quel programma era anche De Ro. Da., moglie di Ca. Ra. ed amministratrice della IC. It. srl.


A parere del Tribunale, infatti, l'assunzione di tale carica, unitamente all'evidenziato rapporto di parentela con i soggetti che avevano concorso a porre in essere tutte le condotte distrattive esaminate, in mancanza di allegazioni di segno contrario, non potendosi considerare tale la generica affermazione resa sul punto da Ca. Ra., non può che indurre a ritenere che la donna fosse pienamente consapevole degli atti di distrazione e li abbia concretamente favoriti.


Del resto, la Suprema Corte di Cassazione è unanime nel sostenere che "in tema di bancarotta fraudolenta, l'amministratore di diritto risponde unitamente all'amministratore di fatto per non avere impedito l'evento


che aveva l'obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l'amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore; tuttavia allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l'accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l'affermazione della responsabilità penale" (cfr. tra le tante, Cass. penale, sez. 5, 7.1.2015, n. 7332).


Nel caso che ci occupa, alla stregua delle considerazioni svolte, va ritenuta certamente sussistente, in capo alla De Ro., la piena e totale consapevolezza delle conseguenze delittuose del proprio operato.


Venendo, poi, alla condotta di irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, il dottor Ca. rilevava che la documentazione contabile depositata dal Pe. evidenziava un disordine tale da ostacolare una esatta conoscenza della consistenza patrimoniale della fallita. In maniera conforme, anche la dott.ssa Am., sentita all'odierno dibattimento, riferiva che, ad eccezione dei bilanci relativi agli anni 2008, 2009 e 2010, pubblicati al registro delle Imprese ed acquisiti dal curatore e del libro giornale, tenuto sino al 2007, era stata depositata poca e confusionaria documentazione.


È allora evidente che sussista anche il reato di bancarotta fraudolenta documentale, come contestato, in presenza di una condotta realizzata allo scopo di non consentire agli organi fallimentari di verificare il movimento degli affari e l'effettiva consistenza patrimoniale della società fallita e dunque con la finalità di procurassi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, in quanto ciò avrebbe potuto far emergere la distrazione dei beni, nei termini sopra esposti. Di tale fattispecie criminosa devono ritenersi responsabili unicamente Pe. Ge. e Po. Pa., il primo quale amministratore e liquidatore al momento del fallimento ed il secondo quale amministratore di fatto, il quale è da "ritenersi gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili. (Fattispecie in tema di bancarotta fraudolenta documentale) (cfr. Cass. penale, sez. 5, 20.5.2011, n. 39593).


Pe. Ge. e Po. Pa., nelle rispettive qualità, sono certamente responsabili anche del delitto di bancarotta impropria, loro ascritto, per aver sistematicamente omesso il pagamento di imposte, tasse ed oneri previdenziali, la corresponsione degli emolumenti ai dipendenti ed il corrispettivo delle forniture, così dolosamente cagionando il fallimento della società.


Si ritiene, infatti, che l'inadempimento delle obbligazioni tributarie costituisca un comportamento che, andando ad aumentare ingiustificatamente l'esposizione della società nei confronti degli enti previdenziali, anche in ragione dell'inevitabile carico sanzionatorio, rende, proprio per l'ampiezza del fenomeno e la sua sistematicità, prevedibile il conseguente dissesto.


Come sostenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, "in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all'art 223, comma secondo, n. 2, l. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente


l'esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società)" (Cass. penale, sez. 5, 25.9.2014, n. 47621).


Sotto diverso profilo, si osserva come il reato in oggetto ben possa concorrere con quello di bancarotta per distrazione, posto che, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, "i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, L.F.) e quello di bancarotta impropria di cui all'art. 223 comma secondo, n. 2, L.F. hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività - né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili - ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento" (cfr. Cass. penale, sez. 5, 14.10.2016, n. 533).


Naturalmente, la formale estraneità di Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da. agli organi direttivi della fallita fa sì che costoro non rispondano né del reato di bancarotta documentale, né di quello di bancarotta impropria.


Ciò posto in ordine alla sussistenza dei reati in contestazione e alla riferibilità degli stessi alla condotta degli odierni imputati, con le precisazioni effettuate, va ora evidenziato come possa ritenersi integrata, a carico dei predetti, la circostanza aggravante dell'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 219, comma 1, L. Fall.), in considerazione dell'elevato valore dei beni sottratti all'esecuzione concorsuale e del relativo, gravissimo, danno per creditori insoddisfatti.


Sussiste, inoltre, per i soli Pe. Ge. e Po. Pa., l'ulteriore aggravante contestata, quella consistente nella realizzazione di più fatti di bancarotta previsti dall'art. 216 legge fallimentare (art. 219, comma 2, n. 1. L. Fall.).


Passando, ora, al trattamento sanzionatorio, si ritiene che i fatti siano estremamente gravi nella loro oggettività, per le macroscopiche dimensioni dell'intera vicenda delittuosa, relativa al fallimento di una importante società cooperativa, con un passivo di più di un milione di Euro, per imposte e tasse non pagate.


Per questa ragione, il Pe. ed il Po., protagonisti indiscussi della bancarotta milionaria, non appaiono meritevoli di alcun beneficio. Diversamente, il ruolo di minor rilievo ricoperto da Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da., li rende meritevoli delle circostanze attenuanti generiche, da riconoscersi, per Ca. Vi., con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante contestata e, per Ca. Ra. e De Ro. Da., con giudizio di prevalenza sull'aggravante contestata.


Su queste basi, stimasi equa la condanna di Pe. Ge. e Po. Pa. alla pena di anni quattro di reclusione (pena base, anni tre di reclusione, aumentata a quella indicata per la contestata aggravante del danno di rilevante gravità), di Ca. Vi. alla pena di anni tre di reclusione e di Ca. Ra. e De Ro. Da. alla pena di anni due di reclusione (pena base, anni tre di reclusione, ridotta a quella indicata per le attenuanti generiche).


Segue la condanna al pagamento delle spese processuali, nonché l'applicazione, ai sensi dell'art. 216 comma 4 L. fall, delle pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di imprese commerciali e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata della pena.


Ritenendosi ragionevolmente che gli imputati Ca. Ra. e De Ro. Da. si asterranno in futuro dal commettere reati e non ostandovi condizioni soggettive, si ritiene possa essere concesso loro il beneficio della sospensione condizionale della pena.


Quanto, infine, alla posizione di Co. An., soggetto esterno alla cooperativa e chiamato a svolgere l'incarico di liquidatore per poco più di un anno (dal 30.5.2009 al 9.11.2010), il Tribunale ritiene non siano emersi elementi per poter sostenere il suo coinvolgimento nelle condotte di bancarotta, sin qui esaminate.


L'imputato va, dunque, mandato assolto dai reati a lui ascritti per non aver commesso il fatto.


P.Q.M.

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara:


- Pe. Ge. e Po. Pa. colpevoli dei reati loro ascritti e li condanna ciascuno alla pena di anni quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;


- Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da. colpevoli del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e, esclusa l'aggravante di cui all'art. 219 comma 2 n. 1 L. Fall., concesse le circostanze attenuanti generiche da ritenersi, per Ca. Vi., equivalenti rispetto alla contestata ulteriore aggravante e per Ca. Ra. e De Ro. Da. prevalenti sulla ulteriore contestata aggravante, condanna Ca. Vi. alla pena di anni tre di reclusione e Ca. Ra. e De Ro. Da. alla pena di anni due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.


Letto l'art. 216 ultimo comma, L. Fall., dichiara l'inabilitazione degli imputati all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata della pena a ciascuno rispettivamente inflitta.


Letto l'art. 530 c.p.p. assolve Ca. Vi., Ca. Ra. e De Ro. Da. dai restanti reati loro rispettivamente ascritti per non aver commesso il fatto.


Letto l'art. 530 cpv c.p.p. assolve Co. An. dai reati a lui ascritti per non aver commesso il fatto.


Pena sospesa per Ca. Ra. e De Ro. Da. nei termini ed alle condizioni di legge.


Letto l'art. 544 c.p.p. fissa in giorni 30 il termine per il deposito della motivazione.


Così deciso in Napoli, il 28 gennaio 2022


Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2022

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