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Appropriazione indebita: sulle differenze con il reato di peculato di un bene fungibile

Appropriazione indebita

Cassazione penale sez. II, 27/09/2018, n.49463

L'appropriazione indebita o il peculato di un bene fungibile possono configurarsi soltanto quando il bene sia "ab origine" conferito dal proprietario con un vincolo di destinazione che venga poi violato dal depositario, vincolo che non può essere identificato con un mero obbligo di natura civilistica assunto con la stipula di un contratto. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto di peculato in capo all'amministratore di una casa da gioco che, in violazione della convenzione stipulata con il Comune, non aveva versato all'ente territoriale la quota prestabilita degli incassi periodici).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale per il riesame di Como decidendo in seguito ad annullamento della Cassazione confermava la legittimità del decreto di sequestro probatorio di documentazione contabile e societaria disposto nell'ambito delle indagini a carico dei ricorrenti per il reato di peculato. La Corte di cassazione aveva devoluto al collegio territoriale il compito di scrutinare la legittimità dell'ipotesi di accusa con specifico riguardo alla verifica della "altruità" delle somme cui era riferita la ipotizzata appropriazione illecita: si trattava di somme che gli amminiastratitori della casa da gioco di Campione d'Italia non avevano state versate al Comune in violazione della Convenzione che regolava i rapporto tra l'ente territoriale e la casa da gioco. Il Tribunale, nel provvedimento impugnato, riteneva che le somme dovevano intendersi di proprietà del Comune, e dunque connotate dall'attributo dell'altruità necessario per la configurazione del peculato, dal momento della verifica contabile che precedeva il versamento. 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore degli indagati che deduceva: 2.1. violazione di legge: si deduceva che dalla lettera della Convenzione regolatrice dei rapporti tra il Comune e la Casa da gioco si evincerebbe che le somme delle quali si contestava l'appropriazione passerebbero nella proprietà dell'Ente territoriale solo al momento dell'incasso, non rilevando il fatto che la società privata che gestiva il casinò fosse assegnato dalla stessa Convenzione il ruolo di "custode" ed essendo non conferente il richiamo alla giurisprudenza delle sezioni civili della Cassazione, che si riferirebbe ad una situazione diversa da quella in esame. Nella prospettiva del ricorrente il mancato versamento delle somme avrebbe dovuto essere qualificato come inadempimento di una obbligazione, con esclusione di qualsiasi connotazione appropriativa, che non sarebbe rinvenibile in assenza del presupposto della "altruità" dei beni trattenuti. 2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con ulteriori due motivi si contestava la destinazione extrapubblicista delle somme trattenute; si deduceva che la società che gestiva la casa da gioco di Campione di Italia, pur essendo privata perseguiva uno scopo pubblico ovvero quello di accrescere le risorse a disposizione dell'Ente territoriale per l'erogazione di servizi a fruizione collettiva. Il mancato versamento delle somme in contestazione era, inoltre, giustificato dalla straordinaria congiuntura, che aveva generato una severa crisi economica della società: non sarebbe dunque rinvenibile alcuna distrazione a fini privati dato che le somme non consegnate erano comunque destinate a contenere la crisi ed, in ultima analisi a soddisfare interessi pubblici; 2.3. violazione di legge: non vi sarebbe corrispondenza tra il fatto contestato nell'imputazione provvisoria e quello ritenuto nell'ordinanza dato che il capo di imputazione correlava la identificazione del diritto di proprietà al ruolo di custode che sarebbe affidato alla Casa da gioco fin dal momento dell'incasso delle somme, mentre il Tribunale aveva ritenuto essenziale per il passaggio di proprietà la verifica contabile, evento non previsto dalla imputazione provvisoria. 3. In data 14 settembre 2018 veniva proposto un motivo aggiunto e, segnatamente, la violazione dell'art. 627 c.p. nella parte in cui la sentenza impugnata non aveva adempiuto l'onere di verificare se il denaro incassato dalla Casa da gioco dovesse ritenersi "immediatamente" acquisito dal Comune; la valutazione del passaggio di proprietà nel momento della verifica contabile, ovvero in un momento successivo a quello dell'incasso sarebbe una operazione interpretativa che aggirava il vincolo imposto dalla sentenza di annullamento con rinvio, che invece aveva associato alla verifica del passaggio "immediato" di proprietà la valutazione in ordine alla sussistenza astratta della ipotesi di reato contestata. 4. Con ulteriore memoria si ribadivano inoltre le ragioni esposti a sostegno del secondo terzo e quarto motivo del ricorso principale: segnatamente si deduceva che il Casinò di Campione d'Italia, pur essendo un ente avente natura privatistica svolgeva funzioni pubblicistiche, sicchè anche nel caso in cui fosse riconosciuta l'appropriazione, la stessa non aveva prodotto alcuna distrazione del denaro da scopi pubblici. Si ribadiva il difetto di correlazione tra accertamento compiuto dal Tribunale e struttura del capo di imputazione provvisorio rilevando che il collegio territoriale aveva individuato la responsabilità in capo ai componenti del consiglio di amministrazione che erano anche pubblici ufficiali nonostante non vi fosse alcuna incompatibilità o conflitto di interessi dato che la doppia carica era prevista per legge. Si ribadiva inoltre che il Tribunale aveva individuato il momento dell'acquisto di proprietà da parte del comune nel momento della "verifica contabile" e non in quello dell' "incasso" delle somme da parte della Casa da gioco ed anche in questo caso vi sarebbe una discrasia tra il fatto ritenuto e quello contestato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.Il ricorso è fondato. 1.1. Il collegio in materia di valutazione dei confini di applicabilità di appropriazione indebita nei casi in cui il bene di cui abbia la disponibilità sia fungibile ribadisce che la regola dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 c.p.. Tuttavia non potrà, pertanto, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011 - dep. 20/10/2011, Orlando, Rv. 250974; Sez. 2, n. 26774 del 09/04/2010 - dep. 12/07/2010, Marzo, Rv. 247955). In ossequio a tale orientamento si è affermato, per esempio, che commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante (Sez. 2, n. 46256 del 17/10/2013 - dep. 19/11/2013, Deodato, Rv. 257446). 1.2. Approfondendo la ratio delle scelte ermeneutiche richiamate emerge che gli istituti civilistici che definiscono la proprietà non sono immediatamente trasferibili nel penale, dato che sono ipotizzabili "interversioni del possesso" anche di beni che secondo i principi civilististi (e segnatamente in ossequio ai principi che governano l'istituto del deposito irregolare, ovvero l'art. 1782 c.c.) sarebbero di "proprietà" del detentore. Le Sezioni unite in materia di appropriazione indebita (ma le conclusioni valgono anche per il peculato in esame) hanno chiarito che "la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell'altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s'ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche. Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un termine che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione tecnica, dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacchè il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività. Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce "una giustificazione conveniente", per "segni certi", della diversa accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull'interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle "finalità perseguite dall'incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca", come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell'offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004). Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all'individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto. Non può negarsi, all'inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnico-giuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal linguaggio comune, fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri fini. Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l'appunto tradizionalmente individuati nell'uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di possesso e detenzione, di altruità e proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l'esatto equivalente degli omonimi concetti propri del diritto civile. Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d'altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che (...) costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l'ordinamento obiettivo: anche l'effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati" (p.p. 11 e 12 Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011 - dep. 20/10/2011, Orlando, Rv. 250974). Proseguono le Sezioni unite affermando che "il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, nè in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull'accipiente soltanto l'obbligo di rendere o di impiegare l'equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso. Il riferimento, nell'art. 646 cod. pen., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente". Nella valutazione delle Sezioni unite il reato di appropriazione indebita (come si è detto le conclusioni in materia di definizione dellwaltruità" possono essere riferite anche al peculato) "guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle cose. Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l'autonomia dell'accezione con la quale le nozioni di "possesso" o bene "altrui" sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l'ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata" (p. 12.4. Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011 - dep. 20/10/2011, Orlando, Rv. 250974), ovvero la natura dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti. Si è chiarito tuttavia che tale l'ampliamento della nozione di "altruità", "non consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile. Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un'obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure "vincolata", la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l'inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente e più lievemente dall'art. 641 c.p., ma esclusivamente nell'ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d'insolvenza" (p. 12.5 delle citate Sezioni Unite) La Cassazione conclude affermando che "se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione nè potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l'inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell'interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p." (p. 13 delle citate Sezioni unite). In linea con tale interpretazione si è ad esempio stabilito che non integra il delitto di appropriazione indebita, risolvendosi un mero inadempimento civilistico, la corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga, perchè la differenza di denaro che il datore di lavoro trattiene per sè non costituisce parte del patrimonio dei dipendenti (Sez. 2, n. 20851 del 21/04/2009 - dep. 18/05/2009, Celona e altri, Rv. 244806). 1.3. Dalla giurisprudenza richiamata emerge che ai fini della configurazione dell'appropriazione indebita nei confronti di beni fungibili e, dunque del denaro, è essenziale che alla "disponibilità" del bene si accompagni l'accertamento di un vincolo di destinazione che deve "accompagnare" la detenzione dal momento del conferimento del bene, non essendo possibile interpretare come "vincolo di destinazione originario" un obbligo di natura civilistica assunto con la stipula di un contratto (nel caso di specie la convenzione regolatrice dei rapporti tra Enti). In sintesi: la appropriazione indebita, o il peculato di un bene fungibile possono essere configurati solo nei casi in cui il bene sia ab origine conferito dal proprietario con un vincolo di destinazione, che viene violato dal depositario nonostante lo stesso in ossequio ai principi civilistici (ovvero ai sensi dell'art. 1782 c.c.), sia "proprietario" a tutti gli effetti del bene fungibile. 1.4. Nel caso di specie il denaro quando veniva incassato dalla Casa da gioco non aveva alcun vincolo di destinazione in quanto provento della ordinarla attività del casinò. L'obbligo di destinazione di una quota fissa dell'incasso al comune di Campione di Italia, stabilita dalla Convenzione che regola i rapporti tra i due enti, non configura un vincolo di destinazione originario, ma piuttosto indica solo l'assunzione di una obbligazione della Casa da gioco nei confronti del Comune ospitante. La identificazione da parte dell'art. 7 della convenzione di un obbligo di custodia del denaro che era alla base della valutazione di un passaggio di proprietà "immediato" del denaro in capo all'Ente territoriale è un elemento svalutato anche dall'ordinanza impugnata che rileva come l'obbligo di custodia non sia necessariamente correlato all'esistenza di un diritto di proprietà su bene "altrui" (pag. 4 del provvedimento impugnato). Peraltro dal tessuto motivazionale delle sentenza impugnata emerge che le determinazione della quota spettante al Comune conseguiva solo alla effettuazione della periodica verifica contabile (pagg. 8 e 9 dell'ordinanza impugnata). Il mancato adempimento di tale obbligo costituisce pertanto un illecito civile (come è confermato dal passo dell'ordinanza che descrive l'iscrizione del credito liquidi ed esigibile nel bilancio del comune: pag. 9), ma non una interversione nel possesso di una somma vincolata ab origine. 1.5. Si dispone pertanto l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata a del decreto di sequestro ordinando la restituzione di quanto vincolato agli aventi diritto. Gli altri motivi si considerano assorbiti. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata ed il decreto di sequestro ordinando la restituzione di quanto vincolato agli aventi diritto. Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018. Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018
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