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Appropriazione indebita: condannato il soggetto che si impossessa dei beni dell'associazione da cui è stato escluso

Appropriazione indebita

Cassazione penale sez. II, 11/01/2018, n.4716

Risponde del delitto di appropriazione indebita il soggetto che, escluso da un'associazione non riconosciuta in forza di delibera ritenuta invalida, ma non impugnata, si impossessa di beni dell'associazione medesima.

Il giudice d’appello non deve rinnovare l’istruttoria se riforma per errore di diritto sulla procedibilità

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO 1.1 La CORTE APPELLO di GENOVA, con sentenza in data 20/09/2016, confermava la condanna alla pena ritenuta di giustizia pronunciata dal TRIBUNALE di GENOVA, in data 13/11/2015, nei confronti di L.N. in relazione ai reati di cui agli artt. 640,646 e 614 c.p.. 1.2 Propone ricorso per cassazione l'imputato, deducendo i seguenti motivi: - violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità dell'imputato posto che il provvedimento di allontanamento dall'associazione presso la quale il ricorrente aveva assunto la carica di vicepresidente e componente del consiglio direttivo era invalido perchè assunto in violazione di norme dello Statuto dell'ente; - violazione ed erronea applicazione dell'art. 646 c.p. posto che il ricorrente aveva agito quale proprietario e detentore della chiave della sede associativa; - violazione ed erronea applicazione dell'art. 614 c.p. posto che l'imputato in ogni caso aveva fatto accesso ai locali in buona fede quale conduttore; - violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo ai delitti contestati e ritenuti ai capi d) ed e) per i quali mancava il presupposto stante l'illegittimità dell'allontanamento del L. dall'associazione; - violazione ed erronea applicazione dell'art. 133 c.p. in punto determinazione della pena nonchè contraddittorietà della motivazione sulla ritenuta gravità dei fatti. 2.1 Il ricorso è inammissibile perchè manifestamente non fondato oltre che reiterativo di questioni già tutte debitamente affrontate dal giudice di appello. Con i primi quattro motivi la difesa ricorrente contesta l'affermazione di responsabilità assumendo l'illegittimità del provvedimento adottato il 17 febbraio del 2011 con il quale era stata decisa l'espulsione del L.; si assume in pratica che non essendo legittima l'esclusione dall'associazione, perchè adottata da organo non competente e comunque all'esito di procedura irregolare, mai le condotte poste in essere successivamente dall'imputato avrebbero potuto essere qualificate nei termini di cui alla rubrica e cioè integrare ipotesi di furto, appropriazione indebita, violazione di domicilio etc.. Il motivo è generico. Le doglianze riproducono infatti pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte d'appello ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera nè specificatamente censura. Il giudice di appello, per affermare l'infondatezza della tesi difensiva, ha infatti, con argomentazioni ineccepibili sia logicamente che giuridicamente, evidenziato che l'imputato avrebbe dovuto ricorrere avverso il provvedimento di esclusione e solo ottenuta la sospensione dei suoi effetti ovvero la declaratoria giurisdizionale di illegittimità proseguire nelle attività di vice presidente della associazione. In assenza di tale statuizione tutte le condotte vengono correttamente qualificate illecite perchè abusivamente poste in essere a fronte di un provvedimento formalmente valido e che non può nella presente sede penale essere sindacato. Tale specifica motivazione il ricorrente non prende nemmeno in considerazione, limitandosi a ribadire la tesi già esposta nei motivi di appello e confutata, con ragionevoli argomentazioni, nella sentenza impugnata. Deve pertanto ritenersi che commette il delitto di appropriazione indebita il soggetto che, escluso da un'associazione non riconosciuta in forza di delibera emessa da organo che si assume incompetente, in assenza dell'impugnazione in sede giurisdizionale della predetta delibera, prosegue ad utilizzare e ad impossessarsi di beni della medesima associazione. Sulla base delle predette considerazioni i primi quattro motivi di ricorso con i quali si contesta l'affermazione di responsabilità in relazione a ciascun reato paiono tutti ugualmente manifestamente non fondati. 2.2 Infine, la censura riguardante la determinazione della pena è parimenti inammissibile non ravvisandosi alcuna contraddittorietà della pronuncia di appello che sottolinea il disvalore del fatto commesso ai danni di soggetti in condizioni di disabilità. Peraltro va ricordato come la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p..; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che - nel caso di specie non ricorre. Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596). Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che ritiene equa, di Euro duemila a favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2018. Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2018
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