RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 11 gennaio 2016 dal Tribunale di Napoli, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di To.Gi., per i reati di cui agli artt. 646 cod. pen. e 2634 cod. civ., in quanto estinti per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili.
2. Ha proposto ricorso per cassazione To.Gi., a mezzo dei propri difensori, formulando sette motivi di impugnazione, che qui si riassumono nei termini di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 517,519,521 e 522 cod. proc. pen., poiché la contravvenzione di infedeltà patrimoniale era stata riqualificata nel delitto di appropriazione indebita aggravata, in difetto di contestazione delle circostanze di cui all'art. 61, n, 7 e 11 cod. pen.
2.2. Con il secondo motivo, la difesa censura - sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 124 e 646 cod. pen., 2634 cod. civ. e 125 cod. proc. pen. nonché della mancanza o mera apparenza della motivazione - il mancato proscioglimento per improcedibilità, avuto riguardo alla tardività della querela (e, in un caso, della sua integrale mancanza).
2.3. Il terzo motivo è diretto a rilevare l'erronea applicazione degli artt. 2487 e 2489 cod. civ., 646 cod. pen. e 125, 234, 238, 238-bis, 495 e 517, 518 e 522 cod. proc. pen., nonché vizi di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva, avendo i giudici partenopei ritenuto la commissione del reato di appropriazione indebita, sindacando nel merito lecite scelte gestionali del liquidatore e omettendo di acquisire sentenza civili costituenti decisiva prova a discarico e di considerare documentazione giustificativa già versata in atti.
2.4. Con il quarto motivo, la difesa si duole della violazione di legge (in relazione agli artt. 2634 cod. civ. e 125 cod. proc. pen. in merito alla mancata assoluzione per la condotta ascrittagli come infedeltà patrimoniale inerente all'affidamento di alcuni pareri legali all'avv. Melchionda.
2.5. Con il quinto motivo, si eccepisce la violazione di legge (in relazione agli artt. 1709 e 2489 cod. civ. e 125 cod. proc. pen.), in merito alla mancata assoluzione per la condotta di appropriazione indebita attinente alla autoliquidazione dei compensi, determinati secondo le tariffe professionali o gli usi, data l'impossibilità di raggiungere un accordo sul punto nell'assemblea dei soci e la liceità dell'erogazione di acconti.
2.6. Con il sesto motivo, si contesta la ritenuta sussistenza del dolo di legge, lamentando la violazione di legge (in relazione agli artt. 42 e 646 cod. pen. e 125 e 533 cod. proc. pen.) e vizi motivazionali.
2.7. Con il settimo motivo, si censura la violazione degli artt. 75 cod. proc. pen. e 2476, terzo e sesto comma, e 2488 cod. civ., per essere stata pronunciate le statuizioni civili in favore dei due fratelli Pi. in proprio, che non avevano personalmente riportato alcun danno, e non della Finpa Srl, nonostante la translatio per identità oggettiva e soggettiva della causa civile già instaurata.
2.8. Il co-difensore di To.Gi., avv. Ciancio, ha depositato note scritte, in riferimento al settimo motivo di ricorso, con cui si ribadisce l'avvenuta costituzione di parte civile sia di Finpa che di Pi.An. e Pi.Gi. nella loro qualità di soci e l'incongruità della sentenza che condanna il ricorrente al risarcimento non della società ma solo dei soci, in merito ai quali non emerge prova di un danno diretto. Il pagamento della provvisionale, peraltro, potrebbe essere anche fonte di inammissibili duplicazioni.
3. Le parti civili hanno presentato una memoria difensiva, diretta a sollecitare la declaratoria di inammissibilità per genericità di tutti i motivi di ricorso.
4. All'odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel suo complesso, infondate.
1. Non sussiste, quanto al primo motivo, l'invocata nullità della sentenza nella parte relativa alle circostanze aggravanti del danno patrimoniale di rilevante entità e dell'abuso di relazioni o di prestazione d'opera, asseritamente non contestate.
I giudici di merito, in primo luogo, nel rispetto della facoltà prevista dall'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. e in ossequio al principio iura novit curia, hanno correttamente ricondotto gli episodi ascritti al ricorrente sub a) (ad eccezione di quello relativo alla richiesta di parere legale alla moglie, per il quale è stata condivisa l'originaria imputazione ex art. 2634 cod. civ.) alla fattispecie di cui all'art. 646 cod. pen., poiché le condotte distrattive del denaro della società in favore di terzi soggetti sono state compiute dal liquidatore in assenza di una situazione di conflitto d'interessi con la medesima società. Le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale e dell'appropriazione indebita si pongono infatti in rapporto di specialità reciproca: l'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto. L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale (cfr. Sez. 6, n. 50795 del 26/11/2019, Tavasci, Rv. 277728; Sez. F, n. 40136 del 04/08/2011, Brancher, Rv. 251197; Sez. 2, n. 15879 del 27/03/2008, Baruffaldi, Rv. 239776).
La rubrica imputativa elenca, al capo a), gli specifici importi dei "rilevanti vantaggi patrimoniali " fatti conseguire ai professionisti nominati dal liquidatore (per oltre euro 400.000), precisando comunque con estrema chiarezza, pur senza richiamare espressamente l'art. 61, n. 7, cod. pen., come le condotte dell'imputato avessero "cagionalo) un danno di rilevante gravità patrimoniale alla società di cui era liquidatore". Invero, per costante giurisprudenza, ciò che rileva non è l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, ma la compiuta descrizione del fatto (cfr., Sez. U, n. 18 del 21/06/2000 Franzo, Rv. 216430, nonché, da ultimo, Sez. 3, n. 24365 del 14/03/2023, G., Rv. 284670-03; Sez. 5, n. 9706 del 30/01/2015, Rossitto, Rv. 262592).
Analogamente, l'abuso della prestazione d'opera - nozione che ricomprende, oltre all'ipotesi del contratto di lavoro, tutti i rapporti giuridici che comportino l'obbligo di un facere e che, comunque, instaurino tra le parti un rapporto di fiducia che possa agevolare la commissione del fatto (cfr. Sez. 6, n. 11631 del 27/02/2020, E., Rv. 278720; Sez. 2, n. 49523 del 29/11/2019, Franconetti, Rv. 278243-03) - emerge in maniera inequ voca da quanto esplicitato nella contestazione, ove, chiarendo ogni profilo anche latamente valutativo, si fa ampio riferimento alla posizione di liquidatore di FINPA Srl e alla mancanza di ragioni giuridicamente e finanziariamente valide per affidare gli incarichi ai professionisti o liquidare loro somme o per stipulare la polizza assicurativa.
Il motivo è dunque manifestamente infondato.
2. La Corte partenopea ha offerto congrua risposta alle questioni sottoposte alla sua attenzione in tema di procedibilità.
Per quel che concerne le fattispecie ascritte - originariamente (capo b)) o all'esito della riqualificazione da parte del giudicante (capo a), in parte) - ai sensi dell'art. 646 cod. pen., è stata correttamente rilevata, nella vigenza dell'oggi abrogato terzo comma dell'articolo suddetto, la procedibilità officiosa, avuto riguardo alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11, cod. pen.
D'altronde, alla luce delle modifiche normative intervenute, i due soci (complessivamente detentori della totalità del capitale sociale), nonché amministratori e legali rappresentanti (dopo la revoca dello stato di liquidazione), il 29 marzo 2023, hanno poi tempestivamente presentato querela, nella suddetta qualità, ai sensi dell'art. 85, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, per tutti i fatti in contestazione. Peraltro, la costituzione di parte civile non revocata equivarrebbe comunque a querela ai fini della procedibilità di reati originariamente perseguibili d'ufficio, divenuti perseguibili a querela a seguito dell'entrata in vigore della cosiddetta riforma Cartabia, posto che la volontà punitiva della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere legittimamente desunta anche da atti che non contengono la sua esplicita manifestazione (Sez. 3, n. 27147 del 09/05/2023, S., Rv. 284844. Cfr. anche, più in generale, Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273551).
L'istanza di punizione, inizialmente presentata per il sole delitto di infedeltà patrimoniale, osservano poi sinteticamente i giudici di appello, non risulta tardiva. La conclusione è corretta in punto di diritto, dovendosi far decorrere i termini di legge per la presentazione solo dalla compiuta conoscenza di tutti gli elementi rilevanti (nello specifico, anche del rapporto di coniugio tra il liquidatore e l'avvocato a cui era stato conferito l'incarico; cfr., ex pluribus, Sez. 2, n. 37584 del 05/07/2019, Di Lorenzo, Rv. 277081) ed è preclusa nel giudizio di legittimità una nuova ponderazione degli elementi fattuali posti alla base eli tale ricostruzione.
Il motivo è dunque non consentito, laddove sollecita una rilettura degli elementi istruttori, e comunque manifestamente infondato.
3. Il terzo e il sesto motivo, diretti a censurare la ritenuta sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del delitto di appropriazione indebita, possono essere esaminati congiuntamente.
È opportuno premettere che il giudice di appello, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale, in primo grado, è intervenuta anche condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede, è tenuto a decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili relativi alla generica condanna risarcitoria e, a tal fine, qualora - come nel caso di specie - non emergano contraddittorietà motivazionale o insufficienza probatoria, tali da imporre il proscioglimento nel merito, e resti pertanto ferma la declaratoria della causa di non punibilità (cfr. l'informazione provvisoria n. 5/2024 relativa alla pronuncia delle Sezioni Unite in data 28 marzo 24, nell'ambito del procedimento a carico di Calpitano Luca e altri, nonché Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273), deve accertare se la condotta dell'imputato sia stata idonea a provocare un danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., secondo il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" (Sez. 2, n. 11808 del 14/01/2022, Restaino, Rv. 283377).
Entro tale perimetro valutativo, si osserva come risultino, in astratto, fondate le riflessioni svolte dal ricorrente in merito alla penale irrilevanza degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal liquidatore che siano comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non un interesse esclusivamente personale del disponente in contrasto con quello proprio della società. Invero, resterebbe esclusa, in tal caso, la divaricazione assoluta tra il titolo del possesso e l'atto di disposizione della res idoneo a integrare la condotta appropriativa e risulterebbe altresì incompatibile con il dolo specifico previsto dalla norma incriminatrice il perseguimento di un interesse societario, in via diretta o indiretta o anche solo putativa (cfr. Sez. 5, n. 4942 del 01/12/2021, dep. 2022, Garilli, Rv. 282777; Sez. 2, n. 30942 del 03/07/2015, Costantin, Rv. 264555). E invero l'art. 2489 cod. civ. investe i liquidatori, in difetto di limiti espressi eventualmente previsti con l'atto di nomina, del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società, eliminando le passività e massimizzando la realizzazione dell'attivo. È dunque consentita, e anzi fisiologica all'espletamento del mandato, ogni operazione che, direttamente o indirettamente, sia funzionale a una liquidazione fruttuosa, nell'interesse dei soci e dei creditori sociali e in vista del riparto finale dell'eventuale residuo. Entro tale ambito, non opera il generale divieto di nuove operazioni, quando le azioni intraprese siano comunque vincolate alla prospettiva estintiva della società (cfr. Sez. 2 civ., n. 4143 del 15/03/2012, Rv. 622030).
Nondimeno, nel censurare l'asserita invasività dello scrutinio del giudice penale rispetto a scelte rimesse alla discrezionalità gestionale e operativa del liquidatore, il ricorrente non si confronta appieno con il solido apparato argomentativo delle due sentenze di merito, denotando gli inevitabili limiti di un approccio atomistico e selettivo al compendio probatorio.
La complessiva ricostruzione dei giudici di merito non si fonda in realtà su una indebita valutazione delle insindacabili singole scelte liquidatone, ma, in una lettura non frammentaria dell'intera vicenda, delinea un'opera di metodica spoliazione del patrimonio sociale, dietro lo schermo di operazioni solo apparentemente legittime e necessarie. Rileva, infatti, la Corte di appello come non colgano nel segno gli sforzi argomentativi della difesa, che parcellizzano le singole azioni, trascurando come, a fronte del primario compito del liquidatore di una società priva di passività di vendere i consistenti e appetibili cespiti immobiliari, in due anni di attività, il ricorrente abbia proceduto alla vendita del solo complesso immobiliare di via Pigna, da cui è stata ricavata la somma di euro 2.225.000, a fronte però di spese quantificabili in euro 870.000.
In quest'ottica, si colorano di diverso e più pregnante significato le minuziose analisi dell'operato del dottor To.Gi. da parte del Tribunale e della Corte territoriale, per quanto oggetto di contestazione, e ciò che la difesa dipinge come doverosa attività finalizzata alla liquidazione o, al più, come apparenti marginali irregolarità o minime anomalie gestionali si connota invece di una medesima comune natura predatoria, sorretta dal "fine ultimo (…) di locupletare un ingiusto profitto con pari danno per la società". Costituiscono, pertanto, condotte di appropriazione indebita, in quanto atti di arbitraria disposizione di dominus del patrimonio sociale, distratto in favore di terzi, così procurando a questi ultimi un ingiusto profitto:
- l'affidamento di due incarichi di consulenza all'avvocato Francesco Accardo, per limitate attività prodromiche ai successivi adempimenti di natura fiscale (compito primario e specifico del liquidatore, per il quale egli stesso si era già autoliquidato un compenso), con arbitraria erogazione per la informale consegna di alcuni documenti, peraltro mai rinvenuti, senza redazione di un elaborato scritto, di euro 11.500, laddove alla società di servizi utilizzata in precedenza per l'assistenza all'invio telematico dei bilanci erano stati corrisposti solo euro 100 per cinque fatture. Giova sottolineare come l'imputazione ricomprenda l'intera attività di collaborazione, e non una sola annualità, richiamando il compenso concordato annualmente e l'importo complessivo poi versato, e in tale ambito si sono mosse l'attività istruttoria e quella valutativa nei giudizi di merito;
- l'erogazione in favore del dottore commercialista Ma.Ma. di quattro pagamenti per complessivi euro 12.120, oltre Iva e accessori, quale preteso corrispettivo per collaborazione esecutiva (redazione dei verbali delle quattro assemblee effettivamente tenutesi, fotocopiatura, fascicolazione e predisposizione di documenti), in difetto di previa formale lettera di incarico e di comunicazione ai soci, laddove è del tutto incongruo l'affidamento a un professionista laureato di compiti di mero segretariato, che avrebbero potuto, nel caso, tranquillamente essere espletati direttamente dal liquidato -e (il quale pure si era in effetti autoliquidato compensi per analoghe prestazioni), per il tramite dei suoi collaboratori con mansioni d'ordine;
- l'affidamento di plurimi incarichi di stima di immobili all'ingegner Gi.Mi., per circa 220.000 euro effettivamente versati, oltre a ulteriori euro 140.000 oggetto di controversia civile tuttora pendente, tenuto conto che una delle relazioni estimative, pure pagata, non è mai stata offerta in visione ai soci, né prodotta in dibattimento, e che gran parte de le questioni affrontate riguardavano problematiche urbanistiche erroneamente affrontate, così da lasciar ipotizzare un non corretto ampliamento di volumetria con conseguente aumento del valore, in modo tale che anche gli onorari risultavano macroscopicamente sproporzionati;
- la sostituzione del precedente legale, avvocato Michele D'Amore, contro la volontà dei due soci, con l'avvocato Massimo Ruggiero, per seguire alcune controversie pendenti, reiterando attività legali già poste in essere dal precedente difensore e con retribuzione complessiva di circa euro 87.000, liquidate secondo una convenzione meno favorevole alla società rispetto a quella già intercorsa con l'avvocato D'Amore;
- l'affidamento di alcuni incarichi all'architetto Pi.Gi. per attività di rilievi architettonici, inutili, in quanto già espletati da altri professionisti per un corrispettivo di euro 1.048, e tuttavia ricompensati con un onorario di euro 30.000, calcolato secondo il massimo delle tariffe professionali;
- la stipula con Zurich Insurance Company - Zurich Investments Life Spa, nonostante la contraria volontà dei soci, di un contratto di capitalizzazione per la somma di euro 1.000.000, da considerarsi investimento assolutamente inopportuno dati i costi di ingresso (euro 20.000), la durata pluriennale e l'onerosità del rimborso anticipato, la conseguente inutile immobilizzazione del capitale di una società in liquidazione (tanto da determinare uno scoperto bancario che generò interessi passivi sul conto corrente della società), il minimo guadagno netto (meno dell'uno per cento) e la evidente possibilità di altre forme di tutela finanziaria più redditizie e meno rischiose, a partire dall'acquisto di titoli di Stato.
A queste condotte distrattive, occorre aggiungere, come accennato, anche il distinto delitto ex art. 2634 cod. civ. (unico episodio in cui era provata, ed anzi riscontrabile ictu oculi, la preesistenza di uri conflitto di interessi), relativo alla richiesta - effettuata con urgenza, poi non riscontrata in concreto - di due pareri pro ventate alla moglie, avvocato Me.Ma., su questioni del tutto irrilevanti e senza che poi se ne desse seguito in qualche modo.
La disamina complessiva della gestione svolta in poco più di due anni, manifestamente al di sotto degli standard esigibili di prudenza, diligenza e competenza professionale e foriera di costi altissimi e inutili per la società, impone, secondo i giudici di merito, di escludere la mera superficialità o imperizia nel comportamento del professionista, concretamente giustificabile solo alla luce di una maliziosa preordinazione diretta a sfruttare la nomina a liquidatore, procurando lucrosissimi e ingiustificati compensi a un'ampia platea di professionisti, sicuramente legati all'imputato (in primo luogo la moglie, e fors'anche il dottor Ma.Ma.) o comunque da lui beneficiati per qualche ragione (tutti gli altri). A questo unico fine fraudolento, si ebbe dunque una speciosa protrazione delle attività meramente prodromiche alla conversione in denaro dell'attivo, al pagamento dei creditori sociali (che non risultano presenti, perlomeno in misura consistente, a fronte di cospicua liquidità già disponibile) o comunque all'accantonamento delle somme necessarie e alla liquidazione del cosiddetto piano di riparto, con indicazione della parte spettante a ciascun socio.
Sintetizza la sentenza di primo grado: "le incongruenze, le anomalie e le abnormità che in precedenza sono state analiticamente esaminate sono così numerose, sotto il profilo quantitativo, nonché macroscopiche, sotto il profilo qualitativo, da rendere assolutamente non verosimile che le stesse possano essere causate da mera negligenza o imperizia, soprattutto se si tiene conto della qualificazione e dell'esperienza specifica dei professionisti coinvolti. In definitiva, non può che prendersi atto dell'evidente abnormità di una gestione liquidatoria in cui a fronte di attività richieste oggettivamente limitate, per le caratteristiche della società, e di risultati utili assolutamente modesti, riassumibili nella vendita di uno solo dei tre cespiti immobiliari, furono sostenute spese ingentissime per compensi relativi a plurimi incarichi professionali esterni e comunque del tutto spropositate" (p. 52). La Corte di appello condivide questa sintesi, affermando sussistere tutti i presupposti per la condanna al risarcimento del danno per fatto illecito ai sensi della legge civile, poiché con ogni evidenza To.Gi., abusando della propria qualità e comportandosi come padrone assoluto del patrimonio di FINPA, si appropriò indebitamente di danaro della società, distraendolo a terzi attraverso il conferimento di incarichi, alcuni dei quali del tutto inutili e altri pagati in modo esorbitante ovvero commissionando pareri alla moglie, in lampante conflitto di interessi (p. 17).
Una simile ricostruzione unitaria dei fatti appare sicuramente congrua, scevra di illogicità o contraddizioni e aderente a quanto emerge dall'ampia piattaforma istruttoria, risultando pertanto nel giudizio di legittimità impermeabile alle censure del ricorrente, dirette a un'alternativa valutazione di merito, sulla base di circostanze schiettamente fattuali (la necessità di nominare nuovi professionisti visto il clima di sfiducia che aveva dato luogo alla liquidazione, l'andamento di distinte controversie civili, la presunta utilità economica o praticabilità urbanistica di talune operazioni, etc.).
Le conclusioni in punto di diritto a cui pervengono, su tali basi e senza intromissioni arbitrarie nelle valutazioni discrezionali proprie degli operatori economici, i giudici di merito, sono del pari corrette. L'art. 2489, secondo comma, cod. civ. impone ai liquidatori un obbligo di professionalità e diligenza. Integra il reato di appropriazione indebita la condotta del liquidatore di uria società di capitali che, distraendole dagli scopi a cui sono effettivamente destinate, versi somme di denaro della società a terzi, per il perseguimento di un interesse estraneo a quello dell'ente e in mancanza di un formale assenso dei soci al compimento di tali erogazioni, Le spese sostenute, per come concretamente venute in essere, non risultano giustificate o giustificabili siccome pertinenti all'interesse della società in liquidazione, ma esclusivamente vòlte all'arricchimento del liquidatore o di terzi, dietro la surrettizia copertura formale della piena discrezionalità gestoria (cfr., relativamente all'operato dell'amministratore, Sez. 6, n. 39008 del 06/05/2016, Biagi, Rv. 268090; Sez. 2, n. 50087 del 14/11/2013, Biondo, Rv. 257646. È stato poi sottolineato da Sez. 2, n. 56935 del 31/10/2018, Messina, Rv. 274257; Sez. 2, n. 50672 del 24/10/2017, Colaianni, Rv. 271385, come sia configurabile il delitto di appropriazione indebita, quando l'agente violi, attraverso l'utilizzo personale o ogni altro tipo di distrazione non autorizzata, la specifica destinazione di scopo della liquidità disponibile).
La Corte di appello ha dunque correttamente, in primo luogo, escluso la possibilità di un'assoluzione nel merito (con scrutinio esteso non solo alla semplice constatazione di circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, ma, in presenza di parte civile costituita, altresì apprezzando l'inesistenza dell'asserita contraddittorietà o insufficienza delle prove a carico), per poi procedere alla conferma delle statuizioni civili, in base ai criteri previsti per un tale giudizio (criteri ampiamente ottemperati, sulla scorta della tranquillizzante piattaforma istruttoria già ampiamente vagliata). La responsabilità civile è stata condivisibilmente valutata come di tipo aquiliano, derivando da un fatto doloso che ha cagionato un danno ingiusto, non semplicemente riconducibile, come visto, all'inesatta esecuzione della prestazione professionale dovuta.
Non risulta irrituale, infine, anche alla luce dell'eccezionalità della rinnovazione istruttoria in secondo grado e alla completezza del compendio probatorio, la mancata acquisizione di provvedimenti del giudice civile, aventi ad oggetto la debenza (e l'importo) degli onorari a fronte di incarichi formalmente conferiti, prescindendo però del tutto dal più ampio scenario attentamente ricostruito dai giudici di merito per contestualizzare le condotte distrattive oggetto di imputazione.
Il motivo è dunque infondato.
4. In ordine al quarto motivo, si osserva come, ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 cod. civ., secondo Sez. 5, n. 40446 del 04/06/2019, Polverino, Rv. 277430, è necessario che ricorrano i seguenti presupposti:
a) un interesse dell'amministratore in conflitto con quello della società;
b) la "deliberazione" di un "atto di disposizione" di beni sociali;
c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata;
d) il fine specifico, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio.
Il legislatore delinea, dunque, un modello delittuoso potenzialmente esteso a tutte le possibili operazioni poste in essere dai titolari del potere gestorio, limitato in concreto alle sole condotte che siano effettivamente idonee a cagionare un danno (Sez. 6, n. 50795 del 26/11/2019, Tavasci, Rv. 277728; Sez. 5, n. 22495 del 18/11/2015, dep. 2016, Marchionni, Rv. 267140, in motivazione).
Nel caso di specie, la preesistente situazione di conflitto con il reale interesse della società emerge dal contrario interesse del liquidatore a conferire un incarico - come visto, lucroso e peraltro non necessario, secondo la intangibile ricostruzione dei giudizi di merito, adeguatamente contestualizzata - a un suo strettissimo congiunto, con cui condivide il medesimo studio professionale, pur potendo contare in alternativa sull'enorme numero di professionisti del Foro napoletano (o di altri Ordini). Nella maliziosa volontà di gratificare economicamente e professionalmente la coniuge, in assenza di valide ragioni, consiste dunque l'antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l'imputato e la società, che si pongono così reciprocamente in una posizione antitetica, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali dell'ente (cfr. Sez. 2, n. 55412 del 30/10/2018, Rossi, Rv. 274253).
Nulla quaestio, d'altronde, sulla sussistenza dell'atto dispositivo (eziologicamente collegato al danno alla persona offesa e all'ingiustizia del profitto) e, alla luce di quanto sinora considerato, sulla intenzionalità del sistematico emungimento delle casse sociali.
Non si rilevano, in conclusione, irritualità censurabili, né nella declaratoria di estinzione per prescrizione, né, a mente delle riflessioni che precedono, dell'esistenza di un danno risarcibile per un illecito extracontrattuale.
Il motivo è quindi privo di fondamento.
5. Il delitto di appropriazione indebita contestato al capo b) ha per oggetto oltre euro 300.000, oltre Iva, percepiti dall'imputato a titolo di acconto sul compenso finale per la propria prestazione professionale, nella misura da lui stesso autonomamente determinata per le vie brevi in proprio favore.
La Corte napoletana ha ritenuto, in primo luogo, che una parte delle plurime autoliquidazioni di compensi, fossero destinate al soddisfacimento di esigenze personali in nessun modo ricollegabili alla attività liquidatoria (viaggi in treno o in aereo, pasti al ristorante).
Per il resto, osservano i giudici di merito, emerge dai verbali assembleari che la questione delle spettanze del liquidatore fu effettivamente posta all'ordine del giorno e discussa, senza però giungere a una concorde soluzione, non trovandosi d'accordo gli interessati (il ricorrente e i due soci) sui criteri di computo. Di fronte a questo stallo, il dottor To.Gi. procedette a riconoscersi "sostanziosi acconti, mediante bonifici bancari dal conto corrente della società. Solo successivamente emise fatture a saldo, per euro 267.000, e una finale, il giorno prima della revoca della liquidazione, a saldo, per circa euro 50.000 ulteriori. Rendono palese l'omogeneità di queste condotte con quelle a lui ascritte al capo a) la manifesta eccessività del compenso (non superabile con l'apposizione di un visto di congruità da parte dell'Ordine dei commercialisti, ferma l'onerosità dell'incarico), le modalità appropriative (anche gonfiando immotivamente il conto cassa contanti, onde poter operare poi in compensazione con l'asserito credito), l'elasticità di interpretazione delle vigenti tariffe tabellari, l'impossibilità di compensazione (in difetto di un
controcredito certo, liquido ed esigibile) e il mancato rispetto degli accordi con i soci (che prevedevano il ricorso al Tribunale civile) ed anzi la ferma e immediata contestazione delle autoliquidazioni interinali da parte dei fratelli Pi.. Da un simile comportamento, così adeguatamente contestualizzato al pari delle precedenti distrazioni, "emerge in modo lapalissiano l'illiceità della condotta dell'odierno imputato dalla quale derivò un evidente e ingente danno per la società in liquidazione", con ciò imponendosi la conferma delle statuizioni civili.
La Corte territoriale ha dunque ampiamente e congruamente illustrato gli elementi a carico del ricorrente, evidenziando in concreto l'univocità e la concordanza del quadro probatorio, con motivazione che non palesa alcuna incongruenza o illogicità.
Il ricorrente si confronta con questa solida ricostruzione dei fatti operata nei precedenti gradi di giudizio, in un'ottica di mera contrapposizione dimostrativa, solo reiterando le precedenti doglianze, arricchite da notazioni in punto di diritto che non possono scalfire le suddette valutazioni di merito, e sollecitando una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, mediante una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio.
Il quinto motivo è dunque generico e, in parte, non consentito.
6. Quanto alla censura, articolata nel settimo motivo di ricorso, relativa alla asserita irritualità dell'individuazione dei destinatari del risarcimento del danno nella sentenza di primo grado (secondo il ricorrente, implicitamente condiviso in appello, tramite la conferma nel resto della pronuncia, all'esito della declaratoria di estinzione dei reati), occorre rilevare preliminarmente come una simile doglianza non risulti - come può agevolmente evincersi dall'atto di gravame e in particolare dall'undicesimo motivo, relativo alle statuizioni civili - previamente a suo tempo dedotta come motivo di appello.
La doglianza non supera dunque la soglia di inammissibilità, ai sensi dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., e in ogni caso, come accennato, Pi.Gi. e Pi.An. risultano costituiti in giudizio entrambi non in proprio, ma -successivamente alla revoca dello stato di liquidazione -- nella qualità di amministratori e legali rappresentanti di FINPA Srl, di cui peraltro detengono l'intero capitale sociale.
Per quanto poi attiene alle doglianze concernenti la concessione e quantificazione di una provvisionale, occorre rilevare ulteriormente come una simile statuizione non sia impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva successiva liquidazione dell'integrale risarcimento
(Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 277773-02; Sez. 2, n. 43886 del 26/04/2019, Saracino, Rv. 277711).
I motivi aggiunti sul punto restano travolti dall'inammissibilità dei motivi originari e comunque risulterebbero, alla luce di quanto illustrato, manifestamente infondati.
7. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e il ricorrente condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Consegue altresì la condanna dell'imputato alla rifusione delle spese di assistenza e rappresentanza sostenute dalla parte civile costituita nel presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, in relazione all'attività processuale svolta.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile FINPA Srl, in persona degli amministratori, che liquida in complessivi euro 6.000, oltre accessori di legge.
Così deciso il 24 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2024.