RITENUTO IN FATTO
Cu.Fr. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano del 30 novembre 2023, che - previa riduzione del trattamento sanzionatorio - ne ha confermato l'affermazione di responsabilità in relazione ai delitti di cui agli artt.110 cod. pen., 216 prima parte n. 2, 223 comma 1 e comma 2 n. 2, 219 comma 1 e capov. n. 2 L.F., ascrittigli in qualità di socio accomandatario ed amministratore di diritto fino al 18 gennaio 2016 e, poi, di amministratore di fatto della OPELIN Sas, dichiarata fallita con sentenza del 22 settembre 2016.
1. Il ricorso, a firma di difensore abilitato, si è affidato a tre motivi, di seguito richiamati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
1.1. Il primo motivo ha dedotto violazione di legge e di motivazione in ordine alla statuizione della sua veste di amministratore di fatto, riconosciuta dalla sentenza impugnata senza rispettare il disposto dell'art. 2639 cod. civ. e i criteri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità.
1.2. Il secondo motivo ha denunciato la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, anche alla luce delle regole della CEDU e della giurisprudenza Europea, perché l'imputato sarebbe stato condannato per un fatto diverso rispetto a quello contestatogli; la sentenza impugnata avrebbe affermato la sua responsabilità per una condotta distrattiva mai contestata.
1.3. Il terzo motivo, erroneamente indicato come il quarto, si è soffermato sui vizi di violazione di legge penale e di motivazione in rapporto alla mancata riqualificazione del delitto di bancarotta fraudolenta documentale in quello di bancarotta semplice, proprio in considerazione dell'insussistenza di atti distrattivi compiuti dall'amministratore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1. Va in premessa rammentato che, in presenza di c.d. doppia conforme, come nella specie, la motivazione della sentenza impugnata si salda con quella della sentenza di primo grado (Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Rv. 277518 - 02) e che, secondo il costante orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici e soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. sez.2, n.42046 del 17 luglio 2019; conformi: N. 19951 del 2008 Rv. 240109 - 01, N. 11951 del 2014 Rv. 259425 - 01, N. 11933 del 2005 Rv. 231708 - 01, N. 28011 del 2013 Rv. 255568 - 01, N. 20377 del 2009 Rv. 243838 - 01).
1.1. I motivi del ricorso per cassazione sono meramente ripropositivi dei motivi di appello, già adeguatamente respinti dalla Corte di merito.
Quanto al primo motivo di ricorso, il ricorrente non si confronta con la ratio decidendi della motivazione della Corte d'Appello, letta in un unicum argomentativo con la struttura della sentenza di primo grado, logica e sostenuta da inequivoci elementi di prova. In particolare, deve essere evidenziato che il prevenuto è stato socio accomandatario ed amministratore della fallita dalla costituzione del 2008 al gennaio 2016, sino ad otto mesi prima della declaratoria di fallimento, arco temporale di sostanziale, progressiva formazione del debito erariale insinuato nella procedura concorsuale; che la figura dell'ultimo amministratore di diritto, Ol.Pe., immediatamente resasi irreperibile alla curatela, è stata ragionevolmente ricondotta a mero simulacro, dal momento che gli organi fallimentari hanno interloquito esclusivamente con il Cu., che aveva certamente la disponibilità dell'impianto contabile, la cui ostensione - mai avvenuta - è stata da lui promessa al curatore in occasione degli incontri de visu; che il ruolo primario di dominus della società, attribuito a costui, è stato confermato dalle informazioni fornite dall'ex socio accomandante e tenutario delle scritture, Gallo Vito, che ha comunicato alla curatela di aver consegnato i documenti societari a Cu. (pagg. 3 - 6 sentenza di primo grado, pag. 5 sentenza di appello). In tal guisa, i giudici di merito hanno correttamente desunto da tali indicatori il ruolo di amministratore di diritto e, nell'ultimo invero breve periodo, di amministratore di fatto del ricorrente, con evidenze che corrispondono al quadro di riferimento giurisprudenziale che sovrintende l'accertamento della responsabilità di un soggetto sprovvisto della carica formale societaria di amministratore, rivestita di fatto. Si rammenta, sul punto, come sottolineato anche dalla Corte di merito, che, in tema di reati fallimentari, la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare - che costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, Faruolo, Rv. 269101). Ed ancora, in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall., vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Ottobrini, Rv. 268273). La nozione di amministratore di fatto, dunque, per come introdotta dall'art. 2639 cod. civ., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione e tuttavia, significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale, ragione per cui la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare - il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534). I rilievi difensivi, in proposito, si profondono nell'elencazione di massime giurisprudenziali puntualmente in linea con le proposizioni enunciative degli elaborati di merito e, nel complesso, si palesano inconsistenti e finalizzati a sollecitare il collegio ad una non consentita rivisitazione della piattaforma probatoria. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, dal momento che il principio generale della necessaria corrispondenza tra l'accusa e la sentenza riguarda l'immutabilità del fatto contestato in relazione all'affermazione di responsabilità, e la sua violazione non può essere ravvisata nella pretesa incongruità delle parole o delle argomentazioni espresse dal giudice nel dar conto di essa, ipotesi che può eventualmente identificare un vizio di illogicità della motivazione. E al collegio non è dato cogliere tale profilo, perché al di là dell'estemporanea evocazione della "distrazione" - in un fugace passaggio della parte motiva - di risorse patrimoniali, il tessuto espositivo delle pronunce del doppio grado ha ampiamente e pianamente divisato ed affrontato l'oggetto specifico del rimprovero formulato dall'editto imputativo, attinente alla ingente, risalente nel tempo, sistematica e preordinata omissione dei versamenti erariali che, alla luce di un consolidato orientamento di questa Corte, ben può integrare il delitto di bancarotta impropria per effetto di operazioni dolose (sez. 5, n. 24572 del 19/02/2018, De Mattia e altri, Rv. 273337). Tali condotte non si concretano in una forma di depauperamento mediante sottrazione di attivo, come avviene nella bancarotta fraudolenta patrimoniale, che non esige necessariamente un collegamento con il dissesto o con il fallimento, ma attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini, Rv. 261684). Pertanto, le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall., possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di pervicacia e stabilità (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046; in senso analogo, Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, Rv. 260492, che ha qualificato come operazione dolosa il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità); integra il reato di fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose la condotta dell'amministratore che ometta il versamento delle imposte dovute, gravando così la società da ingenti debiti nei confronti dell'erario, e successivamente proceda alla distribuzione dei predetti utili a favore dei soci, in quanto allorché l'assegnazione dell'utile avvenga senza la pre - deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria - che sorge al momento dell'erogazione della ricchezza - si concreta una manomissione della ricchezza sociale, trattandosi di distribuzione che eccede quanto di pertinenza dei soci (Sez. 5, n. 17355 del 12/03/2015, Casale, Rv. 264080). Quanto alla causazione del dissesto, nella bancarotta impropria cagionata da operazioni dolose, le condotte dolose, che non necessariamente costituiscono distrazione o dissipazione di attività, devono porsi in nesso eziologico con il fallimento; ciò che rileva, ai fini della bancarotta fraudolenta impropria, non è, dunque, l'immediato depauperamento della società, bensì la creazione, o anche soltanto l'aggravamento (ex multis, Cass., Sez. V, n. 8413 del 16/10/2013, Besurga, Rv 259051), di una situazione di dissesto economico che, prevedibilmente, condurrà al fallimento della società (in tal senso, Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv. 262188, secondo cui sussiste il delitto di bancarotta fraudolenta previsto dall'art. 223, comma secondo n. 2, l. fall., anche quando le operazioni dolose dalle quali deriva il fallimento della società non comportano una diminuzione algebrica dell'attivo patrimoniale, ma determinano comunque un depauperamento del patrimonio non giustificabile in termini di interesse per l'impresa). A questa prospettiva è dunque da ricondurre l'appropriato ragionamento della Corte territoriale, che ha individuato nella deliberata e costante omissione dei versamenti erariali un obbiettivo di "autofinanziamento" dell'imprenditore, che - anziché destinare le risorse all'adempimento dei debiti tributari e previdenziali - le ha utilizzate per finalità differenti, così da cagionare l'ingravescente dimensione del dissesto, per ciò solo ragionevolmente prevedibile( pag.6 e 7 sentenza impugnata, pag. 5 e 6 sentenza del primo giudice).
1.3. Anche il terzo motivo, che può in parte essere agganciato alle confutazioni mosse con il secondo, si rivela generico ed affetto da manifesta infondatezza. Integra il reato di bancarotta documentale fraudolenta, e non di quello di bancarotta semplice, l'omessa tenuta della contabilità interna quando lo scopo dell'omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori, impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali (Sez.5, n. 18320 del 07/11/2020, Morace, Rv. 279179); e lo scopo di recare danno ai creditori, impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali può essere desunto dalla complessiva ricostruzione della vicenda e dalle circostanze del fatto che ne caratterizzano la valenza fraudolenta, colorando di specificità l'elemento soggettivo, che, pertanto, può essere ricostruito sull'attitudine del dato a evidenziare la finalizzazione del comportamento omissivo all'occultamento delle vicende gestionali (sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Di Pietra, Rv.284304); e, ancora, in relazione alla fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale ed. "specifica", lo scopo di recare pregiudizio ai creditori può essere desunto dagli indici di fraudolenza, come possono essere il passivo rilevante e la distrazione dei beni aziendali (sez.5, n. 2228 del 04/11/2022, Occhiuzzi, Rv. 283983). La prospettazione difensiva, dunque, stride con le evidenze probatorie e non si confronta nel complesso con la tenuta argomentativa, piana e dettagliata, fornita dal primo giudice e dalla Corte d'Appello in risposta all'analogo motivo proposto nell'impugnazione di merito, dal momento che la mancata ostensione delle scritture contabili ha precluso la benché minima rielaborazione dell'investimento delle disponibilità societarie rispetto al soddisfacimento delle rilevanti obbligazioni erariali - di ignota sorte - e, più in generale, dell'impiego delle risorse finanziarie e patrimoniali che nella dichiarazione dei redditi del 2014, ultima disponibile, hanno raggiunto un ragguardevole attivo, quantificato in Euro 2.108.180 (cfr. pag. 4 sent. di primo grado; v. anche pag. 7 sentenza di secondo grado).
2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, conseguono la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non potendosi escludere profili di colpa nella formulazione dei motivi, anche al versamento della somma di Euro 3000 a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 6 giugno 2024.
Depositata in cancelleria il 6 settembre 2024.