RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Firenze
confermava la decisione di condanna di primo grado del ricorrente resa in sede di
rito abbreviato dal GUP del Tribunale di Firenze per i delitti di cui ai capi 1) e 5)
dell'imputazione.
In particolare, il N.era condannato, per un verso, per il delitto di cui
agli artt. 223, commi 1 e 2, n. 1, con riferimento agli artt. 2621 c.c. e 216 I.fall,
in quanto, nella veste di amministratore unico, dal 3 febbraio 2003 al 15 giugno
2012 e, in seguito, fino al fallimento, di liquidatore della società AVIVA s.r.l.
cagionava e concorreva ad aggravare il dissesto della fallita per conseguire per
sé o per altri un ingiusto profitto, esponendo consapevolmente nei bilancio dal
2008 al 2010 fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica,
patrimoniale e finanziaria della società, in modo concretamente idoneo ad
indurre altri in errore (capo 1).
Inoltre, il ricorrente era riconosciuto penalmente responsabile del delitto di
cui all'art. 223, comma 2, n. 2, I. fall., poiché, nelle indicate vesti, determinava
per effetto di operazioni dolose il fallimento della società, in ragione del
sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, contributive e
previdenziali, che alla data del fallimento erano pari all'importo di euro
652.445,08 (capo 5).
2. Avverso la richiamata sentenza della Corte d'Appello di Firenze l'imputato
ha proposto ricorso per cassazione, mediante il difensore di fiducia, avv. Enrico
Di Martino, articolando quattro motivi di censura.
2.1. Innanzi tutto, il N. lamenta, in relazione al capo 1), violazione di
legge e vizio di motivazione quanto alla falsa iscrizione in bilancio di ricavi e
all'omessa indicazione dell'importo delle sanzioni erariali.
Premesso che le difficoltà della società, anche rispetto al pagamento delle
imposte e dei contributi, dovevano essere ricondotte, come riconosciuto anche
dal giudice di primo grado, alla crisi mondiale del settore intervenuta nel 2008, il
ricorrente sostiene, riconducendosi ai principi espressi dalla sentenza della Corte
di cassazione n. 1148 del 2024, che le appostazioni di bilancio contestate
nell'imputazione hanno carattere valutativo e non già descrittivo, e che, nella
specie, stante la genericità dei criteri a tal fine previsti dall'art. 2426 n. 8 cod.
civ. e dal principio contabile n. 15 dell'OIC, tali appostazioni avrebbero dovuto
essere considerate erronee e non false.
2.2. Con il secondo motivo l'imputato deduce violazione di legge e vizio di
motivazione circa la sussistenza dell'elemento materiale del delitto di bancarotta
fraudolenta nella misura in cui la decisione impugnata ha equiparato il forte
indebitamento societario alla condotta distrattiva, senza individuare
specificamente le condotte finalizzate al pregiudizio del ceto creditorio,
considerato che l'ammontare dei debiti verso enti erariali e previdenziali
costituisce un inadempimento di natura civilistica, dovuto, peraltro, alla crisi del
settore intervenuta dall'anno 2008.
2.3. Mediante il terzo motivo il N. lamenta violazione di legge e vizio di
motivazione rispetto alla sussistenza dell'elemento soggettivo poiché la Corte
territoriale, pur riconoscendo la situazione di grave crisi dell'anno 2008, individua
la causa dell'aggravamento del dissesto nel falso in bilancio, mentre dalla
relazione del curatore fallimentare si evince che la liquidità era stata utilizzata
per ripianare i debiti, condotta, questa, incompatibile con l'elemento soggettivo
richiesto in relazione al delitto di bancarotta.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione di legge e omessa
motivazione quanto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche, richiamando alcune pronunce di legittimità e concludendo nel senso
che dette circostanze devono essere riconosciute se emergono elementi
favorevoli all'imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non è fondato.
Innanzitutto, il N. non si confronta con le articolate argomentazioni
della Corte territoriale che, per le differenti appostazioni di bilancio ritenute false
negli anni dal 2008 al 2010, ha evidenziato che le stesse erano finalizzate ad
occultare le perdite, per evitare che sorgesse il dovere di porre la società
immediatamente in liquidazione (pag. da 5 a 7).
Inoltre, proprio tale mancato confronto con le dettagliate argomentazioni
della decisione che hanno portato ad escludere che le appostazioni fossero
semplicemente erronee e a ritenere le stesse volte ad occultare perdite e ad
indicare ricavi più elevati, fa sì che non possa accedersi alla conseguente
prospettazione difensiva per la quale, a fronte di plurime appostazioni di bilancio
rivelatesi fallaci, si dovrebbe, in applicazione dei principi sanciti dalla
giurisprudenza di legittimità, ritenere che le valutazioni operate in bilancio non
erano false ma semplicemente errate.
Per vero, così individuato, con congrue motivazioni, il fine perseguito dallo
stesso, la Corte territoriale - sul presupposto che la nuova formulazione dell'art.
2621 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, che ha soppresso
l'inciso «ancorché oggetto di valutazioni» con riferimento ai «fatti materiali non
rispondenti al vero», non esclude la rilevanza penale della esposizione in bilancio
di enunciati valutativi falsi, che violano parametri normativamente determinati o
tecnicamente indiscussi (Sez. U, Sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli,
Rv. 266803) - ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui il reato di
bancarotta fraudolenta impropria, di cui all'art. 223, secondo comma, n. 1, I. fall.
da reato societario di false comunicazioni sociali, previsto dall'art. 2621 cod. civ.,
nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in
relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l'agente, in
presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici
generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata
informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i
destinatari delle comunicazioni (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti e altri,
Rv. 268672).
Né è pertinente l'evocata sentenza n. 1146 del 15/11/2023, dep.
10/01/2024, di questa Corte che riguarda la differente fattispecie
dell'appostazione in bilancio di crediti come esigibili anche se non lo erano in
forza di un'erronea valutazione degli organi societari sulla possibilità di
recuperare i crediti stessi, senza che detta erronea valutazione fosse correlata,
come nel caso in esame, ad un più ampio disegno volto a celare il reale stato
della società affinché questa potesse continuare ad operare e non essere posta,
a tutela dei creditori, immediatamente in liquidazione.
2. È inammissibile (e, in parte, incomprensibile) la censura posta a
fondamento del secondo motivo di ricorso per la quale l'omesso pagamento dei
debiti erariali e previdenziali costituirebbe non già una distrazione, come avrebbe
affermato, nella prospettazione dell'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, bensì
un inadempimento di carattere meramente civilistico.
In realtà il motivo di ricorso trascura di considerare che già la
prospettazione accusatoria (cap. 5) non era certo quella di una bancarotta
distrattiva bensì di aggravamento del dissesto per effetto del sistematico
inadempimento alle obbligazioni erariali e contributive.
E, invero, per costante giurisprudenza di legittimità, in tema di bancarotta
fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2,
legge fall. possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni
fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli
amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua
esposizione debitoria nei confronti dell'erario e degli enti previdenziali (ex multis,
Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, De Mattia, Rv. 273337 - 01; Sez. 5, n. 12426
del 29/11/2013, dep. 2014, Beretta, Rv. 259997 - 01).
A riguardo, non è superfluo ricordare, che, ai fini della configurabilità della
bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo
specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la
coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come
conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024,
Leoni, Rv. 286349 - 01), ritraibile nell'ipotesi considerata dall'aggravamento
delle posizioni debitorie per l'applicazione degli interessi e delle sanzioni disposte
dagli enti erariali e previdenziali.
3. Il terzo motivo, reiterativo di analoga censura spiegata con l'atto di
appello, è, parimenti, generico per il mancato confronto con le articolate
argomentazioni con le quali la sentenza impugnata ha disatteso le relative
doglianze sulla carenza dell'elemento soggettivo.
Infatti, come è stato congruamente osservato, se la causa scatenante le
difficoltà economiche della società è stata la crisi del settore, intervenuta sin
dall'anno 2008, il N., invece di assumere i provvedimenti necessari onde
evitare l'aggravamento della situazione, ad esempio ponendo in liquidazione la
società, ha, pur consapevole della gravità della situazione economica
dell'impresa, nell'intento (dichiarato del resto dallo stesso) di cercare di superare
la crisi, continuato a svolgere l'attività di impresa. E ha dunque inserito false
appostazioni nel bilancio allo scopo di evitare che la gravità della situazione
economico-patrimoniale della fallita si rendesse evidente.
A fronte di questa logica e articolata ricostruzione, le doglianze dell'imputato
che si limita, genericamente, a dedurre che egli non aveva distratto somme ma
le aveva utilizzate per ripianare i debiti, non solo non si confrontano con la
sentenza della Corte territoriale ma non colgono il senso delle stesse.
4. Il quarto motivo è inammissibile poiché il N., senza fare alcun
riferimento né alle ragioni che hanno determinato i giudici di merito a denegargli
la concessione delle circostanze attenuanti generiche né ai concreti elementi
positivi che avrebbero dovuto indurre gli stessi e, in particolare, la Corte
d'appello ad una diversa valutazione, si limita a richiamare la giurisprudenza e la
normativa relativa all'art. 62-bis cod. pen.
5. Nel complesso, dunque, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente
condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 10 ottobre 2024