RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 29 novembre 2019, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Rimini del 14 dicembre 2017, con la quale l'imputato - all'esito di giudizio abbreviato - era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di sei mesi di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter perchè, nella qualità di legale rappresentante della Essedue Promotion s.a.s., ometteva di versare l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione dell'anno 2012, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, per un ammontare complessivo evaso di Euro 1.155.567,00.
2. Avverso la sentenza l'imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, per avere la Corte d'appello ritenuto provata l'esistenza della dichiarazione fiscale da cui traeva origine l'Iva evasa, che rappresenta elemento costitutivo del reato contestato, unicamente in ragione della denuncia presentata dall'Agenzia delle Entrate ex art. 331 c.p.p., nonostante mancasse copia di tale dichiarazione nel fascicolo processuale. Il rilievo oggetto di denuncia, tra l'altro, si riferirebbe - secondo la difesa - all'omesso versamento di ritenute alla fonte relative e a emolumenti erogati nell'anno 2012 e non all'omesso versamento dell'Iva oggetto dell'imputazione.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si deduce la carenza di motivazione del provvedimento rispetto alle deduzioni difensive volte a rilevare l'assenza di una previsione legislativa che consenta di pronunciare una sentenza di condanna sulla base della sola denuncia.
2.3. Con un terzo motivo, si deducono vizi di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, in quanto la Corte d'appello ne avrebbe escluso il riconoscimento in virtù dell'entità dell'imposta evasa e dell'assenza di qualsivoglia forma di resipiscenza da parte dell'imputato; elementi già valutati dal giudice di prima istanza nella determinazione della pena e che non potevano essere oggetto di ulteriore apprezzamento. In ogni caso, la motivazione adottata dal giudice di secondo grado nella determinazione del trattamento sanzionatorio sarebbe intrinsecamente contraddittoria, dal momento che questo, da un lato, ha negato la concessione delle richieste circostanze in ragione dell'entità dell'imposta evasa, dall'altro, ha ritenuto adeguata al fatto commesso la modesta pena applicata dal giudice di prima istanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo e il secondo motivo di impugnazione - che possono essere esaminati congiuntamente perchè entrambi riferiti all'insufficienza della sola denuncia a dare prova dell'esistenza della dichiarazione fiscale ai fini Iva - sono manifestamente infondati. Deve rilevarsi, infatti, che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, per un ammontare superiore ad Euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d'imposta. Per la configurabilità di tale fattispecie occorrono, quindi, due presupposti: che l'ammontare dell'imposta evasa ecceda la soglia di punibilità prevista dalla norma e che l'omissione abbia ad oggetto l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale regolarmente presentata. Rispetto al secondo requisito, tuttavia, la legge non richiede l'acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale o di alcuna prova legale, essendo sufficiente che il giudice raggiunga la certezza, al di là del ragionevole dubbio, in ordine alla sussistenza degli elementi necessari per l'integrazione della fattispecie, e ne dia conto con motivazione immune da vizi logici o giuridici (ex multis, Sez. 3, n. 38475 del 2019; Sez. 3, n. 38487 del 21/04/2016, Rv. 268012). Nella specie, conformemente ai principi giurisprudenziali appena richiamati, il giudice d'appello ha ritenuto provata l'avvenuta presentazione della dichiarazione Iva in ragione della denuncia presentata dalla Agenzia delle entrate, la quale ha tratto origine dalla valutazione, da parte del funzionario accertatore, della dichiarazione fiscale contenente la specifica indicazione dell'Iva da versare relativamente all'anno 2012; dichiarazione redatta da uno studio professionale a ciò incaricato dall'imputato. Ha altresì considerato il fatto che l'assenza della dichiarazione non aveva mai costituito oggetto di contestazione in primo grado, ma era stata prospettata, con considerazioni ritenute generiche e poco credibili, solo con l'atto d'appello. Dimostrata l'esistenza della dichiarazione, l'accertata evasione di un importo superiore alla soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice costituisce aspetto non controverso.
A fronte di tali considerazioni, va rilevato che la tesi articolata con il ricorso in cassazione non si presta a smentire le argomentazioni esplicitate dal giudice nel provvedimento impugnato, ma anzi prescinde del tutto dalle stesse, in quanto il ricorrente si limita a sostenere il presunto travisamento, da parte dell'amministrazione finanziaria, del contenuto della dichiarazione fiscale - che, secondo tale ricostruzione, aveva ad oggetto non l'omesso versamento dell'Iva ma di ritenute alla fonte ed emolumenti - con argomentazioni che, oltre a non essere suffragate da alcun riscontro, non hanno costituito oggetto dei motivi di gravame formulati con l'atto di appello e che, conseguentemente, non possono trovare ingresso per la prima volta nel giudizio di legittimità. L'ipotetica prospettazione difensiva alternativa si basa, del resto, sulla sostanziale confessione di un più grave reato, dal momento che l'omessa presentazione della dichiarazione da cui trae origine l'iva - sostenuta dal ricorrente - integrerebbe la violazione fiscale di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, il cui trattamento sanzionatorio è ben più aspro (reclusione da due a cinque anni) di quello previsto dall'art. 10-ter del medesimo decreto, per il quale l'imputato è stato condannato.
1.2. Inammissibile per genericità, oltre che per manifesta infondatezza, è anche il terzo motivo di ricorso, concernente l'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. L'esclusione di dette circostanze, infatti, risulta adeguatamente motivata dal giudice alla sola condizione che egli, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta al loro ottenimento, indichi plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, con la precisazione il diniego potrà essere legittimamente motivato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo (ex plurimis, Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv. 260610). La pronuncia impugnata, pertanto, appare ineccepibile anche sotto tale profilo, avendo sia il Tribunale sia la Corte d'appello congruamente giustificato l'omesso riconoscimento di dette circostanze, non solo in considerazione dell'assenza di elementi positivamente valutabili, ma anche in ragione dell'ingente entità dell'imposta evasa (oltre un milione di Euro), e dell'assenza di qualsivoglia forma di resipiscenza da parte dell'imputato, il quale, anche dopo la condanna in primo grado, non ha proceduto all'assolvimento dell'onere fiscale. Tali valutazioni, che comunque non vengono in alcun modo contestate dal ricorrente attraverso puntuali argomentazioni di segno contrario, attengono al merito e sono insindacabili da questa Corte ogniqualvolta siano sorrette - come nel caso di specie - da una motivazione adeguata che non presenti profili di illogicità.
2. Per tali motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020