Tribunale Nola, 20/05/2024, n.1113
In assenza di una specifica contestazione in diritto della forma aggravata di cui all'art. 612, comma 2, c.p., la gravità della minaccia non può essere desunta automaticamente dalle parole rivolte alla persona offesa. Deve pertanto applicarsi la forma semplice del reato di minaccia di cui al primo comma dell'art. 612 c.p., anche in presenza di minacce di morte, se non accompagnate da una chiara esposizione dell'aggravante nel capo d'imputazione.
Svolgimento del processo
Con decreto di citazione diretta del 14.04.2021, il P.M. sede ha esercitato l'azione penale nei confronti di CA.Cl. per il reato riportato nella contestazione che precede, disponendone la comparizione innanzi alla scrivente per l'udienza del 25.11.2021. All'udienza anzidetta, si dava atto che la notifica nei confronti dell'imputato era regolare, se ne dichiarava l'assenza e il processo era rinviato al 12.5.2022 per l'apertura del dibattimento e l'istruttoria.
In quella data, in assenza di questioni preliminari, la scrivente dichiarava l'apertura del dibattimento e le parti formulavano le rispettive richieste, ammessa con ordinanza; venivano escusso la p.o., Ve.Ad., e il teste di lista del P.M. Ap.An., poi si procedeva alla correzione del capo d'imputazione in merito alla data del commesso reato e il processo era rinviato al 17.11.2022 (poi differita con decreto fuori udienza al 21.11.2022 per le ragioni ivi analiticamente indicate, cui ci si riporta integralmente in questa sede) per il proseguo dell'istruttoria.
A seguito di una serie di rinvii, dovuti alla mancanza dell'ultima teste di lista del P.M. (o perché non correttamente citata, o perché, citata, non era presente senza alcun legittimo motivo, venendo sanzionata), all'udienza del 18.3.2024 veniva escussa la teste Pe.An., di cui con il consenso delle parti veniva acquisito il verbale di sommarie informazioni, con domande a precisazione, e il processo veniva rinviato al 20.5.2024 per la sola discussione.
All'udienza odierna veniva dichiarata la chiusura del dibattimento e l'utilizzabilità degli atti legittimamente acquisiti, le parti formulavano le rispettive conclusioni, sopra sintetizzate, e la scrivente si ritirava in camera di consiglio per la decisione, al cui esito ha pronunciato la presente sentenza, resa pubblica mediante lettura alle parti presenti, per le motivazioni che seguono.
Motivi della decisione
Ritiene questo organo che le risultanze probatorie comprovino pacificamente la penale responsabilità dell'imputato per il reato a lui contestato.
La persona offesa, Ve.Ad., riferiva in dibattimento che nel mese di aprile 2020 le erano arrivate alcune richieste di amicizia su Facebook da uno sconosciuto, che si presentava con il proprio profilo da cui si evincevano i dati, il nome, CA.Cl. appunto, e la foto, che lei non accettava; successivamente le inviava dei messaggi su Messanger, nei quali avanzava la richiesta della somma di euro 500,00, dietro minaccia di pubblicare delle sue foto osé se non l'avesse corrisposta; a fronte della sua risposta di rifiuto a questa forma di ricatto, motivata sul fatto che lui non era in possesso di alcuna sua foto, il CA. le diceva di esser bravo ad usare il computer e che pertanto avrebbe potuto tranquillamente modificare foto da pubblicare; come dimostrazione le inviava delle foto modificate in cui la rappresentava, con la sua effige ma con il corpo di un'altra persona, cosa di cui lei si avvedeva a causa della mancanza dei numerosi tatuaggi presenti in varie parti del suo corpo. La teste precisava di aver consegnato questi messaggi, di averli stampati e poi di averli consegnati ai Carabinieri di Acerra.
Successivamente l'uomo aveva creato un suo profilo falso e mandava inviti di amicizia ad amici e conoscenti comuni (con lo scopo di inviare successivamente foto alterate), spacciandosi per lei, nei quali diceva di aver cambiato il profilo, cosa di cui lei aveva contezza nel momento in cui i soggetti contattati la chiamavano per sincerarsi che il cambio profilo fosse autentico. Attraverso una sua amica, che chiedeva chi fosse a fare queste richieste, lei appurava che si trattava proprio del CA., poiché l'uomo si presentava inviandole una propria fotografia, dicendo di essere un conoscente della persona offesa, di aver prelevato le foto dal suo profilo e di voler mandare in giro quelle fotografie per ricattarla. Interrogata sul punto, la Ve. indicava tra le persone contattate con questa modalità la madre, la sorella e un'amica in particolare, An.Pe., (poi escussa). Queste persone successivamente bloccavano il contatto, a differenza del padre della persona offesa, che accettava l'amicizia - per veder cosa sarebbe successo - e al quale arrivavano puntualmente le foto incriminate. Questo evento accadeva anche con altri conoscenti i quali, non essendo a conoscenza della cosa e credendo nel fatto che la Ve. avesse davvero cambiato profilo, avevano accettato l'amicizia ed erano stati destinatari di foto compromettenti, cosa che alcuni di loro poi le riferivano.
Venendo al capo di imputazione, la teste dichiarava che il giorno 8 maggio 2020, essendosi recata al cimitero a far visita ad una sorella defunta, veniva avvicinata da un ragazzo che lei non conosceva di persona ma che riconosceva essere il CA. dalle foto del profilo, il quale peraltro si faceva riconoscere dicendole di essere la persona che la stava ricattando, facendo il proprio nome e cognome, minacciandola "che le avrebbe tagliato la testa e che l'avrebbe atterrata viva nel cimitero" (testuali parole, riferiva la teste), se avesse riferito a qualcuno della vicenda.
La teste proseguiva dicendo che a quel punto lei ed il marito si erano recati presso l'abitazione dell'uomo e avevano parlato con il padre; spiegava che erano arrivati ad identificarlo in quanto, riferendo ad un'amica che lavorava con lei in un cali center quello che le stava accadendo e facendo il nome dell'uomo che la ricattava, veniva a sapere che la stessa cosa stava accadendo anche ad altre ragazze conosciute dalla sua amica, la quale le consigliava di andare a parlare con il padre dell'uomo, unico in grado di poterlo fermare. Quando le richieste di denaro si erano intensificate, in quanto il ragazzo le diceva di aver bisogno del denaro per acquistare la droga di cui faceva uso, lei aveva iniziato ad avere paura ed aveva riferito tutto al marito, che fino a quel momento aveva tenuto all'oscuro della vicenda, ed insieme si erano recati dal padre dell'imputato.
Questi, che lei definiva una bravissima persona, molto educato e gentile, riferiva loro che già in precedenza aveva avuto altri problemi del genere con altre persone e che lui stava cercando di aiutare il figlio che, essendo drogato, era alla ricerca costante di denaro. Alla fine della conversazione, li aveva rassicurati che avrebbe agito sul figlio perché questi comportamenti cessassero. La teste aggiungeva che mentre stavano arrivando alla casa dei genitori (che avevano rintracciato attraverso amici e conoscenti), incrociavano proprio l'imputato, che appena li vedeva correva verso la Caserma dei carabinieri lì vicino, ma che in quel frangente non si faceva più vedere. Dopo qualche giorno, il 20 maggio, mentre si trovava in pausa caffè con l'amica An., intorno alle 11.30, il CA. passava in bicicletta vicino a loro e da lontano, con il pollice sulla gola, le faceva il gesto di tagliarle la testa, che le aveva fatto anche quando l'aveva incontrata al cimitero.
La teste, su domande della difesa, riferiva che dopo la prima minaccia al cimitero, anche il marito, che aveva accettato la richiesta di amicizia della moglie fatta dal falso profilo, non sapendo nulla di quanto le stava accadendo, riceveva delle foto spinte, frutto di fotomontaggio, di lei nuda e chiedeva spiegazioni all'interlocutore, il quale a quel punto si manifestava e gli diceva di avere una relazione con la donna; quando, però, il marito gli chiedeva di incontrarsi, lui gli bloccava l'accesso al profilo. Sempre sollecitata dalle domande, la teste riferiva che le persone che avevano ricevuto le foto ritoccate, in quanto - credendo che fosse lei - avevano accettato la richiesta di amicizia - oltre a quelle tre menzionate erano circa una decina (di cui però lei non aveva fatto i nomi in quanto non volevano essere coinvolte).
Concludeva dicendo che dopo la denuncia fatta al Commissariato di Acerra in data 21 maggio 2020 l'uomo non l'aveva più contattata con le sue richieste, anche se lei lo aveva rivisto casualmente un paio di volte.
Il teste Ap.An., marito della vittima, confermava quanto già riferito dalla moglie, dichiarando che intorno alla metà di maggio 2020 la moglie gli diceva che aveva ricevuto delle richieste di denaro con la minaccia della divulgazione di foto apparentemente proprie e di non avergliene parlato prima per il timore di una sua reazione. Successivamente anche lui, che aveva accettato una richiesta di amicizia da parte di un profilo che sembrava provenire dalla moglie, aveva ricevuto queste foto, accompagnate dalla frase "Vedi tua moglie cosa fa?" A seguito di ciò, volendo approfondire, prima tergiversava un pò cercando di capire se la notizia fosse vera, poi chiedeva alla moglie cosa fosse successo e lei gli spiegava di aver ricevuto queste richieste di denaro e queste minacce di divulgazione delle foto. Confermava l'incontro avuto con il padre dell'imputato, quando con la moglie si erano recati a casa sua e che dopo aver parlato con il padre - non specificava quanto tempo dopo -mentre si trovava in auto con la madre ed i bambini, incrociava l'imputato al Corso (…), il quale si avvicinava alla sua auto urlando e chiedendogli perché fosse andato a parlare con il padre. Allora lui decideva di tornare a casa dell'imputato con la moglie, dove trovava solo la madre, la quale li rassicurava che avrebbe parlato con il marito, e poi decideva di denunciare l'accaduto alla Polizia di Stato di Acerra, recandosi nel commissariato nel pomeriggio e dove incontrava la moglie, che era in compagnia di un'amica, la quale, a propria volta e senza avergli detto nulla in precedenza, riferiva che stava denunciando anche lei il CA. in quanto la mattina, al lavoro, era stata nuovamente minacciata da lui.
La teste Pe.An., amica della Ve., escussa in dibattimento confermava l'accaduto del 21 maggio. Ripercorreva tutto quanto già riferito da quest'ultima circa le modalità di contatto del CA., le richieste di denaro e la minaccia di pubblicare foto osé della donna su Facebook (cose che lei sapeva perché le erano state confidate dall'amica), il suo consiglio di bloccare tutti i contatti su facebook; con riguardo all'episodio del 20 maggio, la teste riferiva che mentre erano in pausa, intorno alle 11:30, vedeva passare una persona in bicicletta che, girandosi verso l'amica, profferiva nei suoi confronti una minaccia in dialetto napoletano ("Te tagl' a capa"), frase che lei riusciva a captare dal movimento delle labbra, e l'accompagnava con il gesto del pollice da un lato all'altro della gola. La sua amica, a quel punto, le diceva che quello era il ragazzo che la stava minacciando via social e le riferiva pure il nome, dicendole che si chiamava CA.Cl.
Confermava di aver ricevuto anche lei la richiesta di amicizia dal falso profilo e di aver visto delle foto osé della donna, che la stessa negava essere le proprie. Precisava che il CA., in precedenza, le aveva chiesti l'amicizia, che lei aveva rifiutato, e che dalle foto del profilo aveva riconosciuto la stessa persona che avevano incontrato il 20 maggio.
Così sintetizzati gli esiti dell'attività istruttoria, deve concludersi per la piena responsabilità del CA. per il reato a lui contestato, dovendosi tuttavia ritenere sussistente la forma semplice di cui al primo comma dell'art. 612 c.p., poiché nel capo di imputazione non è stata contestata la forma aggravata del secondo comma.
Con riguardo, infatti, alla contestazione in fatto delle circostanze aggravanti solamente descritte nel capo di imputazione e non espressamente contestate in diritto nel capo di imputazione, la giurisprudenza ha elaborato la distinzione tra circostanze oggettivamente ed immediatamente riconoscibili e circostanze di natura valutativa.
Con riguardo al delitto di minaccia, ritiene la giurisprudenza della Suprema Corte che "non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la fattispecie aggravata di cui all'art. 612, comma 2, c.p., qualora nell'imputatone non sia esposta la natura grave della minaccia, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma.
(Fattispecie relativa ad una minaccia di morte, in cui la Corte ha ritenuto che, in assenna di precisa indicazione nella contestatone dell'aggravante, che include componenti valutative, la gravità della minaccia non potesse essere desunta in via automatica dalle parole rivolte alla persona offesa - Cassazione penale, sez. V, sent. del 14/07/202, n. 25222). In assenza, dunque, nell'odierno capo di imputazione di una specifica contestazione, deve trovare applicazione la forma semplice di cui al primo comma della norma incriminatrice, in applicazione del predetto principio. Ciò posto, l'istruttoria dibattimentale fa ritenere pienamente provato l'assunto accusatorio, in quanto la persona offesa, che aveva denunciato l'accaduto occorsole il 20 maggio 2020, ha confermato integralmente le proprie precedenti dichiarazioni circa la minaccia ricevuta, non ostando alla genuinità del suo narrato e alla credibilità soggettiva della stessa che in alcuni passaggi abbia riferito gli eventi in maniera un pò confusa, cosa comprensibile alla luce della delicatezza della vicenda da lei vissuta e dal contorno da cui è stata accompagnata. Gli altri testi escussi, il marito in primis, hanno confermato tutte le dichiarazioni da lei rese, corroborando con il proprio narrato quello reso dalla Ve.; le piccole contraddizioni in cui lo stesso è incorso nella narrazione degli eventi non possono del pari inficiare la sua attendibilità, posto che attengono a profili marginali della vicenda per cui si procede ed in particolare alle modalità di gestione della stessa, che verosimilmente hanno creato imbarazzo e tensione tra i coniugi. Lo stesso dicasi per Pe.An., unica testimone diretta dei fatti per cui si procede oltre alla persona offesa, che ha ricostruito l'evento nei medesimi termini di quest'ultima.
Deve dunque ritenersi pienamente provata la penale responsabilità di CA.Cl. per il reato a lui contestato, nei termini sopra specificati.
Venendo al trattamento sanzionatorio ed esclusa, innanzitutto, la possibilità del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non ancorabili ad alcun elemento concreto emerso in dibattimento, tale non potendo essere la mera incensuratezza dell'imputato, si ritiene non possa trovare applicazione neppure la fattispecie di minore gravità di cui all'art. 131 bis c.p. considerando le modalità concrete della condotta, la particolare pervasività della stessa nella vita della persona offesa e la ripetizione delle richieste di denaro avanzate dal CA. alla Ve., accompagnate dalla pubblicazione sul suo falso profilo delle foto compromettenti, circostanza che ha generato sicuramente grave squilibrio nella persona offesa e nel suo nucleo familiare.
Alla luce di tali considerazioni, si stima equa la pena di euro 600,00 di multa, oltre al pagamento delle spese del processo.
Seguono le statuizioni relative alla parte civile costituita, la quale è stata danneggiata dal reato commesso a suo danno e che deve essere risarcita, dovendosi rimettere le parti dinanzi al giudice civile per la prova da praticarsi e per la compiuta determinazione dello stesso; quanto alle spese di giudizio, esse si liquidano in complessivi euro 1.200,00, oltre spese forfettarie e oneri di legge, attesa la non eccessiva complessità della trattazione. Rigetta la richiesta di una provvisionale, non essendo stata raggiunta alcuna prova sul punto. Le motivazioni sono contestuali.
P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535,
dichiara CA.Cl. colpevole del reato a lui ascritto e, per l'effetto, lo condanna alla pena di euro 600,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
Letti gli artt. 74 e ss. e 538 e 539 c.p.p., condanna CA.Cl. al risarcimento del danno subito dalla parte civile costituita, rimettendo le parti dinanzi al giudice civile, per la compiuta determinazione dello stesso;
rigetta la richiesta di una provvisionale;
condanna CA.Cl. alla refusione delle spese di giudizio sostenute dalla parte civile costituita, che si liquidano in complessivi euro 1.200,00 oltre rimborso forfettario del 15 per cento, IVA e CPA, se dovute, come per legge. Motivazioni contestuali.
Così deciso in Nola il 20 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2024.