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Condanna per sostituzione di persona e diffamazione aggravata online: dieci mesi di reclusione

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Tribunale Pescara, 12/02/2021, n.2246

Il Tribunale di Pescara ha condannato un uomo alla pena di dieci mesi di reclusione per i reati di sostituzione di persona (art. 494 c.p.) e diffamazione aggravata (art. 595, comma 3, c.p.) per aver creato falsi profili social della persona offesa, diffondendo immagini e contenuti lesivi della sua reputazione. L’imputato ha intrattenuto conversazioni online spacciandosi per la donna, pubblicando foto personali e altre manipolate per simulare situazioni compromettenti. La condotta, aggravata dall’utilizzo del web, è stata riconosciuta parte di un medesimo disegno criminoso. Concesse la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna. Risarcimento danni da quantificare in separato giudizio.

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La sentenza integrale

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con decreto in data 20.10.2016 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pescara ha citato a giudizio (...) per rispondere dei reati di cui al capi A) e B) indicati in epigrafe.

All'udienza del 18.12.2017, presente l'imputato e costituita parte civile (...), persona offesa dal reato, è stato dichiarato aperto il dibattimento e sono state ammesse le prove richieste dalle parti.

Il 12.11.2018, rinnovate le formalità di apertura del dibattimento atteso il mutamento della persona del giudice, è stata espletata parte dell'istruzione, consistita in acquisizioni documentali e nell'esame di quattro testimoni indicati nella lista del Pubblico Ministero all'esito del quale, alla successiva udienza del 18.3.2019, il Pubblico Ministero ha proceduto alla contestazione di due nuovi capi d'imputazione indicati con le lettere C) e D).

La parte civile ha esteso la costituzione ai due nuovi reati contestati in relazione ai quali, su sollecitazione del Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 507 c.p.p., è stato ammesso l'esame di due ulteriori testi.

La difesa ha chiesto termine a difesa.

Alla successiva udienza del 15.7.2019 si è proceduto all'esame dell'ulteriore teste (...).

L'istruttoria è proseguita all'udienza dell'11.11.2019 con l'esame dei testi (...) ed è stato disposto l'esame del teste (...).

Il 03.2.2020, esaminato l'ultimo testimone indicato, considerato che la contestazione suppletiva era avvenuta dopo l'esame dei primi testimoni, è stato disposto che venisse esaminato il teste (...) e ricitata la teste (...).

All'udienza del 09.11.2020, rivalutata la non indispensabilità della integrazione istruttoria disposta alla precedente udienza, il processo è stato rinviato per il legittimo impedimento dell'imputato.

Infine, all'udienza del 21.12.2020, esaurita la discussione, il Tribunale ha pronunciato sentenza come da dispositivo del quale è stata data immediata lettura in aula. L'istruzione ha offerto adeguato riscontro alla prospettazione accusatoria nei termini che si diranno.

La persona offesa dal reato, (...), che svolge la professione di giornalista televisiva oltre che di insegnante di scuola superiore, ha dichiarato di aver iniziato a ricevere delle e-mail private sul suo profilo Facebook, con contenuti volgari, alcune delle quali alludevano a conversazioni che la donna avrebbe intrattenuto precedentemente con degli utenti di Facebook su altri profili.

Successivamente, era stata contattata, per motivi di lavoro, da tale (...) e si erano incontrati per discutere di una proposta lavorativa. Questi, conosciuto appunto in quella circostanza, le aveva detto: "Ti ricordi di me?" presentandosi con un nickname. A fronte delle perplessità manifestate dalla (...), l'uomo le spiegava che si erano incontrati sul sito (...) e che si erano intrattenuti a conversare, o quanto meno, si era trattenuto con una persona che diceva di essere (...). L'interlocutore, a quel punto, le mostrava una delle foto compromettenti inviategli dalla presunta (...).

Così, la persona offesa era venuta a conoscenza della pubblicazione, sul profilo Facebook di uno sconosciuto, di sue foto reali (scaricate dal suo profilo facebook ufficiale) affiancate ad altre foto falsamente attribuitele. Infatti, successivamente il (...) le aveva inviato una foto sua nello studio televisivo e un'altra foto di una donna nuda, ritratta da dietro, con i capelli lunghi biondi, seduta.

La teste ha escluso che potesse essere lei non avendo mai scattato foto che la ritraessero nuda. Tuttavia la foto era ingannevole essendo, il corpo, ripreso alle spalle.

Le foto erano accompagnate con appellativi lesivi della reputazione della (...): "maialona, maialina, porcellina, porcona".

A quel punto la (...) aveva cercato di ricontattare gli utenti Facebook che l'avevano cercata per comprendere cosa fosse accaduto ed alcuni le avevano riferito che le conversazioni che avevano intrattenuto con la persona che si era finta lei erano a sfondo sessuale ma contenevano precisi riferimenti alla reale situazione di (...). La sedicente (...), diceva, infatti, di lavorare in televisione e riferiva particolari scabrosi di eventi verificatisi dietro le quinte della trasmissione televisiva che conduceva e che coinvolgevano anche colleghi, cosi creando una realtà completamente falsata.

Si parlava di orge all'interno dello studio televisivo e di rapporti sessuali che la donna avrebbe intrattenuto con gli ospiti della trasmissione.

Le conversazioni erano avvenute tramite il sito (...) ed erano state rese credibili dall'inserimento di particolari reali della vita della persona offesa: che aveva perso il padre poco tempo prima (infatti, il genitore della persona offesa era venuto a mancare un paio di anni prima) e che, per questo motivo, era molto scossa.

La persona offesa durante il suo esame ha chiarito che questi particolari erano noti all'imputato (...) che era stato suo compagno di scuola e che, quindi, aveva la possibilità di accedere ad informazioni personali della (...), anche tramite amici comuni. Con il (...), non aveva più avuto particolari contatti, salvo alle "rimpatriate" con i compagni di liceo ed al di là di una telefonata di un anno prima con cui l'uomo le aveva chiesto se poteva aiutare la sua compagna a trovare un lavoro. Insomma, tra loro c'era un rapporto cordiale sebbene non ci fosse una frequentazione abituale.

La sedicente (...) aveva riportato nelle conversazioni on-line notizie risalenti ai tempi della scuola, ossia che abitava in una villetta ai Colli di Pescara, cosa che non corrispondeva più a verità ma era vera ai tempi della scuola, e che aveva un fratello. Il tutto rendeva credibile la narrazione.

Anche il Sig. (...), amico su facebook della persona offesa, le aveva riferito di aver avuto con lei (o con qualcuno che si spacciava per lei) una conversazione su una chat e che questi profili a suo nome venivano aperti per poco tempo, poi venivano chiusi e ne venivano aperti altri con un nickname diverso, però sempre con le foto della donna. Quindi era difficilmente rintracciabile l'autore della condotta.

La persona offesa ha, ancora, riferito che, dopo la denuncia, quando ancora non sapeva chi fosse stato individuato dalla Polizia quale autore della diffamazione, (...) l'aveva contattata telefonicamente chiedendole di ritirare la denuncia. Solo allora (...) aveva appreso che il sospettato era il suo ex compagno di scuola. Il (...), quindi, in quella telefonata, aveva ammesso di essere stato lui ad aprire i falsi profili, giustificandosi col fatto che l'intento era quello di proteggerla da altri falsi profili che erano stati aperti a suo nome, voleva combattere gli impostori "con le stesse armi".

(...) ha, poi, riferito che, dopo circa due anni dalla denuncia, nel 2016, un altro utente l'aveva contattata su Facebook, sempre con le stesse modalità, dicendole che la voleva nuovamente incontrare sul sito, a quel punto, aveva immaginato che fosse successo nuovamente qualcosa di simile. L'uomo, allora, le aveva ribadito che avevano avuto una conversazione sul sito "(...)", qualche sera prima. A quel punto la (...) aveva presentato una seconda denuncia alla Polizia Postale.

All'esito di queste ulteriori indicazioni il Pubblico Ministero ha contestato i capi di imputazione C) e D).

È stato, altresì, ascoltato il Sig. (...) che ha confermato quanto riferito dalla persona offesa in ordine alle modalità con cui questa era stata resa edotta che qualcuno intratteneva conversazioni sulla chat (...) fingendosi (...). Ha riferito, in particolare di aver intrattenuto delle conversazioni con un utente che si era presentato con un nickname fittizio che, successivamente, aveva detto di essere (...). All'inizio la conversazione aveva avuto un tenore normale, poi l'interlocutrice gli aveva detto che gli avrebbe consentito l'accesso alla sua area personale, dove c'erano delle foto, raccomandandogli, però, riservatezza e rivelandogli di essere una persona famosa.

In una foto era ritratta una donna nuda, ma di spalle, un'altra foto ritraeva la vera (...) in una trasmissione televisiva. Dopo l'apertura dell'area privata del profilo la conversazione era continuata con toni abbastanza spinti ed inviti a vedersi in un motel, dunque, una conversazione dal contenuto sessuale in cui la falsa (...) parlava anche di atti erotici praticati sul luogo di lavoro con calciatori ed anche con altri ospiti e direttori di rete.

11 teste ha, infine, confermato che, a rendere più credibile quanto si diceva nelle due-tre conversazioni avute era stata la circostanza che in esse si faceva riferimento ad episodi della vita lavorativa della signora (...).

Il teste (...) ha riferito di aver intrattenuto delle conversazioni su un sito denominato (...), una chat di incontri per persone sole, con un utente che diceva di essere la signora (...) ma sul nick (sul profilo) non vi era una foto.

Dopo essere entrati in confidenza, la sedicente (...) gli aveva fatto vedere delle fotografie che ritraevano parti del corpo di una donna nuda, ma mai il viso. Le conversazioni erano andate avanti per un mese circa.

Il teste ha ricordato alcune delle espressioni usate nelle conversazioni: "ti faccio vedere le mie poppe, le mie belle poppe" espressioni accompagnate da una foto in cui si vedeva solo il seno.

E ancora, "stamattina che dici, che mi metto? C'ho da fare, mi metto minigonna e tacco a spillo, li faccio morire tutti? oppure "sai, questo lavoro che facciamo è uno schifo perché se non la dai a qualcuno non vai avanti"; "Se non fai le rovesciate non vai avanti"; "oggi mi sento tanto zoccola, stasera esco e voglio fare una strage. Mi metto..."; "ieri sera io e una mia amica abbiamo fatto cose da pazze, ci siamo fatti due negroni", nel senso che avevano avuto rapporti sessuali con due ragazzi di colore. Dunque, nelle conversazioni c'erano riferimenti specifici al lavoro di giornalista.

Ancora diceva di avere una particolare confidenza con l'allora allenatore del Pescara, (...), che organizzava dei "festini" dove lei era presente con altri colleghi.

Il teste ha, infine, riferito della reazione di sorpresa manifestata da (...) quando l'aveva contattata sulla chat di una trasmissione televisiva, la donna, incredula, si era fatta raccontare quanto accaduto.

Il teste ha risposto negativamente alla domanda della difesa se avesse sospettato che l'interlocutrice fosse, in realtà, un uomo e che potesse non essere realmente (...) visto che non la conosceva personalmente, ma solo come personaggio pubblico.

(...) ha riferito di aver visionato delle immagini che riguardano la signora (...) sul network (...) durante la sua attività di investigatore privato, svolta per conto di un cliente che pensava che la moglie conversasse su quel network. Si era, cosi, imbattuto nel profilo della signora (...). Contattato il profilo, avevano iniziato una conversazione "piccante" in cui si faceva riferimento ad orge. Dopo diverse conversazioni aveva proposto un incontro alla sedicente (...) che aveva accettato. A quel punto aveva avvertito la vera (...) per spiegarle cosa stava accadendo e lei era rimasta allibita e gli aveva detto che aveva già sporto denuncia per questi fatti.

Quanto all'attività d'indagine, l'Assistente Capo Coordinatore (...), in servizio presso la Polizia Postale di Pescara ha riferito che le indagini erano partite dall'esame della documentazione prodotta con la querela, documentazione riguardante conversazioni con gli utenti (...), conversazioni a sfondo sessuale. Altri utenti, come (...) e (...), avevano riferito di aver conversato, sul sito (...), con qualcuno che, di volta in volta, utilizzava diversi nickname come "(...)", "(...)", "(...)". La Polizia Postale aveva, poi, monitorato la rete internet per cercare detti profili, oggetto di indagine, in particolare sul sito (...) senza, però, riuscire a riscontrare nessuno dei nickname che erano stati segnalati. Quindi avevano fatto una richiesta alla società (...) per ottenere la documentazione delle chat e delle conversazioni, ma con esito negativo posto che la società aveva riferito di non conservare nei suoi archivi le conversazioni, né aveva potuto fornire le fotografie, poiché una volta cancellate dall'utente non erano recuperabili. Aveva, però, confermato la presenza di utenti che avevano utilizzato i nickname "(...)", "(...)", "(...)" (scritto con tre s) e "(...)", tutti chiusi entro marzo 2014. Gli unici file di log forniti erano quelli degli accessi fatti dagli utenti "(...)" e "(...)" e su questi la polizia aveva lavorato.

L'accertamento condotto attraverso i database aveva evidenziato che tutti i nickname citati erano legati ad IP appartenenti al gestore telefonico (...). La documentazione acquisita presso la Telecom evidenziava che gli IP erano abbinati ad un'unica utenza fissa: (...), intestata al signor (...), nato a Pescara il (...), residente in Via (...).

Quindi, il 4 settembre 2014 era stata effettuata una perquisizione presso l'abitazione di (...) che aveva consentito di rinvenire pendrive, PC portatili, DVD e il router Alice dal quale risultava, appunto, l'utenza (...).

Negli uffici della Polizia Postale, alla presenza del (...) e della compagna di questi, Sig.ra (...), veniva fatta un'anteprima dei supporti informatici trovati che consentiva di riscontrare nell'hard disk di un portatile in uso al signor (...) una serie di cartelle con nominativi di donne e tra queste una cartella denominata (...). All'interno di questa cartella vi erano numerosi files con immagini riproducenti la signora (...). All'interno di questa cartella, c'era una sottocartella denominata "(...)" con delle immagini, oltre che della signora (...), di corpi femminili nudi ed anche di parti di donne nude delle quali non si vedeva il volto (di schiena o il seno o altre parti del corpo nude). Questo hard disk veniva, quindi, sottoposto a sequestro. Un'analisi più approfondita dell'hard disk consentiva di riscontrare, nella sezione foto, alcune immagini, visivamente analoghe a quelle pubblicate sul sito (...) e da una comparazione del nome del file, ovvero dell'ID, identificativo del file di Facebook, si riscontrava che corrispondeva al nome del file trovato sul PC del (...). Diversamente per le impronte hash del file, ovvero l'impronta digitale del file, che identifica univocamente quel file, perché non erano risultate uguali, salvo che per una. Tuttavia, la teste Trave ha chiarito che questo può accadere perché se si usano dei programmi per scaricare le immagini questi potrebbero modificare il file, quindi l'impronta potrebbe cambiare completamente.

Dunque, la presenza nella cartella trovata nell'hard disk del PC in uso al (...) di files aventi la stessa identificazione di quelli pubblicati su Facebook (infatti in Facebook non esiste un ID uguale a un altro, si tratta di ID univoci) attesta l'identità tra i files rinvenuti nel PC del (...) e quelli pubblicati su facebook.

A domanda della difesa, la teste (...) ha chiarito che, pur non potendosi escludere in assoluto che in internet circolassero altri profili falsi di (...), tuttavia, tutti i profili legati ai nick name "(...)", "(...)" e "(...)" erano certamente falsi profili riconducibili al (...).

Anche l'Ispettore Capo della Polizia di Stato (...), in servizio al Compartimento Polizia Postale di Pescara, ha ribadito che la riconducibilità dell'indirizzo IP collegato ai dati comunicati da (...) alla linea telefonica fissa di casa del (...), unitamente ai file rinvenuti sul computer in uso allo stesso, consente di individuare con certezza nell'odierno imputato l'artefice delle pubblicazioni sui profili falsamente attribuiti a (...). Peraltro, la disponibilità del computer sequestrato da parte del (...) è stata accertata attraverso la presenza di dati utente che riconducevano proprio alla persona del (...).

L'Assistente Capo Coordinatore della Polizia Postale di Pescara (...), ha riferito che nel gennaio del 2016, la Sig.ra (...) aveva detto di essere stata contattata, tramite un profilo Facebook, da un utente di nome (...) che diceva di aver intrattenuto con lei delle conversazioni sulla chat "(...)", con il nickname (...).

Contattato il gestore della chat (...), avevano ottenuto tutte le connessioni di questo nickname dalle quali era risultato un indirizzo IP gestito dalla (...). La (...) aveva, quindi, fornito la corrispondenza fra l'IP e l'utente, ossia l'intestatario della linea telefonica, che risultava essere (...). Quindi avevano, subito collegato il nuovo episodio a quello verificatosi circa due anni prima.

Il teste ha, altresì, confermato che nel corso della perquisizione domiciliare effettuata nel 2014 presso l'abitazione del (...), quando era stato aperto il computer, alla presenza dell'imputato e della sua compagna, era stata trovata una cartella denominata "(...)" ed all'interno vi erano sia foto che ritraevano la persona offesa in situazioni ordinarie, dunque vestita, sia foto di donne nude delle quali non si vedeva il volto o singole parti anatomiche intime.

Il teste (...), Sovrintendente della Polizia di Stato in servizio alla Questura di Pescara, ha esposto il risultato dell'indagine tecnica da lui personalmente svolta sul computer sequestrato in casa del (...).

All'interno dell'hard disk sottoposto a sequestro a seguito di perquisizione era stata rinvenuta una cartella denominata "(...)", all'interno della stessa c'erano delle foto della vittima e alcune di corpi di donne nude ritratte in modo che non si vedesse il volto. Immagini di corpi ritratti dal collo in giù come se, in un secondo momento, si volesse applicare al di sopra il volto di un'altra persona.

Il teste ha, altresì, riferito di aver acquisito delle foto dal profilo Facebook della signora (...) al fine di confrontarle con quelle contenute nella cartella rinvenuta nel computer del (...). Ed il confronto aveva dato esito positivo.

Così ripercorso lo sviluppo dell'attività istruttoria svolta, va ora affrontato lo specifico profilo della responsabilità dell'imputato.

Quanto alle ipotesi di reato di cui al capi A) e B) nessun dubbio sussiste sul fatto che l'autore delle conversazioni fosse proprio (...) per le seguenti considerazioni che emergono dalle deposizioni dei testi (...) e (...):

tutti i nickname utilizzati sulle chat di incontri erano legati ad IP appartenenti al gestore telefonico (...) e la documentazione acquisita presso la (...) evidenziava che gli IP erano abbinati all'utenza fissa (...), intestata al signor (...); nell'hard disk del portatile in uso al signor (...) sono state rinvenute cartelle con nominativi di donne e tra queste una cartella denominata (...). All'interno di questa cartella vi erano numerosi file con immagini riproducenti la signora (...) e all'interno di questa cartella, vi era, altresì, una sottocartella denominata "chat" con delle immagini, oltre che della signora (...), di corpi femminili nudi e di parti anatomiche intime di donne nude delle quali non si vedeva il volto (di schiena o il seno o altre parti del corpo nude);

una successiva più approfondita analisi di questo hard disk consentiva di riscontrare, nella sezione foto, alcune immagini, visivamente analoghe a quelle pubblicate sul sito (...) e da una comparazione del nome del file, ovvero dell'ID, identificativo del file di Facebook, si era riscontrato che corrispondeva al nome del file trovato sul PC del (...);

che il computer sottoposto a sequestro fosse in uso al (...) è dimostrato dal fatto che esso conteneva dati utente che riconducevano proprio alla persona del (...). Inoltre la persona offesa ha una conoscenza personale di vecchia data con il (...), che conosceva particolari della storia personale e familiare della (...) e colloquiando con la persona offesa, ha ammesso di aver aperto dei falsi profili a suo nome, pur essendosi giustificato, in maniera poco credibile, di averlo fatto solo per proteggerla dalla creazione di altri profili falsi.

Il (...) disponeva, dunque, di informazioni personali conosciute solo da persone che avevano avuto una conoscenza diretta della persona offesa e non tramite il canale televisivo in special modo quelle informazioni che risalivano all'adolescenza della Sig.ra (...) (come ad esempio il luogo ove la stessa abitava da ragazza).

A fronte della poco plausibile giustificazione fornita dal (...), vi è però, che attuando la sostituzione di persona e aprendo falsi profili di (...), l'imputato ha intrattenuto con diversi utenti conversazioni di contenuto diffamatorio nelle quali, fingendosi appunto (...), si intratteneva in discorsi a sfondo sessuale di contenuto idoneo a ledere la reputazione della persona offesa.

Peraltro, come riferito dai diversi utenti ascoltati, proprio la circostanza che le conversazioni intrattenute con la sedicente (...) contenessero riferimenti precisi ed esatti alla vita privata e lavorativa della donna ha reso credibili gli ulteriori falsi contenuti idonei a ledere la reputazione della Signora (...).

Dunque, la condotta posta in essere dal (...), di cui ai capi A) e B), integra i reati di cui agli artt. 494 e 595 c.p.

Il (...), infatti, comunicando con più persone, ha diffuso frasi offensive della reputazione di (...).

Il reato è aggravato ai sensi del comma terzo dell'art. 595 c.p., posto che l'offesa alla reputazione è stata consumata con un mezzo di pubblicità (cfr. Cass. 24431/15: "La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone").

Con il suddetto reato concorre quello di cui all'art. 494 c.p. in quanto, nelle conversazioni intrattenute sulle chat il (...) si è attribuito un'identità differente rispetto a quella sua propria.

Va infatti, rilevato che - sulla scorta della più consolidata giurisprudenza di legittimità - "integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) la condotta di colui che crea ed utilizza un "profilo" su social network, utilizzando abusivamente l'immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un "nickname" di fantasia ed a caratteristiche personali negative" (cfr. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 25 774 del 23/04/2014); ed ancora "integra il reato di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.), la condotta di colui che crei ed utilizzi un "account" di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete 'internet' nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese, subdolamente incluso in una corrispondenza idonea a lederne l'immagine e la dignità (nella specie a seguito dell'iniziativa dell'imputato, la persona offesa si ritrovò a ricevere telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale)" (cfr. Cass. Sez. 5. Sentenza n. 46674 del 08/11/2007).

E chiara, peraltro, la sussistenza dell'elemento soggettivo (dolo specifico) del reato de quo atteso che intrattenendo conversazioni a sfondo erotico e postando foto riproducenti parti di corpo femminile nude, l'imputato ha agito all'evidente scopo di danneggiare l'immagine e la dignità di (...), ciò nella piena consapevolezza del ruolo pubblico rivestito dalla persona offesa, come dimostrano i riferimenti, contenuti nelle conversazioni, al lavoro di giornalista televisiva della dorma. Dimostrando, altresì, di aver voluto colpirla proprio in relazione alla sua reputazione professionale.

Non ad analoga conclusione può pervenirsi, invece, in relazione ai capi C) e D) posto che runico elemento di collegamento emerso tra i nuovi falsi profili di (...) aperti nel 2016 e l'imputato è rappresentato da quanto riferito dall'Assistente Capo Coordinatore della Polizia Postale di Pescara (...) il quale ha chiarito che l'unica attività d'indagine svolta in proposito agli ulteriori fatti di reato è consistita nell'acquisizione, dal gestore della chat (...), delle connessioni del falso profilo dalle quali era risultato un indirizzo IP gestito dalla (...) ancora una volta riconducibile ad una linea telefonica intestata a (...). Tuttavia, nessun riscontro è stato operato su supporti informatici nella disponibilità del (...) diversamente da quanto era accaduto, invece, in relazione ai fatti di reato di cui ai capi A) e B).

Dunque, non si può dire raggiunta la prova certa che le ulteriori condotte di reato perpetrate nel 2016 siano riconducibili anch'esse al (...) anche perché le immagini fotografiche compromettenti erano circolate sul web fin dal 2014.

In ogni caso, sebbene questi ulteriori episodi delittuosi non possano essere attribuiti alla responsabilità del (...), quanto meno dimostrano la valenza lesiva delle condotte illecite sicuramente poste in essere dall'imputato nel 2014 in quanto se le nuove condotte non sono a lui attribuibili (con certezza) vorrà dire che qualcun altro ha recuperato quelle stesse immagini sul web e le ha riproposte su un sito d'incontri con ciò realizzando quella grave valenza lesiva che è propria della diffamazione on line proprio per via della capacità diffusiva del mezzo utilizzato per diffamare.

I fatti di cui ai capi A) e B), considerata l'indole, appaiono evidentemente accomunati dal perseguimento di un medesimo disegno criminoso.

Deve quindi trovare applicazione la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 81 cpv. c.p.. Quindi, tenuto conto dei parametri di cui all'art. 133 c.p.p., ritenuto che non ricorrano condizioni per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto del numero delle conversazioni poste in essere e del loro specifico contenuto, nonché della valenza offensiva della condotta come sopra evidenziata, pena equa risulta essere quella di mesi dieci di reclusione (ritenuto più grave il reato di cui all'art. 595 comma 3° c.p., pena base mesi nove di reclusione, aumentata per la continuazione con il reato di cui al capo B) di imputazione a mesi dieci di reclusione).

Attesa l'incensuratezza dell'imputato e potendosi formulare una prognosi positiva sulla possibilità di escludere la futura reiterazione di reati, sussistono i presupposti per il riconoscimento della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

L'imputato va infine condannato al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell'art. 635 c.p., ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile, (...), da liquidarsi in separato giudizio, non essendo emersi dall'istruzione elementi per la quantificazione del danno all'immagine della persona offesa nemmeno in via equitativa come da questa richiesto.

Non si procede al riconoscimento di una provvisionale in difetto di relativa istanza, né, conseguentemente la sospensione condizionale della pena potrà essere subordinata al risarcimento, come richiesto dalla parte civile.

Ai sensi dell'art. 541 c.p.p. l'imputato va condannato alla rifusione delle spese processuali in favore della medesima parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Visto l'art. 530 comma II c.p.p., assolve (...) dai reati di cui ai capi C) e D) dell'imputazione per non aver commesso il fatto.

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara (...) colpevole dei reati ascrittigli ai capi A) e B) dell'imputazione, unificati dal vincolo della continuazione, e lo condanna alla pena di mesi dieci di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali.

Concede all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Condanna (...) al risarcimento del danno in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio ed alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla medesima parte civile, liquidate in Euro 3.420,00 oltre accessori come per legge e rimb. forf. nella misura del 15%.

Termine fino al 21.02.2021 per il deposito della motivazione della sentenza.

Così deciso in Pescara, il 21 dicembre 2020.

Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2021.

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