RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, il tribunale di Lecco, in composizione monocratica, assolveva l'imputato dal reato di appropriazione indebita aggravata della somma di novemila Euro, bonificata per errore sul conto corrente a lui intestato e mai più restituita, nonostante la esplicita richiesta del disponente, perché il fatto non sussiste, difettando di tipicità.
1.1. In particolare, la motivazione della sentenza impugnata ha ritenuto che difettasse raltruità" della cosa (denaro oggetto di bonifico bancario) oggetto di appropriazione, atteso che la somma ricevuta dall'imputato in conto corrente, in corrispettivo della prestazione svolta, ancorché non dovuta in quella misura (per mero errore di battitura era stata bonificata sul conto corrente dell'imputato la somma di Euro diecimila, in luogo di Euro mille), si era comunque già confusa nel patrimonio dell'accipiens, tenuto quindi esclusivamente alla restituzione dell'indebito ricevuto per errore.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per saltum il pubblico ministero di primo grado, deducendo a motivo della impugnazione la violazione della legge sostanziale incriminatrice (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, in relazione all'art. 646 c.p.):
2.1. Non difetta, ad avviso della parte pubblica impugnante, la condotta appropriativa del denaro altrui -ricevuto in conto corrente per mero errore del disponente nella compilazione del modulo bancario-, perché il denaro oggetto di erronea disposizione è stato trattenuto sine titulo dall'accipiens, per la perfetta autonomia e separabilità della somma ricevuta in pagamento della prestazione (Euro mille) e quella ricevuta per errore (Euro novemila). L'agente avrebbe quindi manifestato in maniera inequivoca la volontà di appropriarsi, con corrispondente profitto, l'altrui denaro, di cui aveva un possesso assai precario.
Il ricorrente richiama in proposito i principi espressi da questa Corte con la sentenza resa a Sezioni unite n. 37954, del 25/5/2011.
3. Il Procuratore generale ed il difensore hanno concluso in udienza per il rigetto del ricorso, non potendo configurarsi alcun vincolo di destinazione sulla somma bonificata per errore dal disponente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ritiene la Corte che, quanto a sussistenza ontologica del fatto appropriativo e salvo quanto più innanzi si dirà in tema di qualificazione giuridica, le ragioni della impugnazione trovino corrispondenza nel tipo delineato dal legislatore all'art. 646 c.p..
1.1. Ciò che infatti rileva nei reati di appropriazione (quella comune e quelle c.d. minori), quale elemento negativo del fatto, è che con il titolo idoneo al trasferimento del possesso non siasi anche trasferita la proprietà della cosa, giacché in questo caso (ed è su questo punto che la sentenza di impugnata merita censura) non potrà sussistere appropriazione indebita di alcuna specie, difettando l'altruità della cosa.
Nella concreta fattispecie, ancorché il titolo (bonifico bancario, quale ordine impartito al proprio cassiere di trasferire il credito vantato presso l'istituto al terzo, in pagamento della prestazione da quest'ultimo ricevuta) fosse astrattamente idoneo a trasferire -anche- la proprietà della somma di denaro bonificata per errore, l'atto di disposizione non ne trasferì di certo la proprietà, per evidente difetto della volontà del disponente ed assenza della causa. Ne' può ritenersi, con il giudice di primo grado, che il trasferimento della somma bonificata avesse determinato accrescimento, per confusione, del patrimonio dell'accipiens, che peraltro versava in evidente mala fede. La giurisprudenza di questa stessa sezione (n. 26774 del 09/04/2010, Rv. 247955; n. 8633, del 16 aprile 1985, Fugaroli; n. 11628, del 3 marzo 1989, Barbuto; n. 12965 del 14/02/2003, Rv. 224906) è storicizzata nel ritenere, infatti, che non assume rilievo, nella fattispecie, la disciplina civilistica in tema di pretesa confusione di "res" fungibili. I due segmenti patrimoniali restano dunque separati, operando l'obbligo di restituzione dell'indebito rispetto alla somma ricevuta per errore, senza volontà del disponente e senza titolo alcuno.
1.2. Il fatto, quale tipo appropriativo, sussiste.
1.2.1. Occorre tuttavia affrontare ex officio (ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 2) il tema della corretta qualificazione giuridica di tale fatto appropriativo, soprattutto ove dalla corretta qualificazione giuridica del fatto derivi la causa di immediato proscioglimento (Sez. 3, n. 394, del 25/9/2018; Sez. 2, n. 17235, del 17/1/2018, Rv. 272651); lo impone il chiaro disposto normativo dell'art. 129 c.p.p.: "In ogni stato e grado del processo, il giudice il quale riconosce che il fatto... non è previsto dalla legge come reato..., lo dichiara di ufficio con sentenza.".
1.2.2. Ad avviso del Collegio la condotta contestata -consumata il 27 maggio 2015, nel pieno vigore sanzionatorio dell'art. 647 c.p., comma 1, n. 3, - deve vestire i panni dell'appropriazione di "... cose, delle quali (l'agente, n.d.r.) sia venuto in possesso per errore altrui..." (art. 647 c.p., comma 1, n. 3, oggi depenalizzato per effetto del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lett. e), ancorché il tenore letterale della norma riferisca di "cose" e non pure di denaro, come invece accade per l'art. 646, art. 647, comma 1 n. 1 e per la corrispondente ipotesi di peculato "minore" prevista, per il p.u., dall'art. 316 c.p..
Il testo della speciale incriminazione, salvo insignificanti variazioni lessicali, corrisponde a quello che si leggeva all'art. 420, prima parte, n. 3 e cpv., del codice Zanardelli. Ai fini del perfezionamento della fattispecie è dunque necessario che l'agente possieda, al momento del fatto, la cosa altrui; ciò che distingue il delitto in questione dal furto è infatti il possesso lecito della cosa, ricevuta in forza di un titolo astrattamente idoneo al suo trasferimento, mentre il furto presuppone l'impossessamento volontario mediante sottrazione al detentore.
Il possesso, avuto ancora riguardo all'appropriazione "minore", deve avere ad oggetto "cose"; ma ben s'intende che l'appropriazione deve riguardare "denaro" o altre "cose mobili". Così si esprime unanimemente la dottrina che si è confrontata in forma sistematica con la formulazione dell'articolato, attribuendo significato omnicomprensivo al termine generico "cose"; valorizzando una accezione di "cosa" quale entità materiale individuata e suscettiva di detenzione, avente un qualsiasi valore, che la caratterizzi come bene patrimoniale.
Sulla specifica questione interpretativa si è pronunciata, in tempi non recenti, ma neppure remoti, questa Corte (Sez. 2 n. 6951 del 22/1/2001, dep. 20/2/2001, Ravanesi, n. m.), affermando il principio di diritto così sintetizzato dai redattori delle riviste di settore: Il reato di appropriazione di "cose" avute per errore o per caso fortuito (art. 647 c.p., comma 1, n. 3) è configurabile anche con riguardo all'appropriazione di denaro, conformemente a quanto previsto dall'art. 646 c.p., rispetto al quale la norma in esame si pone in rapporto di specialità, a nulla rilevando che l'appropriazione del denaro sia invece espressamente prevista nel n. 1 del medesimo art. 647 c.p.. Si legge in motivazione che la generica espressione "cose" usata dal legislatore all'art. 647 c.p., n. 3 è suscettibile di avvincere alla tipicità descrittiva della fattispecie anche il denaro, che è specie del genere cose. Tale esegesi fonda peraltro anche sulla obiettiva difficoltà (non superata in dottrina, tantomeno in giurisprudenza) di individuare una ratio, per così dire ellittica, nella esclusione del denaro dal novero delle "cose" suscettibili di appropriazione indebita (c.d. minore) determinata da errore.
Il possesso deve esser quindi frutto dell'errore (spontaneo e non certo indotto, ravvisandosi altrimenti truffa) altrui, che può cadere sulla cosa (una cosa per un'altra, diversa per qualità o per maggiore quantità di quella dovuta: negli specifici termini si esprimeva, in epoca davvero remota, Cass. 10 gennaio 1906, in Riv. Pen. LXIV, 689) o sulla persona dell'accipiens.
1.2.3. Sulla scorta di quanto già affermato da questa Corte con la non recente richiamata sentenza, non massimata, occorre dunque ribadire il seguente principio di diritto: Il reato di appropriazione di "cose" ricevute per errore o per caso fortuito (art. 647 c.p., comma 1, n. 3, oggi depenalizzato) è configurabile anche con riguardo all'appropriazione di denaro, conformemente a quanto previsto dall'art. 646 c.p., disposizione rispetto alla quale la norma in esame, oggi depenalizzata, si pone in rapporto di specialità, senza che alcun rilievo assuma la circostanza che l'appropriazione del "denaro" sia invece espressamente prevista nel n. 1 del medesimo art. 647 e nel testo dell'art. 316 c.p..
Senza alcuna pretesa dogmatica, ma volendo semplicemente distinguere con una didascalia, le diverse ipotesi prospettabili, si può affermare che:
a) se il disponente vuole trasferire ad altri quanto dovuto, ma con un preciso vincolo di destinazione (es. più ricorrente quota condominiale) e l'accipiens invece trattiene presso di sé quanto ricevuto, disponendone a piacimento e così tradendo il vincolo imposto sulla cosa, il tipo "appropriazione" resta integrato;
b) se invece il disponente vuole dare quanto astrattamente dovuto, ma senza un preciso vincolo di destinazione ulteriore sulla cosa (es. somma versata quale anticipo sul prezzo della vendita in occasione della stipula di un contratto preliminare), il fatto tipico non sussiste, per difetto di altruità della cosa fungibile trasferita; residua solo l'obbligo civilistico di restituzione;
c) se infine il disponente, ancorché il titolo sia astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, non vuole dare quel che in effetti non è dovuto, ma trasferisce ugualmente per mero errore sulla cosa (qualità o quantità) o sulla persona dell'accipiens; in questo caso è vero che manca il vincolo di destinazione sulla cosa trasferita, ma solo perché a monte difettano la volontà/fra causa del trasferimento. Il fatto tipico appropriativo resta integrato, giacché l'accipiens trattiene sine titulo e contro l'intima volontà del disponente, ma va qualificato ai sensi dell'art. 647 c.p., comma 1, n. 3, perché il trasferimento di ricchezza è avvenuto per errore del disponente.
1.2.4. Sussiste pertanto nella presente fattispecie l'elemento specializzante atto a qualificare il fatto (sussistente) ai sensi dell'art. 647 c.p., comma 1, n. 3, reato oggi depenalizzato per effetto del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, comma 1, lett. e.
2. Cosi diversamente qualificato il fatto contestato, non resta che prendere atto della intervenuta depenalizzazione, rigettando conseguentemente il ricorso del pubblico ministero, giacché il fatto, diversamente qualificato ai sensi dell'art. 647 c.p., comma 1, n. 3, non è previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2021