RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Avverso la sentenza n. 5940 emessa in data 31.10.2019, con la quale il Giudice Monocratico del Tribunale di S. M. Capua Vetere aveva riconosciuto Ro.Pa. colpevole del reato di cui in epigrafe e la aveva condannata, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi 2 di reclusione ed Euro 200,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, con condanna al pagamento delle spese sostenute per la costituzione e difesa della parte civile stessa, che quantifica in Euro 1.500,00 oltre IVA e CPA; concesso il beneficio della pena sospesa subordinata alla restituzione, entro il termine di 3 mesi a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza, dei beni di cui si era indebitamente appropriata; la Difesa ha proposto appello, chiedendo:
in via principale, assoluzione ai sensi dell'art. 530 co. 1 c.p.p. per non aver commesso il fatto o quantomeno ai sensi dell'art. 530 co. 2 c.p.p. per essere la prova insufficiente o contraddittoria, in quanto fondata "essenzialmente sulla deposizione testimoniale assunta, nel corso del dibattimento, dalla persona offesa dal reato in contestazione";
in via subordinata, esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., in quanto le modalità della condotta e l'esiguità del danno, unitamente alla non abitualità del comportamento, consentono di applicare il suddetto istituto;
in via ulteriormente subordinata, riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, minimo della pena e rimodulazione del trattamento sanzionatorio per adeguarlo alla reale offensività del fatto. All'odierna udienza, assente l'appellante, presente la parte civile costituita in primo grado, dopo la relazione di rito, il P.G., la difesa dell'imputata e la difesa della parte civile concludevano come da verbale; la Corte si ritirava in camera di consiglio e decideva come da dispositivo. L'esame delle risultanze processuali consente di affermare che l'attività illecita ascritta all'odierna appellante si sia consumata in epoca prossima o anteriore al luglio 2014; considerato che in primo grado non si sono verificate cause di sospensione del termine di prescrizione, deve ritenersi che al giorno 01.01.2022 sia maturato il termine massimo di prescrizione, pari ad anni 7 e mesi 6, come desunto dal combinato disposto di cui agli artt. 157 e 161 c.p.p.
In virtù di tanto, non emergendo dagli atti elementi tali da consentire l'adozione di alcune delle formule di assoluzione previste dal capoverso dell'art. 129 c.p.p., questa Corte dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputata per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.
Va osservato sul punto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che: "Allorché il giudice rilevi il maturarsi dei termini di prescrizione deve soprassedere rispetto al giudizio di merito ed è obbligato a dichiarare l'estinzione del reato; la previsione di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p., deroga agli effetti potenzialmente pregiudizievoli derivanti dalla declaratoria di improcedibilità quando dagli atti risulti evidente l'innocenza dell'imputato. La nozione di "evidenza "imporrebbe per sua natura la radicale mancanza di "prove a carico" o la sussistenza di una o più "prove a discarico", tali da possedere un grado di certezza che permetta al giudicante di addivenire ad una pronuncia assolutoria senza un'approfondita analisi delle risultanze istruttorie, ossia una disamina compiuta tra gli eventuali contrastanti elementi di prova. L'art. 129, comma 2, c.p.p. non potrebbe trovare applicazione in presenza di una mera contraddittorietà ovvero di un'insufficienza probatoria: in entrambe le ipotesi si devolverebbe al giudice un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze e ciò in netto contrasto con il contenuto della norma che richiede esclusivamente la rilevabilità de plano degli elementi a discarico dell'imputato" (Cfr. Cass. Pen. Sez. UU. Sent. n. 35490 del 28/05/2009 Rv. 244275). La necessità di applicare il suindicato orientamento giurisprudenziale consegue alla mancanza agli atti della prova "evidente", nel senso suindicato, dell'innocenza dell'appellante: le risultanze processuali non depongono per l'insussistenza del reato o la non colpevolezza dell'imputata. Ciò posto, va osservato che la presenza di statuizioni civili impone una disamina della vicenda al fine di valutare la fondatezza di simili statuizioni. Ed invero, va richiamata al riguardo la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui "la previsione dell'art. 578 c.p.p. - per la quale il giudice di appello o di legittimità che dichiarino l'estinzione per amnistia o per prescrizione del reato per il quale sia intervenuta in primo grado condanna, sono tenuti a decidere sulla impugnazione agli affetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili - comporta che i motivi di impugnazione dell'imputato devono essere esaminati compitamente non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato secondo quanto previsto dal citato art. 129 comma 2 c.p.p.. La sentenza di appello che non compia un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato deve essere annullata con rinvio limitatamente alla conferma delle statuizioni civili" (ex plurimisCass. n. 16155 del 20/3/2013). Nella specie, il vaglio delle risultanze dibattimentali porta a confermare quanto ricostruito dal giudice di prime cure, che non può ritenersi scalfito dalle censure difensive di cui sopra.
1.11 primo motivo d'appello con cui la difesa richiede pronuncia di assoluzione è infondato e non merita accoglimento.
Il difensore lamenta la carenza di prova che l'imputata abbia realizzato la condotta appropriativa di cui al capo di imputazione.
In particolare, a detta della difesa, la narrazione della denunciante in ordine ai fatti sui quali vi è processo "non risultava confortata da alcun riscontro documentale al riguardo". La doglianza è priva di pregi.
E' opportuno richiamare il compendio dibattimentale raccolto nel corso dell'articolata istruttoria dibattimentale, dalla quale in estrema sintesi è emerso:
che a partire dal febbraio 2014 la costituita parte civile Sc.Gi. stipulava con l'odierna appellante Ro.Pa. un contratto di locazione ad uso abitativo (agli atti del processo) per il proprio appartamento sito in Vitulazio alla via (…) snc;
che le parti liberamente concordavano un canone mensile di locazione pari ad Euro 370,00;
che la Ro. provvedeva esclusivamente al versamento della prima mensilità, rendendosi sin da subito inadempiente verso il pagamento dei successivi canoni e financo corrispondendo alla locataria un assegno scoperto, dell'importo di 300 Euro, per il mese di aprile 2014;
che pertanto, su diffida della proprietaria dell'appartamento, la Ro. veniva invitata a lasciare l'immobile;
che rientrata nella disponibilità dell'appartamento, la Sc. constatava l'assenza di beni mobili presenti nello stesso al momento della consegna alla Ro., la quale si rendeva irreperibile;
che la Sc. riusciva tuttavia a contattare il proprietario dell'appartamento ove la Ro. si era trasferita, il quale le confermava che i beni a lei sottratti - nella specie una lavatrice, due condizionatori portatili, due televisori, un materasso e dei cuscini - erano stati collocati nell'appartamento di quest'ultimo dopo l'ingresso della Ro.. Alla luce di tali riscontri fattuali, appaiono inconferenti le doglianze della difesa dell'imputata, laddove sostiene che la ricostruzione della vicenda compiuta dal giudice di prime cure sia lacunosa in quanto effettuata sulla scorta delle sole dichiarazioni della parte offesa.
Occorre innanzitutto rappresentare che, per granitica giurisprudenza, le dichiarazioni della persona offesa possono anche da sole essere poste alla base della dichiarazione di responsabilità; dichiarazioni che peraltro, nella specie, si presentano intrinsecamente coerenza, chiarezza e logicità, come già correttamente valutato dal giudice di prime cure.
A ciò vi è da aggiungere che, contrariamente a quanto eccepito dalla appellante, sussiste un elemento di natura documentale a supporto delle dichiarazioni della parte civile, rappresentato dal contratto di locazione tra la Sc. e la Ro., che fornisce una prova certa ed evidente della circostanza che la Ro. avesse piena disponibilità dell'appartamento e di quanto al suo interno.
Nel tentativo di smentire l'evidenza del dato, la difesa afferma che "l'imputata, nel lasciare l'immobile in questione, riponeva le chiavi nella cassetta del contatore Enel … non potendosi pertanto escludere che nelle more fossero state prelevate da soggetti terzi in un momento immediatamente successivo all'allontanamento dell'imputata dall'appartamento de quo".
Non v'è chi non veda come detta tesi risulti frutto di mere illazioni, non essendo suffragata da alcun dato reale, concretamente valutabile in questa sede.
Al contrario, la condotta appropriativa della Ro. trova ulteriori conferme nelle dichiarazioni del dell'appartamento nel quale la Ro. si era poi trasferita, tale Pe.Ge., il quale del tutto estraneo alla vicenda e quindi credibile in quanto privo di interesse personale nella questione aveva riferito che proprio gli oggetti sottratti erano stati collocati nel di lui immobile.
Non da ultimo, va tenuto in considerazione il disinteresse mostrato dall'imputata verso la partecipazione al processo, sede nella quale avrebbe potuto fornire la propria ricostruzione dell'accaduto.
Deve infine ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la Ro., già inadempiente verso la corresponsione dei canoni di locazione, si sia appropriata dei beni di proprietà della Sc., meglio descritti nell'atto di denuncia.
E' appena il caso di ricordare che l'appropriazione è strutturato come reato di danno e si sostanzia nel comportamento di chi, avendo a qualsiasi titolo la disponibilità di un bene di proprietà altrui, inizi a possedere tale bene uti dominus, realizzando una interversio possessionis che comporta l'interruzione illecita della relazione funzionale tra la cosa e il suo legittimo proprietario.
Nel caso di specie, l'odierna imputata, asportando dall'appartamento della parte civile beni di proprietà di quest'ultima, li ha sottratti alla libera disponibilità della Sc., rifiutando di renderglieli e rendendosi irrintracciabile.
1. Il secondo motivo d'appello con cui la difesa richiede esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto è altresì infondato.
A ben vedere, la motivazione ad esso sottesa è generica al punto da rasentare l'inammissibilità, poiché si invoca la normativa indicata "in relazione alle modalità della condotta e all'esiguità del danno cagionato" nonché della non abitualità del comportamento.
Ritiene la Corte che, proprio alla luce delle modalità dell'azione, non vi sia spazio per l'operatività dell'istituto in parola.
Ed invero, l'imputata sin dal principio del rapporto contrattuale ha assunto un atteggiamento ostile verso la parte civile, sottraendosi poi ai numerosi tentativi di costei di contattarla per sollecitarne la corresponsione dei pagamenti, e successivamente per ottenere la restituzione di quanto sottratto dall'appartamento.
E' il caso altresì di richiamare la testimonianza della parte civile nel punto in cui racconta di aver avuto un incontro causale con l'imputata, in epoca successiva ai fatti, presso l'ufficio per il ritiro della tessera sanitaria, laddove l'imputata assumeva un atteggiamento denigratorio vero la Sc., accusandola financo di abbisognare di cure psichiatriche.
Da quanto sopra esposto, deriva la conferma delle statuizioni civili riconosciute in primo grado, con condanna dell'imputata a rifondere le spese sostenute dalla costituita parte civile nel presente grado di giudizio, che si liquidano in Euro 900,00, oltre spese generali al 10%, IVA e CPA come per legge. Nel senso indicato la sentenza di primo grado s'intende riformata, rimanendo ferma per il resto.
P.Q.M.
Visti gli artt. 129, 605 c.p.p. e 23 D.L. n. 149/2020 conv. in legge 176/2020, in riforma della sentenza n. 5940, emessa in data 31.10.2019 dal G.M. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, appellata nell'interesse di Ro.Pa., dichiara non doversi procedere perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.
Conferma le statuizioni civili.
Condanna l'imputata a rifondere le spese sostenute dalla costituita parte civile in questo grado di giudizio, che si liquidano in Euro 900,00, oltre spese generali al 10%, IVA e CPA come per legge.
Indica il termine di giorni 60 per il deposito dei motivi.
Così deciso in Napoli l'1 giugno 2022.
Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2022.