RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Bologna confermava la condanna della M. per le condotte di furto aggravato a lei contestate (non estinte per prescrizione) e le infliggeva la pena di anni due, mesi otto di reclusione ed Euro settecento di multa.
Si contestava alla ricorrente, addetta alla prestazione di servizi di investimento e Direttrice della filiale "(Omissis)" di (Omissis) della Unicredit S.p.a., di avere effettuato movimentazioni arbitrarie e non autorizzate, trafugando oltre ottantanovemila Euro.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva: 2.1. violazione di legge (art. 552 c.p.p.; 143 disp. att. c.p.p.): sarebbe nullo il decreto di citazione a giudizio in primo grado in quanto lo stesso sarebbe stato notificato senza gli allegati, indispensabili per precisare le condotte contestate; tale nullità non avrebbe potuto ritenersi sanata dalla notifica del decreto con gli allegati effettuata in udienza, dato che il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della citazione giudizio e restituire gli atti al pubblico ministero.
2.2. Violazione di legge (art. 552 c.p.p.): il primo decreto di citazione a giudizio sarebbe nullo in quanto non era stato notificato a tutte le persone offese; si deduceva che la ricorrente aveva un concreto interesse alla perfezione del contraddittorio processuale, attraverso la citazione di tutti i presunti offesi e che quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, era legittimata a proporre l'eccezione di nullità.
2.3. Violazione di legge (art. 552 c.p.p.): l'imputazione sarebbe aspecifica, dato che in relazione alle oltre novecento movimentazioni contestate, non sarebbero stati indicati gli importi relativi alle singole operazioni, le specifiche modalità della condotta e le date di consumazione della stessa; sarebbe stato necessario che ogni singolo movimento attribuito all'imputata venisse descritto con precisione.
2.4. Vizio di motivazione: la sentenza sarebbe illogica e contraddittoria in quanto offrirebbe una motivazione insufficiente a sostegno della conferma della responsabilità dell'imputato; segnatamente: (a) mancherebbe la analisi delle singole operazioni illecite, dato che la Corte d'appello avrebbe fatto generico riferimento alle dichiarazioni delle persone offese, senza identificare le prove relative alle singole operazioni; (b) sarebbe stata sommaria la valutazione delle consulenze grafologiche; (c) non sarebbe stata valutata la prima impugnazione nella parte in cui si contestava la credibilità dei contenuti accusatori provenienti dalle testimonianze dei funzionari di banca; (d) sarebbe illogica la parte della motivazione che affermava che il mancato rinvenimento della refurtiva sarebbe indifferente rispetto alla prova del reato; (e) non sarebbe stata valutata la tesi alternativa proposta dalla difesa, secondo cui alla ricorrente sarebbero state attribuite colpe di altri funzionari; (f) non sarebbe stato valutato che il computer della ricorrente era già stato esaminato dagli ispettori della banca prima di essere analizzato dalla polizia giudiziaria; (g) non sarebbero state adeguatamente valutate le decisive testimonianze di P.B. e B.G.; si deduceva cioè la scarsa capacità dimostrativa della documentazione già vagliata dagli uffici ispettivi interni della banca e la mancata presa in carico dell'esistenza di contestazioni disciplinari contenenti incolpazioni identiche a quelle elevate a carico a della M., ma rivolte nei confronti di dipendenti rimasti estranei del procedimento;
2.5. violazione di legge (art. 521 c.p.p. e art. 646 c.p.) e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta contestata: contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, i fatti descritti nell'imputazione avrebbero dovuto essere ricondotti alla fattispecie dell'appropriazione indebita, circostanza che avrebbe consentito di ritenere il reato prescritto prima della pronuncia della sentenza di primo grado, con conseguente necessità di annullare le statuizioni civili; dallo sviluppo del processo sarebbe emerso che la ricorrente aveva avuto rapporti fiduciari con i correntisti, che le avrebbero conferito i risparmi perché li investisse. Tale rilevante circostanza avrebbe consentito di ritenere che la M. avesse la disponibilità delle somme che si assumono trafugate e che, pertanto, la condotta avrebbe dovuto essere inquadrata nella fattispecie prevista dall'art. 646 c.p..
2.6. Violazione di legge (art. 62-bis c.p.) e vizio di motivazione in ordine alla legittimità del giudizio di bilanciamento delle circostanze.
2.7. Violazione di legge (art. 533 c.p.p.) e vizio di motivazione in ordine alla definizione del trattamento sanzionatorio: la Corte di appello avrebbe fatto riferimento a condotte illecite che non sarebbero state vagliate, dato che la condanna riguarderebbe cinquantotto posizioni e non quattrocentosettanta, come indicato in sentenza.
3. L'Avv. L., in difesa della parte civile Unicredit S.p.a. depositava memoria con la quale instava per la inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. il ricorso è inammissibile
1.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Dagli atti processuali emerge che la prima notifica del decreto di citazione a giudizio veniva effettuata senza gli allegati, dunque in modo parziale ed incompleto.
Il ricorrente assumeva che tale vizio integrasse non la nullità della notifica del decreto di citazione a giudizio, ma la nullità del capo di imputazione, che sarebbe generico, il che avrebbe imposto la regressione del procedimento, con trasmissione degli atti al pubblico ministero.
Sul punto il collegio rileva che la notifica del decreto di citazione con la indicazione solo parziale del capo di imputazione non integra una nullità per genericità dell'imputazione, dato che il capo di accusa è stato correttamente elevato dal pubblico ministero in forma chiara e precisa - come si dirà in seguito analizzando il terzo motivo di ricorso -, ma solo la nullità della "notifica" che, erroneamente, veniva eseguita in modo incompleto, notificando il decreto di citazione senza gli allegati.
Chiarito che la nullità riguarda la "notifica", incompleta e non il "capo di imputazione", il collegio rileva che la notifica è stata legittimamente rinnovata dal Tribunale in udienza, quando veniva disposta la notifica a mani proprie dell'imputato e del difensore del decreto "integrale".
Di contro, la invocata regressione, non solo sarebbe illegittima, ma addirittura abnorme. Si ribadisce infatti che è abnorme, perché determina un'indebita regressione del procedimento, il provvedimento con il quale il Tribunale in composizione monocratica, rilevata la omessa notifica del decreto di citazione a giudizio alla persona offesa, e pertanto la nullità del decreto, restituisce gli atti al pubblico ministero per il rinnovo della citazione anziché provvedere direttamente all'incombente (Sez. 3, n. 28779 del 16/05/2018, Ingrassia, Rv. 273059 - 01; Sez. U, n. 28807 del 29/05/2002, Manca, Rv. 221999 - 01).
1.2.11 secondo motivo di ricorso, che invoca il riconoscimento della nullità della vocatio in iudicium - in relazione al fatto che il decreto di citazione non era stato notificato a tutti gli offesi - non è consentito, per carenza di legittimazione ed interesse del ricorrente.
La Cassazione ha già affermato che la mancata o irregolare citazione della parte offesa non determina alcuna nullità ove sia solo l'imputato a dolersene, senza indicare un suo concreto e attuale interesse al riguardo, non avendo alcun valore la semplice allegazione di un pregiudizio del tutto astratto (Sez. 1, n. 13291 del 19/11/1998, Senneca, Rv. 211870 - 01; Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Alleruzzo, Rv. 206580). Più specificamente si è affermato che va escluso che l'imputato possa eccepire la nullità derivante dalla omessa citazione della persona offesa, poiché detta citazione ha il solo scopo di consentire al destinatario l'eventuale costituzione di parte civile, e l'imputato manca dunque di interesse all'osservanza della disposizione violata (Sez. 2, n. 51556 del 04/12/2019, Destro, Rv. 277812; Sez. 2, n. 12765 del 11/03/2011, Shehi, Rv. 250051; Sez. 6, n. 12196 del 11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231193 - 01).
Il collegio rileva inoltre che la persona offesa ha un interesse contrapposto a quello dell'imputato, che si esprime sia nella pretesa di un accertamento della colpevolezza dell'autore del reato, sia in quello della definizione in ambito penale delle sue pretese risarcitorie.
La mancata notifica dell'atto di citazione a giudizio alla persona offesa non lede, pertanto, alcun interesse dell'imputato, ma piuttosto incide sugli interessi dell'offeso, al quale, però, il codice non attribuisce alcuna legittimazione ad impugnare, diversamente da quanto avviene nel caso della omessa notifica dell'avviso dell'udienza preliminare che
si risolva nella emissione di una sentenza di non luogo a procedere situazione che legittima l'offeso a proporre impugnazione (art. 428 c.p.p., comma 2).
La mancata previsione di una espressa legittimazione dell'offeso - o, in via sostitutiva, del pubblico ministero - ad eccepire la nullità della mancata notifica non consente di ritenere che tale legittimazione possa essere riconosciuta all'imputato, che, si ripete, ha un interesse processuale di segno opposto rispetto a quello vantato dalla persona offesa. Si tratta di un approdo ermeneutico che è confermato dalla giurisprudenza relativa all'omessa notifica all'offeso dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare cui segua la celebrazione del processo con rito abbreviato: si è affermato che tale omissione non costituisce motivo di nullità dell'eventuale sentenza emessa all'esito del giudizio abbreviato, non essendo la stessa prevista da alcuna disposizione di legge, a differenza di quanto eccezionalmente stabilito, per la sentenza di non luogo a procedere, dall'art. 428 c.p.p., comma 2; e che, in caso di omesso avviso alla persona offesa ex art. 419 c.p.p., questa conserva comunque la possibilità di far valere le proprie ragioni, senza pregiudizio, mediante la proposizione di un'autonoma azione civile, la cui decisione sul merito non è pregiudicata dalla sentenza assolutoria emessa all'esito del giudizio abbreviato (Sez. 2, n. 45781 del 05/11/2021, Coppola, Rv. 282442 - 01; Sez. 6, n. 29331 del 30/04/2014, Epifani, Rv. 260616).
2.3. Il terzo motivo di ricorso che contesta la specificità del capo di imputazione è manifestamente infondato.
Si tratta di eccezione che reitera quelle già avanzate nei gradi di merito e superata con motivazione accurata e convincente: la Corte di appello, confermando la valutazione effettuata dal primo giudice, riteneva infatti che la condotta fosse enunciata in forma sufficientemente chiara e precisa, dato che nei capi di imputazione vi era l'analitica indicazione dei nomi dei correntisti, era indicato il lasso temporale durante il quale erano state compiute le operazioni illecite, il numero dele stesse ed anche l'importo "movimentato" (pag. 7 della sentenza impugnata).
Si tratta di una valutazione che non si presta ad alcuna censura: il numero delle transazioni illecite, il loro importo e la loro data risultano infatti analiticamente indicati nel capo di imputazione, che risponde ai requisiti di precisione e chiarezza richiesti dall'art. 552 c.p.p..
1.4. Il quarto motivo non è consentito in quanto si risolve nella richiesta di rivalutare la capacità dimostrativa delle prove, attività non compresa entro il perimetro che circoscrive la competenza del giudice di legittimità.
In materia di estensione dei poteri della Cassazione in ordine alla valutazione della legittimità della motivazione si riafferma che la Corte di legittimità non può effettuare alcuna valutazione di "merito" in ordine alla capacità dimostrativa delle prove, o degli indizi raccolti, dato che il suo compito è limitato alla valutazione della tenuta logica del percorso argomentativo e della sua aderenza alle fonti di prova che, ove si ritenessero travisate devono essere allegate - o indicate - in ossequio al principio di autosufficienza (tra le altre: Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015,0., Rv. 262965).
Contrariamente a quanto dedotto la Corte di appello, confermando analoga valutazione del primo giudice, attraverso un percorso argomentativo privo di illogicità, rilevava come la ricorrente avesse effettuato numerose operazioni illecite "manipolando" i conti dei correnti al fine di trarne profitto.
Segnatamente: all'esito di una complessa verifica effettuata sia dall'autorità giudiziaria, che dall'autorità amministrativa, era stato accertato che la ricorrente aveva effettuato operazioni disconosciute dai clienti per complessivi ottantanove milioni di Euro, e che erano stati effettuati prelievi indebiti in contanti con firma falsa o mediante bonifico verso altra banca per 4.400.000 mila Euro, importo la metà del quale risultava accreditato su conti di altri clienti della medesima filiale. L'irregolarità di queste operazioni risultava riscontrata da quanto dichiarato dai vari correntisti, i quali disconoscevano gli atti dispositivi sia per la falsità della firma, sia per la inesistenza della causale dichiarata. Veniva inoltre accertato che la consistenza patrimoniale attestata dagli estratti conto non corrispondeva al saldo reale; che la M. aveva effettuato la compravendita di strumenti finanziari in assenza di specifiche autorizzazioni o con firma apocrifa, e che aveva indicato importi fittizi, in parte corrispondenti a perdite occultate derivanti da investimenti non andati a buon fine, ed in parte relativi ad incrementi inconsistenti.
Inoltre veniva rilevato che non era stata accertata alcuna autorizzazione allo svolgimento di tale attività illecita da parte dei superiori della ricorrente.
Si tratta di un percorso logico-argomentativo che evidenzia in modo incontrovertibile l'illiceità delle condotte contestate, che non risulta in alcun modo inciso dalle doglianze difensive che, si ripete, si risolvono nella richiesta, non consentita, di rivalutare la capacità dimostrativa delle prove.
2.5. Il quinto motivo, con il quale la ricorrente invoca l'inquadramento delle condotte contestate nel reato previsto dall'art. 646 c.p., non è consentito in quanto generico.
2.5.1. In via preliminare si riafferma che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel novero di quelle sulle quali la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 c.p.p., comma 2, e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto di fatto (Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014., Rossi, Rv. 259730 - 01; Sez. 3, n. 33815 del 17/09/2020, M., Rv. 280045).
2.5.2. Nel dettaglio: il collegio non si ignora l'orientamento secondo cui, mutatis mutandis, risponde del reato di peculato e non di furto aggravato il cassiere dell'ufficio postale che, mediante l'utilizzo indebito dei codici di accesso al servizio on-/ine, si appropri del denaro versato sul libretto di deposito; orientamento che valorizza il fatto che la proprietà delle somme depositate dal titolare del libretto spetta all'istituto di credito, ai sensi dell'art. 1834 c.c., mentre il depositante ha solo il diritto alla restituzione (Sez. 6, n. 52662 del 02/10/2018, Carbone, Rv. 274297 - 01; Sez. 6, n. 5170 del 10/11/1987, Di Mese, Rv. 178242; Sez. 2, n. 28786 del 18/06/2015, Frisicaro Rv. 264152).
Va rilevato, tuttavia, che altre pronunce hanno ritenuto che la sottrazione di denaro dai conti (libretti di risparmio o conti correnti) dei clienti da parte del dipendente dell'istituto che li ha in deposito configura il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita. Ci si riferisce (a) alla sentenza della sezione 2, n. 4853 del 20/12/1993, Rv. 197781, imp. Balzaretti, in cui si è affermato che, ai fini della delimitazione dei confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita, possono rientrare nella nozione di possesso vari casi di detenzione, ma deve comunque trattarsi di detenzione nomine proprio e non nomine alieno, come in tutti i casi di persone che abbiano la disponibilità materiale della cosa ad altri appartenente in virtù del rapporto di dipendenza che le lega al titolare del diritto: è stata pertanto esclusa la sussistenza del possesso in senso penalistico in capo ad un dipendente di una Cassa di Risparmio con riferimento a titoli di clienti di cui il medesimo avesse la detenzione materiale, o meramente precaria, al limitato fine di compiere determinate operazioni; (b) alla pronuncia della sezione 4, n. 1798 del 10/07/1996, Rv. 206302, imp. Iegiani, che ha ribadito che il cassiere di un'agenzia bancaria non ha la disponibilità neanche provvisoria della provvista dei conti correnti dei clienti dell'istituto. Egli, nel momento in cui effettua il pagamento degli assegni, non esercita un libero atto di disponibilità, ma si limita a compiere una mera attività di esecuzione di precise disposizioni del correntista, il quale rimane, in ogni momento, possessore e dominus della gestione del conto; (c) nello stesso solco si collocano la sentenza della sezione 6, n. 32543 del 10/05/2007, Rv. 237175, imp. Varriano e quella della sezione. 5, n. 10758 del 21/12/2015, Rv. 266334 - 01, imp. Tanzi, secondo cui risponde del reato di furto aggravato, il dipendente della banca che si impossessa, mediante movimentazioni effettuate con i terminali dell'ufficio, di somme di danaro di clienti depositate in conti correnti, mentre si configura il reato di cui all'art. 646 c.p., nel caso in cui il cassiere si appropriava del denaro versato dal cliente della banca "prima" che esso venga accreditato sul conto corrente, denaro del quale, in quel momento, aveva la piena disponibilità.
Dalla analisi di tale percorso giurisprudenziale, emerge che è decisivo per definire la corretta qualificazione giuridica delle condotte in contestazione rilevare quali siano i "poteri di gestione del funzionario" sul denaro in deposito, ovvero rilevare se la detenzione del denaro - suscettibile di essere penalmente rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p. sia nomine proprio o nomine alieno.
Si tratta di una operazione interpretativa coerente con il percorso ermeneutico tracciato dalla giurisprudenza secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita, qualora oggetto della condotta sia il denaro, è necessario che l'agente violi, attraverso l'utilizzo personale, la specifica "destinazione di scopo" ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna, non essendo sufficiente il semplice inadempimento all'obbligo di restituire somme in qualunque forma ricevute in prestito (Sez. 2, n. 24857 del 21/04/2017, Forte, Rv. 270092 - 01; Sez. 2, n. 37820 del 26/11/2020; Cattaneo, Rv. 280465; Sez. 2, n. 23783 del 07/05/2021, Tatti, Rv. 281461 - 0).
Il funzionario può avere infatti diversi "poteri" di gestione del denaro dei correntisti che derivano dal conferimento di precise deleghe di gestione. Ne' può ritenersi che il passaggio di proprietà del denaro in capo alla banca, sancito dell'art. 1834 c.c., renda inutile la verifica dei concreti poteri del funzionario sul denaro depositato: questo, infatti, pur se è di proprietà della banca, resta nella disponibilità del correntista come previsto dall'art. 1852 c.c.. Ciò detto, il titolare del conto può delegare la gestione del denaro depositato alla banca e, dunque, ai suoi funzionari: in presenza di tale delega la disponibilità del denaro si trasferisce al funzionario che risponde di appropriazione indebita se agisce "contro" od "oltre" il mandato che segna il perimetro entro il quale è gestibile il denaro in deposito.
Ebbene: affinché, nel caso di denaro depositato in banca possa ritenersi sussistente il capo al funzionario che dispone del denaro la interversione del possesso che integra l'appropriazione indebita è necessario che vi sia una delega del correntista, che definisca precisi vincoli relativi alla gestione delle somme depositate e che tali vincoli non siano rispettati; in assenza di delega, il funzionario che dispone del denaro semplicemente depositato sul conto corrente consuma il reato di furto.
2.5.3. Nel caso di specie il collegio rileva che:
(a) la identificazione dei poteri di gestione della M. sui singoli conti è una questione di "fatto", che implica un apprezzamento della capacità dimostrativa delle prove, ontologicamente incompatibile con le verifiche effettuabili in sede di legittimità;
(b) che la invocata rivisitazione del compendio probatorio non può essere effettuata in Cassazione se non nei ristretti limiti in cui è ammesso il sindacato sugli elementi di prova posti alla base della decisione in ordine alla qualificazione giuridica, ovvero quando è dedotto un travisamento di prova (prova che deve essere specificamente allegata o indicata), o quando si censuri la motivazione sulla valutazione delle prove perché manifestamente illogica. Su tale decisivo punto il ricorso, come anticipato, si profila generico, in quanto fa riferimento alla esistenza - solo in "alcuni e non specificati casi" della esistenza di un mandato ad acquistare titoli di investimento, senza nessuna ulteriore precisazione: la censura non ha, quindi, il livello di specificità necessaria per consentire di rilevare il travisamento delle prove poste alla base della decisione sulla qualifica, né individua vizi logici manifesti e decisivi della motivazione a sostegno dell'inquadramento della condotta nella fattispecie del furto, centrata sulla valorizzazione delle non autorizzate manipolazioni del denaro depositato.
2.5. Infine: sono manifestamente infondate le doglianze relative al trattamento sanzionatorio proposte con il sesto ed il settimo motivo di ricorso.
Segnatamente: (a) le censure in ordine alla presunta illegittimità del bilanciamento tra circostanze non si confrontano con la consolidata giurisprudenza secondo cui il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 c.p., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati (Sez. 5 -, n. 33114 del 08/10/2020, Martinenghi, Rv. 279838; Conf. n. 10379/1990, Rv. 184914; n. 3163/1988, Rv. 180654); (b) le censure in ordine alla quantificazione della pena sono manifestamente infondate in quanto la Corte di appello, pur rilevando la emersione di una molteplicità di condotte illecite nei confronti di centinaia di clienti, determinava la pena considerando solo sessantadue, specifiche, posizioni.
3.Alla dichiarata inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in Euro tremila. Condanna inoltre il ricorrente, come da richiesta del difensore di parte civile presente in udienza, alla rifusione delle spese sostenute da Unicredit S.p.a. che liquida in complessivi Euro 5.000,00 oltre accessori di legge, e da A.G., G.R., B.L.M., A.D., G.R., A.A., V.L., M.S., G.L. (nato il (Omissis)), C.C., P.A.M., B.S.V., A.G.R., G.E., B.R., F.F., F.W., L.L., F.F., R.M., A.E., V.G., C.R., C.I., G.L. (nato il (Omissis)) che liquida in complessivi Euro 18.798,60, oltre
accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute da Unicredit Spa che liquida in complessivi Euro 5.000,00 oltre accessori di legge, e da A.G., G.R., B.L.M., A.D., G.R., A.A., V.L., M.S., G.L. (nato il (Omissis)), C.C., P.A.M., B.S.V., A.G.R., G.E., B.R., F.F., F.W., L.L., F.F., R.M., A.E., V.G., C.R., C.I., G.L. (nato il (Omissis)) che liquida in complessivi Euro 18.798,60 oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 3 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2023