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Appropriazione indebita: la condotta riparatoria non rileva ai fini della prova della mancanza del dolo
Cassazione penale , sez. II , 29/09/2023 , n. 43839
In tema di delitto di appropriazione indebita, la condotta riparatoria tenuta successivamente all'impossessamento del bene non assume rilevanza ai fini della prova della mancanza del dolo, salvo che l'intenzione di restituire il maltolto risulti, in maniera inequivocabile, al momento dell'abuso del possesso e sia accompagnata dalla certezza della possibilità di restituzione.
Per approfondire l'argomento, leggi il nostro articolo sul reato di appropriazione indebita.
Norme di riferimento
La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'Appello di Bologna con sentenza dell'11/7/2022, in riforma della sentenza del Tribunale di Modena del 21/7/2021, assolveva B.M. dai delitto di appropriazione indebita a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato quanto all'appropriazione di denaro e perché il fatto non sussiste in relazione alle condotte appropriative di merce con revoca delle statuizioni civili. L'imputazione attribuiva al B. di essersi appropriato, in qualità di mandatario di agenzia senza esclusiva e senza deposito della S.Z. s.p.a., per la provincia di Modena, nel 2014, di merce destinata a vari clienti del valor complessivo di oltre 4.000,00 Euro e, nel 2015, di merce per un valor di oltre 3.000,00 Euro; di essersi appropriato di alcuni assegni bancari e di somme di denaro destinate, dai clienti, al pagamento delle merci in favore della S.Z.: merci, titoli e denaro di cui B. aveva la disponibilità ed il possesso in ragione del mandato di agenzia conferitogli dalla S.Z. s.p.a..
1.2. Valorizzando le emergenze istruttorie, in particolare le dichiarazioni dei vari clienti della S. e le dichiarazioni dello stesso B. che ammetteva di aver posto in essere le condotte appropriative, il primo Giudice ravvisava la fattispecie contestata sia sotto il profilo oggettivo e che soggettivo avendo B., in qualità di agente di commercio abilitato all'incasso, il possesso del denaro e dei beni di proprietà della S. che gestiva uti dominus e cioè destinandoli volontariamente ad esigenze proprie.
1.3. La Corte di appello, con la sentenza impugnata, ha assolto B. dal reato a lui ascritto relativamente agli ammanchi di denaro, per la mancanza dell'elemento psicologico ritenendo che l'imputato fosse "in una prima fase verosimilmente convinto di poter restituire il denaro" e di non averlo potuto restituire perché costretto dalla necessità di onorare un debito estorsivo.
Quanto all'appropriazione di merci la Corte d'appello ha assolto B. ritenendo verosimile la versione alternativa fornita dalla difesa circa l'avvenuta consegna delle merci ai clienti "in nero". Negli stessi termini l'assoluzione per l'appropriazione indebita degli assegni non risultando che il B. se ne fosse appropriato.
2. Avverso detta sentenza ricorre per cassazione la parte civile V.A. n. q. di legale rappresentate della S. s.p.a. il quale deduce i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge in relazione all'art. 646 c.p., per avere la Corte d'appello ritenuto insussistente l'elemento psicologico del reato a fronte della intenzione dell'imputato di restituire le somme di denaro, intenzione che non avrebbe alcun rilievo ai fini della sussistenza del reato, posto che la condotta riparatoria, peraltro parziale, fu posta in essere successivamente alla consumazione del reato.
2.2. Con il secondo e terzo motivo, tra loro connessi, si censura la sentenza di appello per avere ritenuto insussistente il reato di appropriazione indebita delle merci valorizzando la versione alternativa della difesa circa la sussistenza di una prassi secondo cui gli esercenti acquisivano merci in nero e pagavano in contanti, La parte civile ricorrente censura la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di appello, fondata sulle dichiarazioni di due soli testi, dei quali non era stata verificata la credibilità, a fronte di 13 titolari di esercizi commerciali che escludevano di avere ricevuto la merce di cui alle fatture e disconoscevano formalmente le firme ivi apposte. La prassi dell'avvenuta consegna in nero della merce non solo era smentita dalla maggior parte dei commercianti ma, secondo il ricorrente, non incontrava affatto il loro interesse posto che essi, diversamente da quanto si assume in sentenza, avrebbero invece avuto interesse a contabilizzare la merce potendosene dedurre il costo a fini fiscali, sarebbe contrario alla logica l'argomento per cui il commerciante che effettua il pagamento della merce non ne conservi traccia.
Analogamente, con riferimento all'appropriazione degli assegni la decisione della Corte d'appello sarebbe smentita per tabulas dagli esercenti clienti e dagli accertamenti della Guardia di finanza che attestavano che gli assegni erano stati consegnati dai clienti al B. e non versati alla S..
In data 21 settembre 2023 la parte civile ha depositato una memoria difensiva a sostegno del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le censure prospettate dalla ricorrente parte civile, con riguardo ai vizi di violazione di legge ed alle carenze logico-motivazionali della sentenza impugnata, sono fondate.
In via generale va ricordato il giudice d'appello, in caso di riforma, in senso assolutorio, della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, non è obbligato alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, ma è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, Rv. 272430; Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, Rv. 278056; Sez. 4, Sentenza n. 4222 del 20/12/2016, Rv. 268948).
2. Tanto premesso, quanto al primo motivo, deve osservarsi che il provvedimento impugnato ha, dopo una compiuta analisi in fatto della fattispecie portata al suo esame, ritenuto insussistente la condotta appropriativa contestata dal pubblico ministero, in considerazione del fatto che B. pur avendo materialmente appreso il denaro destinato alla S., fosse animato dalla volontà di restituirlo, tanto che aveva cercato di ripianare i debiti, con denaro suo e dei suoi familiari, non riuscendo nell'intento e denunciando per questo l'estorsore che, sostanzialmente, lo aveva costretto agli ammanchi.
Tale conclusione è erronea in quanto, come già affermato da questa Corte Suprema, il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa e cioè nel momento in cui l'agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria Sez. 5, n. 1670 del 08/07/2014, Rv. 261731; Sez. 2, n. 25282 del 31/05/2016, Rv. 26707). Nel caso di specie nessun rilievo può essere riconosciuto a quella che è rimasta una mera intenzione dell'imputato di restituire la somma, successivamente, trattandosi di proposito meramente astratto che non ha inciso sulla già intervenuta consumazione del reato.
Ed invero, l'intenzione di adempiere e di restituire il maltolto fa venir meno il dolo nel delitto di appropriazione indebita, solo quando risulti in modo certo, nel momento dell'abuso di possesso, la detta intenzione e questa sia accompagnata dalla certezza della possibilità di restituzione (Sez. 2, n. 9416 del 27/05/1981, dep. 24/10/1981, Budellacci; Rv. 150668; Sez. 2, n. 7442 del 02/02/1977, dep. 09/06/1977, Fiorillo, Rv. 136173). Circostanza, questa, che la Corte di appello ha ritenuto provata alla luce di una condotta riparatoria solo parziale e successiva al reato e per questo da reputarsi irrilevante tenendo conto del fatto che, come osservato dal primo giudice, la S. ha dovuto agire civilmente per il recupero di quanto sottratto e che la condotta del B. non poteva essere minimamente scriminata dallo stato di necessità di dover far fronte ad un debito estorsivo, posto che l'imputato poteva sottrarsi dalla costrizione a violare la legge mediante ricorso all'autorità, cui andava chiesta tutela. (Sez. 4, Sentenza n. 15167 del 09/01/2015 Ud. (dep. 13/04/2015) Rv. 26313 Sez. 5, Sentenza n. 4903 del 23/04/1997 Ud. (dep. 23/05/1997) Rv. 208134).
3. Parimenti fondata in questo caso per illogicità manifesta e carenza di motivazione rafforzata, è la doglianza contenuta nel secondo motivo, nella parte in cui contesta il ragionamento seguito dal giudici di appello per assolvere l'imputato dal delitto di appropriazione indebita delle merci, valorizzando la tesi dell'imputato circa l'esistenza di una prassi che vedeva eseguite consegne in nero di merci, suffragata da due sole dichiarazioni testimoniali di cui una interessata e l'altra de relato, a fronte di una compendio probatorio di natura dichiarativa e documentale ben più ampio e dettagliato posto a fondamento della decisione di primo grado, che escludeva detta prassi (pagg. 29 e segg. della sentenza di primo grado).
Contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza di appello, appare illogico che i commercianti avessero interesse a negare di avere ricevuto la merce e di averla pagata poiché, invece, inserendo la fattura emessa, in contabilità, essi avrebbero avuto un beneficio fiscale e pagando la merce in contanti, sarebbero risultati in pari con la S..
4. Quanto al terzo motivo lo stesso appare fondato a fronte di una motivazione di appello, relativa all'assoluzione per gli ammanchi degli assegni meramente assertiva "non emerge infatti la prova che B. se ne fosse appropriato e peraltro uno di questi era oggetto dell'azione furtiva subita dall'imputato il 17/9/2014", a fronte di una motivazione del giudice di primo grado, fondata su elementi probatori di natura dichiarativa e documentale (pag. 31 della sentenza di primo grado). La pronuncia impugnata non risulta quindi supportata da motivazione "rinforzata", avendo la Corte d'appello, sul punto, affermato in modo apodittico e non adeguatamente argomentato che non si ritiene raggiunta la prova degli ammanchi degli assegni.
5. L'ordine di considerazioni sviluppate nei paragrafi che precedono inducono a rilevare che la motivazione posta a fondamento della sentenza impugnata risulta inficiata dalle denunciate violazioni di legge e aporie di ordine logico, che hanno pure determinato, una inappropriata applicazione dell'art. 646 c.p..
5. Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata agli effetti civili dandosi luogo con rinvio al giudice civile competente in grado di appello, ai sensi dell'art. 622 c.p.p. (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 25608701 e SU n. 22065 del 28.01.2021, Cremonini); a detto giudice, inoltre, deve essere demandato il complessivo regolamento delle spese tra le parti private anche per il presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 29 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2023
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