RITENUTO IN FATTO
1. B.R., è stata rinviata a giudizio dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Fermo per rispondere del delitto di cui all' art. 81 cpv., art. 314 c.p., in quanto, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di persona incaricata di pubblico servizio, quale dipendente della Casa di riposo e residenza protetta " D.G.M." di (Omissis), avendo accesso al sistema informatico ed al programma gestionale, in qualità di addetta alla tenuta della contabilità e all'emissione dei mandanti di pagamento dell'ente, in numerose occasioni, si sarebbe appropriata di danaro, predisponendo tra il 2008 e il 2011, mandati pagamento a carico della fondazione, apponendovi le firme apocrife, e, inoltre, nell'arco temporale tra il 2008 e l'agosto 2012, si sarebbe appropriata delle rette mensili relative al soggiorno presso la Casa di riposo delle signore A.M.D. e tra il 2008 e il 2012 della sig.ra T..
Al capo b) e c) sono stati, inoltre, contestati alla B., i delitti di cui all' art. 81 c.p., comma 2, artt. 476 e 493 c.p..
2. Il Tribunale di Fermo, con sentenza emessa in data 5 dicembre 2018 all'esito del giudizio dibattimentale, ha dichiarato l'imputata colpevole dei reati ascritti ai capi a), b) e c), limitatamente alle condotte commesse a far tempo da febbraio 2011, e l'ha condannata, concesse le attenuanti generiche e la continuazione tra i reati contestati, alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Il Tribunale ha, inoltre, dichiarato l'imputata interdetta dai pubblici uffici, ha disposto la confisca delle somme costituenti profitto dei reati, ha condannato l'imputata al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio civile, e ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine ai reati contestati ai capi b) e c), limitatamente alle condotte antecedenti al febbraio 2011 per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.
3. Con la decisione impugnata la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, impugnata dall'imputata: ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti della B., in ordine agli episodi contestati ai capi b) e c) dell'imputazione, in quanto i reati sono estinti per intervenuta prescrizione; ha rideterminato la pena di tre anni di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata, e ha condannato l'imputato a rifondere le spese processuali in favore della parte civile costituita.
4. L'avvocato A., nell'interesse dell'imputata B.R., ha presentato ricorso avverso tale sentenza e ne ha chiesto l'annullamento, deducendo due motivi.
4.1. Con il primo motivo il difensore censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l'inosservanza dell'art. 314 c.p..
Rileva il difensore che erroneamente la Corte di appello avrebbe attribuito la qualifica di incaricato di pubblico servizio all'imputata, in quanto la casa di riposo in cui la stessa operava sarebbe divenuta una fondazione di diritto privato per effetto della legge della regione Marche n. 5 del 2008, che avrebbe determinato un fenomeno di c.d. abolitio criminis mediata.
Tale ente, tuttavia, nell'arco temporale in cui sarebbero state poste in essere le condotte contestate (2008-2012), non avrebbe mai svolto attività assimilabile a un servizio pubblico, essendo un mero IPAB (Istituto per l'assistenza ai bisognosi), assimilabile a una struttura alberghiera per anziani autosufficienti.
Solo successivamente al 2013, l'ente, trasformandosi in fondazione di diritto privato, avrebbe affiancato all'attività residenziale di soggiorno per anziani quella di residenza protetta, con prestazioni di basso livello sanitario, peraltro totalmente estranee alle mansioni e all'attività concretamente svolta dall'imputata.
La B., inoltre, avrebbe svolto solo e sempre mansioni d'ordine connesse alla sua qualifica di mera archivista, con espresso divieto di firma imposto dal Consiglio di amministrazione della Fondazione.
L'imputata, peraltro, non avrebbe mai avuto il possesso o la disponibilità di somme di danaro di pertinenza della fondazione.
Ad avviso del difensore, dunque, il reato di peculato ascritto alla B., sarebbe insussistente, in quanto all'attività dell'imputata non sarebbe possibile attribuire una rilevanza pubblica e la stessa non avrebbe mai avuto il possesso o la disponibilità di somme di danaro.
Sussisterebbero, dunque, al più condotte di furto o di appropriazione indebita ampiamente prescritte.
4.2. Con il secondo motivo il difensore censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la contraddittorietà della motivazione in ordine ai criteri valutativi delle prove enunciati dall'art. 192 c.p.p..
La Corte di appello avrebbe, infatti, erroneamente ritenuto apocrife le sottoscrizioni asseritamente apposte in calce ai mandati, con riferimento al delitto di peculato contestato al capo 1).
La B., tuttavia, non avrebbe mai redatto bilanci, posto che gli stessi non erano stati mai redatti, come ammesso dal Presidente della Fondazione, D.M.G., né avrebbe mai incassato somme in nome e per conto della fondazione, non avendo alcun potere, neppure di fatto, in tal senso.
Irragionevolmente la Corte di appello avrebbe, inoltre, ritenuto attendibile la consulenza grafologica svolta su scritture provenienti dall'imputata, in quanto eseguita su copie fotostatiche di documenti, peraltro formalmente disconosciuti.
La ricognizione di debito operata dal precedente difensore dell'imputata in occasione delle contestazioni disciplinari rivolta dalla fondazione alla B., del resto, non avrebbe alcuna valenza probatoria.
Rileva, da ultimo, il difensore che illegittimamente nel primo grado di giudizio la lista dei testimoni dell'imputata sarebbe stata illegittimamente ridotta dal Tribunale e non sarebbe stato ammesso un documento contabile che non era stato possibile rinvenire in precedenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere accolto, di quanto il primo motivo di impugnazione proposto è fondato.
2. Con il secondo motivo, che assume rilievo preliminare, il difensore censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di condotte appropriative da parte dell'imputata.
Le censure proposte dal ricorrente in ordine all'insussistenza delle condotte ascritte all'imputata sono infondate.
Tali censure sono, infatti, intese a confutare la ricostruzione di fatto operata nelle sentenze di merito e non già a dimostrarne l'illegittimità o la manifesta infondatezza.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessimone, Rv. 207944).
Sono, del resto, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5456 del 4/11/2020, F., Rv. 280601-1; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
La Corte di appello ha, peraltro, non incongruamente rilevato che l'imputata, pur essendo stata assunta con le mansioni di archivista negli anni ottanta del secolo scorso, aveva poi svolto funzioni di sempre maggiore responsabilità, tanto da gestire ogni attività contabile ed amministrativa della casa di riposo e tali mansioni avevano ricevuto anche un riconoscimento formale, in quanto l'imputata risultava inquadrata come istruttore direttivo.
Nella valutazione non illogica della sentenza impugnata e della sentenza di primo grado, dunque, l'imputata, avvalendosi delle mansioni svolte all'interno dell'ente, aveva posto in essere le condotte appropriative contestate.
La censura relativa alla riduzione della lista testi operata dal Tribunale ed alla mancata acquisizione di un documento, peraltro neppure indicato, e', parimenti, inammissibile ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 3, in quanto non è stata dedotta con i motivi di appello ed è stata proposta, omisso medio, per la prima volta in sede di legittimità.
3. Con il primo motivo il difensore censura, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l'inosservanza dell'art. 314 c.p., in quanto difetterebbe la qualifica soggettiva attribuita all'imputata, oltre che l'elemento oggettivo e soggettivo del reato di peculato contestato alla B..
4. Il motivo è fondato.
La Corte di appello di Ancona ha, infatti, ritenuto che la Casa di riposo e residenza protetta " D.G.M." di Monterubbiano svolgesse un pubblico servizio, ma non ha motivato in ordine connotazioni oggettivo-funzionali
dell'attività dell'imputata all'interno di tale struttura.
Le sentenze di merito si limitano a prendere atto del fatto che la fondazione svolge un servizio pubblico, quale IPAB, senza minimamente approfondire le modalità e le forme dello svolgimento dello stesso.
Tale motivazione non risulta, tuttavia, conforme alla disciplina vigente.
Gli artt. 357 e 358 c.p. non consentono, infatti, di desumere la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dalla mera natura dell'ente di appartenenza, in quanto la funzione pubblica e il pubblico servizio possono essere svolti sia da soggetti privati che da soggetti pubblici (Sez. 6, n. 5550 del 16/12/2021 (dep. 2022), Salza).
A seguito della L. 26 aprile 1990, n. 86, il legislatore ha, infatti, delineato la nozione di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) e di incaricato di un pubblico servizio (art. 358 c.p.) secondo una concezione oggettivo-funzionale, che ha superato il riferimento presente nella disciplina previgente al "rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione", e che si incentra sul regime giuridico dell'attività concretamente esercitata.
Il perseguimento dell'interesse pubblico e', del resto, pienamente compatibile con il ricorso a forme non imperative dell'attività svolta e, dunque, con un regime integralmente privatistico della stessa.
Ne discende che, ai fini del riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale "agli effetti della legge penale", non deve aversi riguardo alla natura dell'ente da cui lo stesso dipende, né alla tipologia del relativo rapporto di impiego, né ancora all'esistenza di un formale rapporto di dipendenza con lo Stato o con l'ente pubblico, ma deve valutarsi esclusivamente la natura dell'attività effettivamente espletata dall'agente, ancorché lo stesso sia un soggetto "privato".
La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, affermato che il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).
Agli effetti della legge penale, dunque, l'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell'agente deve essere escluso quando l'attività svolta dal soggetto sia regolata in forma privatistica, anche se ne è parte una persona giuridica pubblica o una società partecipata quasi totalitariamente da un ente pubblico.
Il criterio oggettivo-funzionale della nozione di "pubblico ufficiale" impone, dunque, un attento scrutinio dell'attività concretamente esercitata dal soggetto, la ricerca e l'individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, e la verifica della presenza dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dell'art. 357 c.p., comma 2, id est la constatazione che, nel suo svolgimento, l'agente abbia concorso alla formazione o alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione ovvero esercitato poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 10086 dei 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190; Sez. 6, n. 1943 del 13/01/1999, Mascia ed altro, Rv. 213910).
La Corte di appello di Ancona non ha fatto buon governo di tali principi, in quanto, attestandosi solo sul rilievo del controllo pubblicistico della casa di cura, posto che il suo consiglio di amministrazione era costituito da quattro membri, nominati dal comune di (Omissis) e uno dal comune di Moresco, non ha osservato il criterio oggettivo-funzionale delineato dagli artt. 357-358 c.p.
La Corte di appello si e', infatti, attestata sulla disamina di elementi sintomatici della pubblicità dell'ente e sull'affermazione dell'interesse pubblico perseguito dalla casa di cura, che, tuttavia, sono neutri rispetto alla necessaria verifica delle mansioni concretamente svolte dall'agente e del loro regime giuridico.
Nella sentenza impugnata, peraltro, non si evidenzia alcun tratto dal quale possa inferirsi che l'imputata operasse secondo un regime diverso da quello meramente privatistico.
5. Alla stregua dei rilievi che precedono, pertanto, le condotte contestate all'imputata devono essere qualificate come ipotesi di appropriazione indebita di cui agli artt. 81,646 c.p., aggravata dall'abuso di prestazione di opera ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 11.
Integra, infatti, il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta del dipendente che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato (ex plurimis: Sez. 2, n. 50087 del 14/11/2013, Biondo, Rv. 257646 -01).
La diversa qualificazione giuridica del fatto operata in sentenza dalla Corte di cassazione senza preventivamente renderne edotte le parti, del resto, non determina, alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, in conformità dell'art. 111 Cost., comma 2, e dell'art. 6CEDU, secondo l'interpretazione della giurisprudenza della Corte EDU nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, quando non avvenga "a sorpresa", in quanto la stessa sia stata prospettata, se non sollecitata, proprio dall'imputato e dal suo difensore.
L'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111 Cost., comma 2, e art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. U, n. 31617 del 26/05/2015, Lucci, Rv. 264438-01, nell'affermare il principio indicato, la Corte ha escluso la violazione dell'art. 521 c.p.p. in una fattispecie in cui l'imputato era stato condannato in primo grado per il reato di concussione e in appello per quello di corruzione).
Nel caso di specie l'insussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio della B. costituisce specifico motivo di impugnazione nei ricorsi presentati nell'interesse dell'imputato e, peraltro, la riqualificazione delle condotte contestate quali episodi di appropriazione indebita è direttamente evocata nel ricorso proposto dall'avvocato Angelini.
6. Tale riqualificazione impone, tuttavia, la declaratoria della prescrizione dei reati per i quali si procede.
L'ultima condotta delittuosa contestata risale, infatti, al (Omissis) e, pertanto, atteso che il termine massimo di prescrizione per il delitto di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, è di sette anni e mezzo, l'ultimo episodio delittuoso contestato risulta prescritto in data (Omissis).
A tale data vanno, tuttavia, aggiunti i 120 giorni di sospensione del corso della prescrizione medio tempore intervenuti (60 giorni, dal 9 dicembre 2015 al 7 dicembre 2016(Omissis)20 giorni dal (Omissis), per adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze e 60 giorni, dal 6 giugno 2018 al 24 ottobre 2018, per impedimento dell'imputata).
Deve, dunque, ritenersi che l'ultimo reato di appropriazione indebita aggravata si sia prescritto in data (Omissis) (e, dunque, nel corso del giudizio di appello).
La causa di non punibilità della prescrizione, del resto, può essere riconosciuta anche in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 129 c.p., sulla base delle circostanze di fatto appurate dal giudice del merito (Sez. 5, n. 25155 del 15/02/2005, Sampaolesi, Rv. 231896 - 01; Sez. 5, n. 11885 del 5/10/1998, Fabiani, Rv. 211923 - 01).
Secondo il costante orientamento di questa Corte, in presenza della causa estintiva della prescrizione, l'obbligo di declaratoria, da parte del Giudice di legittimità, di una più favorevole causa di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2, comporta il controllo unicamente della sentenza impugnata, nel senso che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della causa più favorevole sono costituiti unicamente dalla predetta sentenza, in conformità con i limiti di deducibilità del vizio di mancanza o manifesta illogicità di motivazione, la quale, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deve risultare dal testo del provvedimento impugnato (così, tra le tante, Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, P.G. in proc. Amurri e altri, Rv. 253458; Sez. 6, n. 27944 del 12/06/2008, Capuzzo, Rv. 240955; Sez. 1, n. 10216 del 05/02/2003, De Stefano, Rv. 223575; Sez. 4, n. 9944 del 27/04/2000, Meloni e altri, Rv. 217255).
Gli elementi da cui poter evincere l'inesistenza del fatto, la irrilevanza penale di esso o la non commissione dello stesso da parte dell'imputato, devono, dunque, emergere dagli atti in modo assolutamente non contestabile, con la conseguenza che la valutazione richiesta alla Corte di Cassazione attiene più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" ed è quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n, 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275 -01).
Declinando tali principi nel caso di specie, deve rilevarsi che mancano le condizioni per prosciogliere l'imputata dai reati alla medesima ascritti, avendo le sentenze di merito - con motivazione completa e priva di vizi di manifesta illogicità, e con una corretta lettura delle risultanze probatorie-, accertato come la medesimo abbia posto in essere plurime condotte di spesa di somme appartenenti alla casa di cura per interessi privati.
Dalle sentenze di merito, dunque, non risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputata non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, secondo quanto previsto dall'art. 129 c.p.p., comma 2.
7. Alla stregua dei rilievi che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in quanto i reati contestati, qualificati come appropriazione indebita di cui artt. art. 81,646 c.p. e art. 61 n. 11 c.p., sono estinti per intervenuta prescrizione.
Il ricorso deve essere rigettato nel resto e devono essere confermate le statuizioni civili.
P.Q.M.
Qualificata la condotta contestata come appropriazione indebita aggravata prevista dagli artt. 646 e 61 n. 11 c.p., dichiara il reato estinto per intervenuta prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso e conferma le statuizioni civili.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023