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Appropriazione indebita: sui rapporti con il reato di bancarotta

Appropriazione indebita

Cassazione penale sez. V, 08/02/2019, n.13399

In tema di reati fallimentari, il delitto di truffa avente ad oggetto il conseguimento di finanziamenti bancari mediante falsificazione dei bilanci e di altra documentazione relativa alla situazione economico-patrimoniale di una società non assorbe la condotta di bancarotta successivamente realizzata dal medesimo imputato attraverso la sottrazione al ceto creditorio delle somme derivanti dall'anzidetta condotta illecita, trattandosi di fatti illeciti naturalisticamente differenziati. (In motivazione, la Corte ha precisato che il rapporto strutturale tra i reati in oggetto è diverso da quello ricorrente tra appropriazione indebita e bancarotta, nel quale si ravvisa un'ipotesi di continenza).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.Con l'ordinanza impugnata, emessa il 22 ottobre 2018, il Tribunale di Venezia - Sezione del riesame, ha, in parziale accoglimento del ricorso proposto da C.M. avverso l'ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Padova il 6 settembre 2018 nei confronti dell'indagato, nella qualità di amministratore di fatto di (OMISSIS) s.r.l., (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., dichiarate fallite, annullato il titolo cautelare quanto alle imputazioni di bancarotta oggetto di provvisoria incolpazione ai capi 5), 7) ed 8) della rubrica, sostituendo la misura con quella degli arresti domiciliari in ordine all'addebito di incendio doloso aggravato sub 6). 1.1. All'imputato sono stati contestati plurimi episodi di truffa in danno di istituti bancari, che avevano erogato finanziamenti alle predette società, poi fallite, alla stregua della falsa documentazione delle condizioni economiche e finanziarie delle predette, ed all'incendio doloso - finalizzato alla locupletazione del premio assicurativo - del capannone industriale in cui aveva sede (OMISSIS) s.r.l., in concorso con L.M., presentatosi quale consulente finanziario, ed ad altri dipendenti di siffatta società. 1.2. Il Tribunale del riesame ha ritenuto sussistente idonea provvista indiziaria quanto al reato di incendio, alla stregua della documentazione acquisita, delle intercettazioni telefoniche ed ambientali e dei tabulati che hanno consentito di ricostruire - oltre l'interesse - il ruolo degli agenti in concorso, e le esigenze cautelari, contenibili mediante l'applicazione al C. della misura degli arresti domiciliari. In riferimento ai fatti di bancarotta, il Tribunale ha, invece, ritenuto che dovessero ritenersi assorbiti nelle contestazioni di truffa, in presenza della distrazione di somme esclusivamente coincidenti con il profitto di tale reato, in mancanza di creditori diversi dagli istituti di credito che le avevano erogate. La qualificazione della dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità e le ricadute che siffatta ricostruzione dispiega sul nesso di derivazione causale e sull'elemento soggettivo del delitto di bancarotta, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, escludono - ad avviso del Tribunale - il concorso tra il delitto di cui all'art. 640 c.p. e la bancarotta per distrazione nei casi, quale quello in esame, di coincidenza tra il profitto illecito acquisito dalla società e la sottrazione del medesimo alla garanzia dei creditori eroganti, unici soggetti lesi da entrambe le fattispecie formalmente concorrenti. 2. Avverso la predetta ordinanza del Tribunale distrettuale di Venezia ricorre il Pubblico Ministero del Tribunale di Padova, deducendo, con unico motivo, inosservanza della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b), avendo il tribunale omesso di considerare la pluralità delle condotte illecite, ontologicamente diverse e cronologicamente successive, che realizzano lesione di diversi beni giuridici, in violazione dei criteri ermeneutici enunciati dalla giurisprudenza di legittimità ed alla stregua della erronea applicazione al diverso caso in esame del principio di diritto espresso nella sentenza di questa Sezione n. 25651 del 2018 che, facendo applicazione del divieto di bis in idem come declinato dalla Corte costituzionale, ha escluso il concorso tra i reati di appropriazione indebita, oggetto di sentenza irrevocabile, e di bancarotta fraudolenta per distrazione aventi ad oggetto il medesimo bene materiale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. La questione posta con il ricorso investe, essenzialmente, il rapporto tra il reato di truffa e la distrazione, una volta dichiarato il fallimento, delle utilità conseguite attraverso l'artificiosa prospettazione delle condizioni, patrimoniali e finanziarie, della società beneficiata, alla luce del divieto di cui all'art. 649 c.p., nella lettura costituzionalmente conforme offerta dalla Consulta con la sentenza n. 200 del 2016 e della valutazione strutturale del reato di cui all'art. 216 L. Fall., declinata dalla giurisprudenza di legittimità nella sua massima espressione nomofilattica. 2.1. Alla disamina della questione, va premesso come le società possano costituire il mero strumento per operare sul mercato con un'apparenza di regolarità, dietro il cui schermo eseguire condotte truffaldine, finalizzate all'acquisizione di finanziamenti poi deviati a beneficio di terzi. 2.1. La giurisprudenza di questa Corte riconosce, difatti, la possibilità di ravvisare il delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di truffa nella predisposizione da parte dei coimputati di un programma criminoso diretto alla commissione di un numero indeterminato di delitti contro il patrimonio e alla consecutiva distrazione dei beni di un'impresa commerciale, nel cui nome gli associati abbiano compiuto attività contrattuale, finalizzata a realizzare i reati fine avuti di mira dal sodalizio (Sez. 5, n. 31149 del 05/05/2009, Occioni e altro, Rv. 244486; Sez. 5, n. 78 del 21/11/2003 - dep. 2004, Perrone, Rv. 227372). In tal senso, si è precisato che per tale configurabilità è sufficiente la strumentalizzazione di un organismo imprenditoriale, pur dedito a finalità lecita, anche a prescindere all'apposita creazione o dalla preesistenza della stessa alla ideazione criminosa e, nella stessa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ammette che possano essere oggetto di distrazione anche quei beni acquisiti a seguito di attività criminale (Sez. 5, n. 8373 del 27/09/2013 - dep. 21/02/2014, Mancinelli, Rv. 259041; Sez. 5, n. 23318 del 17/03/2004, Spartà, Rv. 228863). Nella delineata prospettiva, è stata sottolineata la profonda divergenza, anche sul piano strutturale, delle condotte materiali, in punto di declinazione dell'iter criminoso, in quanto l'impresa criminale finalizzata alla realizzazione di truffe si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'impresa decotta, mentre la distrazione degli stessi beni, suscettibile di integrare la bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1, è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere (Sez. 5, n. 8373 del 2013, Mancinelli, Rv. 259041, cit.). 2.2. Secondo il consolidato orientamento ermeneutico di questa Corte, in tema di reati fallimentari, la provenienza illecita dei beni non esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacchè per beni del fallito L. Fall., ex art. 216, si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto, rientrandovi, pertanto, anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa, in quanto l'iter criminoso di quest'ultima si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'imprenditore decotto, mentre la sottrazione bancarottiera degli stessi beni a quest'ultimo è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere" (Sez. 5, n. 45332 del 09/10/2009, Rapisarda, Rv. 245156; Sez. 5, n. 44159 del 20/11/2008, Bausone ed altri, Rv. 241692; Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo e altri, Rv. 229908; Sez. 5, n. 12068 del 08/10/1991, Geraci, Rv. 188680). Siffatti principi sono stati, recentemente riaffermati da questa Corte, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei (Sez. 5, n. 53399 del 30/05/2018, R., Rv. 274146, N. 23318 del 2004, N. 23318 del 2004, N. 8373 del 2014, N. 8373 del 2014, N. 7814 del 1999, N. 7814 del 1999, N. 44159 del 2008, N. 44159 del 2008, N. 45332 del 2009, N. 45332 del 2009, N. 22872 del 2003, N. 22872 del 2003). Alla base di siffatta impostazione sono state ancora poste - come rilevato - le strutturali differenze delle condotte di distrazione rispetto alla presupposta fase acquisitiva dei proventi illeciti, che si pongono su di un piano cronologicamente distinto e progressivo nonchè logicamente (con)sequenziale, precludendo, in tal guisa, la unitaria riconduzione delle fattispecie all'idem factum. 3. L'ulteriore riflessione che il ricorso impone di affinare investe la ricaduta, su siffatta impostazione, della preclusione derivante dall'applicazione del principio del ne bis in idem, come (re)interpretato nella sua portata convenzionale e costituzionale. 3.1. Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 31/5/2016, ha statuito l'illegittimità costituzionalmente, per violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e iniziato il nuovo procedimento penale. Nella delineata prospettiva, la Consulta ha escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 c.p., per il quale "l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto". La giurisprudenza della Corte EDU porta solo ad affermare - ha precisato la Corte Costituzionale - che, per i giudici di Strasburgo, la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie. Non v'è nessuna ragione logica - ha però precisato la Corte Costituzionale - per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente". 3.2. Parimenti - ha proseguito la Corte Costituzionale - nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'idem factum, da condurre attraverso l'esame della sola condotta. Anzi, la lettura delle varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che consente la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) rende palese che, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente. 3.3. Al contrario - ha concluso la Corte Costituzionale - sono costituzionalmente corretti gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005, P.G. in proc. Donati, Rv 231799). Tanto a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicchè anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In tal modo, è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all'art. 649 c.p.p., senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale, e si evita che la valutazione comparativa - cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio - sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati. 3.4. Del resto, ad una valutazione sostanzialistica dell'idem factum questa Corte si è già conformata, affermando come ai fini della preclusione del "ne bis in idem", l'identità del fatto debba essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato (Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti, Rv. 268502, N. 459 del 1997 Rv. 207729, N. 31446 del 2008 Rv. 240895, N. 4103 del 2013 Rv. 255078, N. 18376 del 2013 Rv. 255837, N. 32352 del 2014 Rv. 261937, N. 52215 del 2014 Rv. 261364, N. 19712 del 2015 Rv. 263543), al fine di presidiare, secondo effettività, le garanzie che la predetta norma è intesa a tutelare. 4. La valutazione sostanzialistica dell'idem factum deve procedere tenendo conto dei rapporti di interferenza strutturale tra i reati. 4.1. Nel delineato contesto, in tema di valutazione comparativa, in concreto, delle fattispecie coinvolte in una verifica in termini di idem factum, è stato innovativamente ritenuto come, alla luce dei principi sovranazionali recepiti dalla Consulta, il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisca, in ragione del divieto di "bis in idem", di giudicare l'imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, non è quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso (Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468). E' stato, in tal senso, sottolineato come la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p., e come gli elementi normativi descrittivi della bancarotta siano diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacchè nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (Sez. 5, n. 37298 del 9/7/2010, Lombardo, Rv 248640; Sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, Rv 241887; Sez. 5, n. 37567 del 4/4/2003, Rv 228297); pur tuttavia, anche ammessa la ricorrenza di una ipotesi di concorso formale di reati (comunque esclusa dalla sentenza n. 37298/2010 richiamata), la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è stata ritenuta - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale sopra richiamata - condizionata alla possibilità di riconoscere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Si è, quindi, ritenuto come "la problematica posta dall'impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta alla stregua dei criteri enunciati... secondo cui un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perchè con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici. Il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione". Alla luce di siffatta impostazione, è stata sottoposta a "prova di resistenza" anche la più recente giurisprudenza di legittimità, in quanto "essa fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perchè la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "attualizza" l'offesa insita nell'appropriazione. Occorre considerare, però, che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente; perciò, anche se nel "fatto" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perchè possano essergli addebitati. La dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perchè consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicchè non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "fatto", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva". E' stata, perciò, richiamata la recente giurisprudenza di questa sezione (cfr. Sez, 5, n. 13910 del 9/2/2017, rv 269388 e 269389, nonchè, sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, Cragnotti, n. m.), che, sviluppando consequenzialmente le premesse poste da S.U., n. 22474 del 27/9/2016, Passarelli, ha ritenuto che nella bancarotta la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata alla dichiarazione di fallimento, concludendo che "se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 c.p., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice; nel caso di assoluzione, non si vede come la medesima condotta potrebbe essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante". Di talchè si è concluso come "Depurata...di questo elemento (id est, la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicchè non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta di una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "fatto", perchè attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem". Escluso il profilarsi situazioni da cui dedurre che la bancarotta rappresentasse, in concreto, un fatto diverso dal reato per cui vi era stata pronuncia passata in giudicato, nel caso in disamina la Corte ha escluso che l'imputato potesse essere nuovamente sottoposto a procedimento penale, esplorando anche il tema dei limiti del giudicato parziale in riferimento al reato complesso ed escludendo, anche sotto tale profilo, che ci si trovasse al cospetto di fatti diversi, in quanto "l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicchè su di esso si era formato il giudicato". 5. I principi richiamati, ai quali ha affermato di essersi conformato il Tribunale di Venezia, non dispiegano rilevanza nella disamina della fattispecie sottoposta all'odierno esame della Corte. 5.1. Agli indagati è contestata la distrazione, ai sensi della L. Fall., art. 223, art. 216, comma 1, n. 1 (capi 5 e 8) e n. 2 (capo 7) di ingenti somme di denaro, erogate alle società fallite mediante induzione in errore degli istituti di credito che avevano disposto finanziamenti all'esito di istruttorie viziate dalla falsa prospettazione e documentazione della situazione economico-patrimoniale delle società beneficiarie, utilizzate - secondo la prospettazione accusatoria per drenare liquidità e stornarla, anche attraverso società estere, in favore degli indagati. Procedendo secondo il metodo di verifica sostanziale, costituzionalmente orientato, dei rapporti di interferenza tra le fattispecie, tutte contestualmente ipotizzate nell'ambito del presente procedimento, la provvisoria incolpazione delinea un complessivo scenario fattuale, articolato in due fasi: nella prima, si contesta la erogazione di finanziamenti bancari indotti dalla falsa documentazione della situazione delle società riferibili all'indagato o dalla utilizzazione di documenti mendaci, acquisti mediante accreditamento nelle casse sociali; siffatte risorse, sottoposte ipso iure al vincolo di destinazione di cui all'art. 2740 c.c. nel momento stesso in cui sono state accreditate sui conti sociali, sono state successivamente prelevate e destinate a fini extrasociali, in violazione della garanzia patrimoniale generica. Si tratta, dunque, di condotte non solo ontologicamente distinte, l'evento dell'una (conseguimento di ingiusto profitto con danno delle banche erogatrici tratte in errore) costituendo il prius logico e temporalmente antecedente della posteriore consumazione dell'altra, ma che esprimono, nel loro complesso, l'intenzionalità dello stesso fallimento. La utilizzazione di schermi societari finalizzati a conseguire ingiuste utilità, apparentemente in favore delle medesime imprese ed invece, successivamente, deviate onde consentire un'illecita locupletazione personale esprime ex se l'orientamento della condotta al dissesto, inevitabile (e dunque previsto) e del tutto coerente (e pertanto voluto) rispetto al mero abuso degli enti economici interposti. Di guisa che la dichiarazione di fallimento delle società beneficiarie ha non solo reso punibile una condotta, compiuta in violazione dei doveri dell'imprenditore che, in assenza della predetta dichiarazione, avrebbe costituito post factum rispetto all'apprensione dell'ingiusto profitto e, come tale, sarebbe rimasta assorbita nell'evento del reato di cui all'art. 640 c.p., ma è rientrata nello spettro delle conseguenze previste e volute. Nella fattispecie in disamina, pertanto, non assume rilievo la natura giuridica della dichiarazione di fallimento, e l'appartenenza della medesima all'elemento soggettivo dell'agente ed alla derivazione causale del dissesto, rilevando invece, in concreto, uno specifico ed ulteriore evento fallimentare. Con la dichiarazione di fallimento, si è attualizzato il pericolo che l'inadempimento degli obblighi che, su diversi piani, incombono sull'imprenditore, è inteso a scongiurare, sottraendo - nella specie - alla garanzia dei creditori tutti, compreso l'Erario ed i dipendenti, i beni sociali. Diversa la condotta, nella truffa consistente nell'induzione in errore determinante l'atto dispositivo e, nella bancarotta per distrazione, nel prelievo per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall'entità dell'indebita prestazione erogata) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per il creditore (conformazione del credito secondo la partecipazione al riparto, secondo le regole della concorsualità), oltre al nocumento dell'affidabilità dei terzi. Di guisa che tra i diversi fatti, contestualmente valutati nella presente fase cautelare, potrà sussistere un vincolo rilevante ex art. 81 cpv. c.p., in presenza di reati distinti, che trovano una riconduzione unitaria solo in una previa ideazione strumentale e teleologicamente orientata. 5.2. Alla verifica strutturale accennata deve poi aggiungersi - sempre nel solco della valutazione sostanzialistica dell'idem factum - come la complessiva contestazione provvisoria declina ulteriori fattispecie fallimentari, allo stato non contestate, riconducibili alle previsioni incriminatrici di cui all'art. 223, comma 2. La falsa prospettazione della affidabilità delle società coinvolte è stata asseverata - alla stregua delle imputazioni, dell'ordinanza impugnata e del ricorso - mediante produzione di bilanci falsi, con conseguente autonoma rilevanza del nesso di derivazione causale, posto che in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, la nuova formulazione della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, introdotta dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, art. 4, si caratterizza per l'introduzione di un elemento totalmente nuovo, rappresentato dal rapporto di causalità tra il falso in bilancio (o le altre ipotesi di reato societario richiamate dalla nuova disposizione) ed il dissesto della società, che conferisce alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto diverso rispetto alla precedente (Sez. 1, n. 40159 del 16/10/2002, Bencivelli, Rv. 223407) e, all'evidenza, rispetto al reato di truffa consumato mediante utilizzazione degli stessi bilanci. L'ipotizzata creazione delle società al solo scopo di istituire imprese criminali a fini di illecita locupletazione consente, altresì, di qualificare il fallimento delle società come risultato di operazioni dolose ai sensi della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, con configurazione di una fattispecie che si caratterizza per la commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini, Rv. 261684, N. 17408 del 2014 Rv. 259998, N. 29586 del 2014 Rv. 260492); ipotesi, questa, che si sostanzia in un'eccezionale fattispecie a sfondo preterintenzionale, che richiede la dimostrazione della consapevolezza e volontà dell'amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonchè dell'astratta prevedibilità dell'evento di dissesto quale effetto dell'azione antidoverosa (Sez. 5, n. 38728 del 03/04/2014, Rampino, Rv. 262207 N. 17690 del 2010 Rv. 247315). Fattispecie, queste, ricostruibili alla stregua della verifica sostanzialistica del fatto che, nella fluidità dell'imputazione della presente fase cautelare, concorrono a definire la condotta distrattiva, con la quale possono concorrerre. I reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (L. Fall., art. 216 e art. 223, comma 1) e quello di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività - nè si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili - ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta L. Fall., ex art. 216, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali - concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società - siano stati causa del fallimento (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016 - dep.2017, Zaccaria, Rv. 269019, N. 17978 del 2010 Rv. 247247, N. 24051 del 2014 Rv. 260142). 6. La decisione del Tribunale della libertà di Venezia non appare in linea con gli enunciati principi. 6.1. L'ordinanza impugnata ha adottato un'interpretazione generalizzante dei principi espressi - previa specifica validazione del metodi di verifica sostanzialistica al peculiare caso disaminato - nella sentenza di questa Sezione n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468, omettendo di confrontarsi con la fattispecie in disamina, profondamente diversa da quella che ha dato luogo alla loro enunciazione. Il rapporto strutturale tra i reati di appropriazione indebita e truffa rispetto alla bancarotta per distrazione sono assolutamente diversi, ravvisandosi solo nel primo un problema di continenza tra fattispecie; nella sentenza citata, inoltre, si trattava di valutare la preclusione derivante dal giudicato (assolutorio) formatosi sulla stessa condotta, successivamente rivalutata in seguito al fallimento, laddove, invece, nel caso in disamina i fatti risultano contestualmente contestati, nella progressione logica e consequenziale descritta dalle imputazioni; nel caso richiamato era stata, esplicitamente, esclusa ogni rilevanza del fatto distrattivo rispetto ad operazioni dolose, rilevanti L. Fall., ex art. 223, comma 2, n. 2, mentre l'odierna contestazione pone, in fatto, il fallimento delle società civetta quale obiettivo della complessiva condotta fraudolenta ordita in danno delle banche, ma anche di tutti i creditori, compreso l'Erario; rilievo che rende - come già rilevato - non risolutiva, nel caso in disamina, la questione della natura giuridica del fallimento come condizione obiettiva di punibilità al fine della verificazione dell'idem factum. 6.2. Di guisa che i principi di diritto richiamati risultano applicati ad una fattispecie non pertinente, finendosi con il riassumere impropriamente nel solo disvalore del fatto previsto dall'art. 640 c.p. le più gravi forme di manifestazione del reato di bancarotta, realizzate mediante l'intenzionale abuso dello strumento societario per drenare, a fini personali, risorse ed utilità, con conseguenze pregiudizievoli del ceto creditorio nel suo complesso - che, allo stato, non può dirsi limitato ai soggetti economici danneggiati dal reato di truffa - e dell'intero sistema economico. 6.3. Deve, essere, pertanto affermato il principio di diritto per cui la contestazione del delitto di truffa, avente ad oggetto l'erogazione di finanziamenti bancari indotti mediante falsificazione dei bilanci e di altra documentazione relativa alla situazione economico-patrimoniale di una società non impedisce, in ragione del divieto di "bis in idem", di giudicare l'imputato per il delitto di bancarotta per distrazione, contestato nel medesimo procedimento, in relazione alle somme successivamente sottratte, in presenza di una condotta complessivamente dolosa che avvince in sè anche il fallimento delle società finanziate, trattandosi di fatti illeciti naturalisticamente differenziati. 7. L'ordinanza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio perchè il Tribunale proceda, nel rispetto dei principi enunciati, a nuovo esame. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Venezia per nuovo esame. Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2019. Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2019
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