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Autoriciclaggio: irrilevanza della data del reato presupposto per la configurabilità del reato

Autoriciclaggio

Cassazione penale sez. II, 07/12/2023, n.1309

Ai fini della configurabilità del delitto di autoriciclaggio, introdotto dall'art. 3 l. 15 dicembre 2014, n. 186, è irrilevante che le condotte illecite integranti il reato presupposto siano state poste in essere in epoca antecedente l'entrata in vigore della legge citata.

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La sentenza integrale

FATTI DI CAUSA 1. Da.Ro., Di.Ru., Er.Gi., Er.Pi., Me.Vi.Se. e Te.Ge. ricorrono, a mezzo dei rispettivi difensori, avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna del 15/03/2022 che, in parziale riforma della sentenza del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Ravenna, ha rideterminato per ciascun imputato le pene inflitte in ordine ai reati rispettivamente ascritti, riconosciuta a Me.Vi.Se. l'attenuante di cui all'art. 648-bis, comma 3, cod. pen. in equivalenza con l'aggravante di cui all'art. 648-bis, comma 2, cod. pen. 2. I motivi oggetto dei ricorsi, ai sensi dell'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 3. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Vincenzo Senatore, con requisitoria-memoria del 24/10/2023, ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi. RAGIONI DELLA DECISIONE Ricorso di Da.Ro. (art. 416 cod. pen., capo A) e artt. 110 cod. pen. e 8 D.Lgs. n. 74/2000, capo B)). 1. Con il primo motivo deduce l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale. La censura attiene alla configurabilità nei confronti della ricorrente del reato di cui all'art. 8 D.Lgs. n. 74/2000 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), sul rilievo che, all'interno della società, svolgeva mansioni di segretaria-dipendente, prive di quella peculiare posizione gestoria e di correlazione con la lesione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice che deve contraddistinguere il soggetto attivo del reato e chi ne risponde a livello concorsuale. Il motivo è inammissibile poiché del tutto generico, non confrontandosi la ricorrente con i plurimi elementi di prova, aventi carattere convergente ed individualizzante, in forza dei quali la Corte territoriale ha escluso che il ruolo rivestito dall'imputata fosse quello di una ignara segretaria che si è limitata a svolgere operazioni materiali di contabilità, su indicazioni di amministratori, di fatto o di diritto, della Ma. Vini s.r.l., costituendo invece la ricorrente, in forza dei molteplici e consapevoli contributi dalla stessa sistematicamente resi alla realizzazione del programma associativo, l'indispensabile anello di congiunzione tra i soggetti a cui erano riferibili le società direttamente coinvolte nella realizzazione dei reati fiscali oggetto del programma associativo (vedi pagg. 350351 e, in relazione al reato di cui all'art. 8 D.Lgs. n. 74/2000, pagg. 339-349 in cui viene decisamente smentita la tesi difensiva alla luce della natura dei contributi prestati a vantaggio della piena operatività del meccanismo fraudolento di tipo organizzato a cui hanno dato vita gli atri correi). 2. Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge con riferimento agli artt. 110 cod. pen. e 8 D.Lgs. n. 74/2000. Si lamenta l'assenza del dolo specifico in capo alla ricorrente, la quale non è stata mossa, né si è consapevolmente rappresentata la particolare destinazione finalistica connessa al rilascio della documentazione di comodo. La circostanza che l'imputata avesse assunto la veste di concorrente non consentiva di differenziare lo statuto del dolo con l'autore del reato, dovendo il dolo specifico essere ravvisato - in virtù della concezione monistica del reato consumato in concorso - per tutti i concorrenti. Il motivo è del tutto generico e/o manifestamente infondato. Anzitutto la censura muove da un errato presupposto di diritto, ossia che non sia ammissibile, nell'ambito dello statuto ordinario del concorso di persone nel reato, differenziare la tipologia del dolo che anima i concorrenti, allorché colui che compie l'azione tipica ovvero almeno uno degli altri concorrenti sia, invece, portatore di quello richiesto dalla norma violata. La tipicità concorsuale, infatti, è di tipo relativo: come non è necessario che ciascun concorrente compia l'azione tipica, parimenti non è richiesto che la particolare finalità presa in considerazione dalla legge penale sia perseguita da tutti i complici, purché sia comunque presente negli altri il dolo di concorso nella fattispecie delittuosa. Si tratta di una lettura non solo asseverata dalla dottrina, ma anche da orientamenti consolidati della Corte di legittimità, a mente dei quali "risponde di concorso ex art. 110 cod. pen. in un reato a dolo specifico (nella specie, ricettazione) anche il soggetto che apporti un contributo che non sia soggettivamente animato dalla particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice, a condizione che almeno uno degli altri concorrenti - non necessariamente l'esecutore materiale - agisca con tale intenzione e che della stessa il primo sia consapevole" (Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954 - 03). Inoltre, la ricorrente non si confronta con i plurimi argomenti spesi dalla sentenza impugnata che, nell'escludere la tesi difensiva dell'ignara segretaria, ha invece puntualmente indicato chiari elementi di diretto coinvolgimento dell'imputata, financo di adesione, alla finalità elusiva perseguita dai correi con le operazioni di emissione di fatture per operazioni inesistenti (vedi pagg. 339 e ss. tra cui è richiamato anche il contenuto delle intercettazioni) che danno conto della piena consapevolezza dell'imputata della natura delittuosa dei contributi resi. 3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge in relazione all'art. 416 cod. pen. Si deduce che gli elementi indiziari indicati dalla sentenza impugnata a corredo della condotta di partecipazione escludevano che la ricorrente avesse aderito al sodalizio "essendo stata costantemente collocata non su di una posizione paritaria, bensì di subordinazione gerarchica; non è socia e non è titolare di quote di partecipazione; non ha mai beneficiato dei proventi illeciti, non è stata mai preposta ad un settore specifico dell'attività sociale (ad es. alla gestione dei flussi finanziari)". Il motivo è aspecifico e/o manifestamente infondato: - è generico perché la ricorrente non si confronta con il rilievo che il giudice del merito ha assegnato ai contributi dalla stessa assicurati alla societas sceleris di cui è stata riconosciuta far parte e di cui gli altri concorrenti avevano piena contezza e su cui facevano affidamento; - è manifestamente infondato in quanto la condotta di partecipazione nel delitto di cui all'art. 416 cod. pen. è a forma libera, racchiudendo in sé ogni contributo, apprezzabile e concreto sul piano causale, all'esistenza e al rafforzamento dell'associazione, anche se l'attività espletata sia secondaria e di minima importanza (Sez. 3, n. 8024 del 25/01/2012, Di Giovanni, Rv. 252753 -01; Sez. 2, n. 5424 del 22/01/2010, Syndial, Rv. 246442 - 01; sulla natura del reato, v. Sez. 1, n. 2111 del 27/01/1986, Scala, Rv. 172146). L'assolvimento di ruoli a valenza "primaria" all'interno dell'associazione per delinquere configura, semmai, i ruoli qualificati di cui al comma terzo, ai quali il legislatore fa conseguire un aumento di pena in ragione del maggior disvalore della condotta. Ma si tratta di un profilo che non pertiene alla ricorrente alla quale è stato contestato il ruolo di partecipe. 4. Con il quarto motivo si deduce l'illegittimità della confisca, in quanto "la misura ablativa incide e cade sul profitto conseguente all'emissione delle fatture ideologicamente false; e poiché l'imputata non ha tratto alcun vantaggio ovvero utilità personale dall'emissione delle fatture incriminate, viene meno la ratio giustificatrice dell'aggressione del patrimonio". Il motivo è manifestamente infondato. Dalla lettura della sentenza impugnata, la quale nella premessa richiama il dispositivo di quella di primo grado, risulta che la confisca diretta del profitto del reato fiscale cade "sulle somme di denaro appostate nel sistema bancario e a qualsiasi titolo nella disponibilità della società "Ma. Vini s.r.l." fino alla complessiva concorrenza dell'importo indicato nel capo B) della rubrica quale profitto del reato e pari ad Euro 399.323,75 ovvero, in caso di incapienza totale o parziale, dell'importo corrispondente al profitto non recuperato mediante confisca per equivalente dei beni (mobili e/o immobili e/o somme di denaro, da individuare a cura del pubblico ministero nella successiva fase esecutiva) nella diretta disponibilità di Er.Pi., Er.Gi., Te.Ge., Di.Pa.Ru. e Da.Ro., fino alla concorrenza della medesima somma e tenendo conto, a tal fine, di quanto già eventualmente sequestrato a carico della società". Di conseguenza, nei confronti della ricorrente - giusto il disposto della seconda parte di cui al primo comma dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 - la confisca è destinata ad operare, in caso di incapienza della società cartiera, in forma equivalente, sui beni di cui il reo ha la disponibilità. L'evenienza che le somme di illecita provenienza siano state incamerate, in tutto o in parte, da altri concorrenti, non assume pertanto alcun rilievo, in quanto la Corte di legittimità ha costantemente affermato che è legittima la confisca per equivalente disposta per l'intera entità del prezzo o del profitto accertato nei confronti anche di un solo concorrente, indipendentemente dalla quota personalmente percepita, in quanto il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa in capo a ciascun concorrente e, quindi, solidarietà nella pena e nelle misure a carattere sanzionatorio, quale la confisca per equivalente (in applicazione del principio, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'indagato che assumeva fosse pacifico che egli non avesse ricevuto alcun profitto del reato di cui all'art.640-bis cod. pen.; Sez. 2, n. 22073 del 17/03/2023, Fiordigli, Rv. 284740 - 01; Sez. 2, n. 9102 del 24/11/2020, dep. 2021, Mottola, Rv. 280886 - 01). 5. In conclusione, il ricorso deve dichiararsi inammissibile. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186). Ricorsi di: Di.Ru., Er.Gi. e Te.Ge. (art. 416 cod. pen., capo A); artt. 110 cod. pen. e 8 D.Lgs. n. 74/2000, capo B); il primo ed il terzo artt. 110 e 512-bis cod. pen., capo E); Te.Ge. anche art. 512-bis cod. pen., capo F). 1. Con distinti ricorsi, i cui motivi sono sovrapponibili in quanto comuni, si deduce il vizio di motivazione in ordine all'esclusione delle circostanze attenuanti generiche. Si lamenta che la Corte d'appello non abbia preso in considerazione gli elementi indicati dalle difese a supporto della richiesta, quali il comportamento processuale degli imputati e la rinuncia ai motivi di appello in tema di responsabilità. I motivi sono aspecifici e/o manifestamente infondati. In tema di attenuanti generiche, la Corte di legittimità ha affermato che non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163 - 01; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244 - 01; Sez. 2, n. 23903 del 15/7/2020, Rv. 279549 - 01; Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Rv. 271269 - 01). Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale - la quale è pervenuta ad esiti sanzionatori più contenuti rispetto a quelli del primo giudice - ha indicato per ciascun ricorrente gli elementi di disvalore in forza dei quali ha escluso il riconoscimento delle attenuanti generiche: quanto all'imputato Terlizzi, v. pagg. 334 e 335; quanto agli altri due ricorrenti, vedi pagg. 335 e 336. Nessuna specifica doglianza è stata mossa con riguardo a tali ostativi profili, essendosi i ricorrenti limitati ad insistere reiterando la prospettazione avanzata dinanzi alla Corte d'appello, rendendo così la censura aspecifica. 2. In conclusione, i ricorsi devono dichiararsi inammissibili. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, della somma di Euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186). Ricorso di Er.Pi. (artt. 110 cod. pen. e 8 D.Lgs. n. 74/2000, capo B2), essendo stati oggetto di rinuncia i motivi relativi agli altri reati di cui ai capi A), B), E) ed F)). 1. Con il primo motivo deduce la "violazione degli artt. 438-442, comma 1-bis, cod. proc. pen., che prevedono l'utilizzabilità ai fini della decisione degli atti contenuti nel fascicolo processuale". Si lamenta la violazione di legge in relazione alla ritenuta inutilizzabilità dei documenti allegati alla memoria difensiva prodotta in sede di discussione nel giudizio abbreviato, sull'errato presupposto che provenissero dal diverso procedimento penale a carico di Er. Vi., figlio del ricorrente, nonché perché allegati alla memoria difensiva depositata in sede di discussione. Si deduce, invece, che la documentazione, volta a dimostrare la realità delle operazioni sottese all'emissione delle fatture da parte dell'azienda Pi. s.a.s. in favore della Me. Trading s.r.l. e, dunque, l'insussistenza del reato, fosse già presente nel fascicolo al momento della richiesta di ammissione al rito abbreviato del 23/03/2018 (il riferimento è alla consulenza tecnica del dott. Borrelli corredata da prove documentali che era stata unita all'istanza di revoca del sequestro di somme e quote a carico di Errico Vincenzo, titolare dell'azienda Pi. s.a.s., da cui emergerebbe la prova che le operazioni commerciali intrattenute tra le due società fossero esistenti). Il primo motivo è inammissibile per difetto di compiuta allegazione che dimostri l'errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel ritenere che i documenti, uniti dalla difesa alla memoria depositata in sede di discussione del rito abbreviato, non provenissero da altro procedimento. Al riguardo, infatti, si sono allegati al ricorso la consulenza di parte del dott. Borrelli, corredata di undici prove documentali, redatta nell'interesse del coimputato Errico Vincenzo per il quale si è proceduto separatamente, nonché copia dei provvedimenti di dissequestro in relazione al capo per cui si procede. I provvedimenti di dissequestro risalgono tutti ad epoca successiva all'ammissione al rito abbreviato (la prima udienza dinanzi al Gup nel corso della quale gli imputati sono stati ammessi al rito abbreviato è del 31/07/2018): il verbale di restituzione di quote societarie è del 20/09/2018; quello di restituzione di parte delle somme sequestrate è del 13/06/2019 e segue il decreto del pubblico ministero dell'11/06/2019. Pertanto, corretta sul punto è l'affermazione della sentenza impugnata che si tratta di atti necessariamente provenienti dal diverso procedimento penale nei confronti di Er. Vi., la cui posizione era stata precedentemente separata in quanto, a differenza della quasi totalità degli imputati, aveva scelto il rito ordinario. Né si è allegato che tali atti siano confluiti per "unione" a quelli del giudizio abbreviato, all'epoca ancora in corso di svolgimento (la sentenza è del 22/07/2019). Quanto, invece, alla consulenza di parte, l'allegazione difensiva dà conto che la stessa risulta spedita il 6/02/2018 all'Ufficio Gip del Tribunale di Ravenna, essendosi allegata copia della relativa raccomandata, con ricevuta di ritorno al legale interessato, ma non si è prodotta la copia dell'indice degli atti del fascicolo del Pubblico ministero che dà conto dell'avvenuto inserimento dell'atto nell'unitario fascicolo di indagine, posto che nella nota di spedizione si indica genericamente l'ufficio destinatario senza specificare il magistrato titolare del procedimento (peraltro la copia della consulenza è priva del relativo foglio di accompagno indirizzato al Gip) e l'annotazione ivi contenuta - che dovrebbe dimostrare il riferimento all'imputato "Rif. Er." - esterna al riquadro del destinatario e contrassegnata diversamente. Manca, poi, l'allegazione della memoria difensiva prodotta in sede di discussione davanti al Gup, da cui la Corte di legittimità possa trarre che la difesa allegò - al di là della data di redazione della consulenza - che si trattava di atto che, a differenza degli altri, non solo si era formato prima, ma introdotto precedentemente alla richiesta del rito nell'unico incarto processuale di indagine. Sullo specifico punto, infatti, l'appello è generico (vedi pag. 16 e ss. dell'impugnazione). Inoltre, dalla lettura dei provvedimenti allegati risulta che il dissequestro non fu relativo all'intera somma asseritamente evasa quale Iva non versata dalla società cartiera in conseguenza della fatturazione relativa alle operazioni inesistenti (vedi capo B2 dell'imputazione), residuando un importo comunque consistente (pari ad Euro 32.977,44 sulla maggior somma superiore ai novantamila Euro) sempre riferibile all'illecita causale. Con la conseguenza che la doglianza difensiva risulta anche generica in quanto non precisa la ricaduta che la prova di parte avrebbe avuto su tale differente esito e ferma restando la preclusione della Corte di legittimità di poter scrutinare l'ammissibilità del motivo di ricorso mediante una rilettura degli atti processuali, ricorrendo a valutazioni di competenza del giudice del merito. Infine, un ulteriore e decisivo profilo di inammissibilità della doglianza è costituito dal fatto che il ricorrente si limita genericamente a richiamare, ai fini della prospettata insussistenza del reato, gli esiti di consulenza, evidenziando alcuni dati formali dai quali dovrebbe ricavarsi ipso iure la realità delle prestazioni, senza svolgere una specifica disamina delle fonti di prova indicate dalla sentenza impugnata a corredo della contestata natura inesistente delle prestazioni sottese alle fatture emesse dalla società Azienda Pi. s.a.s., ritenuta coinvolta nell'ambito del disegno fraudolento congeniato dagli altri coimputati per il tramite della Me. Trading s.r.l. (vedi pagg. 327 ss. della sentenza impugnata). Né tale lacuna può ritenersi colmata dall'allegazione della consulenza, altrimenti demandandosi alla Corte di legittimità - mediante una rilettura non consentita delle emergenze processuali - una individuazione del profilo, peraltro di merito, sotteso alla doglianza svolta. 2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione di legge in relazione all'art. 99 cod. pen. La censura - per come integrata con la nota di udienza depositata dinanzi alla Corte di appello - attiene alla mancata esclusione della recidiva reiterata, lamentandosi la mancata valutazione da parte della Corte di appello della risalenza nel tempo dei precedenti annoverati dal ricorrente e dell'assenza di relazione fra quei reati e quelli contestati nel presente procedimento, oltre al fatto che molti risultavano depenalizzati per abolitio criminis e ben nove di essi risultano unificati dal vincolo della continuazione in executivis. Errato era pertanto aver fatto riferimento a ben 23 precedenti penali a carico. Il motivo è inammissibile. La sentenza impugnata, in ordine al diniego dell'esclusione della recidiva reiterata, risulta corredata da ampia e logica motivazione (pagine 338 e 339), essendo indicate le ragioni per le quali i reati contestati nel presente processo costituiscano manifestazione di rinnovata e specifica pericolosità dell'imputato. Né valenza decisiva assume ai fini della tenuta della motivazione la circostanza che alcune delle condanne attengano a violazioni delle norme sugli oli di oliva, successivamente depenalizzate, avendo la Corte territoriale fatto riferimento al dato dell'esistenza di ben 23 condanne per i reati di frode alimentare di cui agli artt. 515 e 516 cod. pen. (vicende nell'ambito delle quali si inseriscono anche le fattispecie depenalizzate che non determinano il venir meno del disvalore penale dei fatti in relazione ai connessi delitti), oltre ad un precedente specifico per un reato fiscale. La circostanza che successivamente molteplici delitti contro l'industria ed il commercio siano stati ritenuti in continuazione non sposta il giudizio di disvalore espresso dal giudice del merito, avendo la Corte richiamato il dato storico delle condanne al fine di evidenziare come i numerosi trascorsi giudiziari non abbiano affatto sopito quell'indole di "totale indifferenza ed avversione ai precetti penali, logicamente ritenuta sintomo quindi di un'accresciuta capacità a delinquere e pericolosità sociale dell'imputato, nonché di una persistente insensibilità all'effetto deterrente delle pene precedentemente inflitte"; con la conseguenza che la sentenza impugnata non solo sfugge alla denunciata violazione di legge risultando correttamente contestata la recidiva reiterata, ma anche al paventato vizio di motivazione sviluppato nel corpo della censura. 3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. La doglianza attiene al diniego delle circostanze attenuanti generiche - che il ricorrente aveva invocato con apposita nota di udienza - avendo la Corte omesso di motivare sul rilievo positivo attribuibile al comportamento processuale serbato dal ricorrente, il quale aveva rinunziato a gran parte dei motivi di appello in punto di responsabilità. Il motivo è inammissibile essendo state esplicitate dalla Corte di appello, in modo chiaro ed esaustivo, le ragioni per le quali l'imputato è stato ritenuto non meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche (vedi pagg. 334-336), con le quali il ricorrente omette di confrontarsi. Posto, infatti, che il giudice del merito può fondare il diniego facendo riferimento agli elementi ostativi ritenuti decisivi o comunque rilevanti, il ricorrente era comunque tenuto a confrontarsi con le argomentazioni addotte, al fine, poi, di dimostrare la decisività del dedotto vizio di mancanza di motivazione in ordine al rilievo della rinunzia operata. 4. In conclusione il ricorso deve dichiararsi inammissibile. Consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186). Ricorso di Me.Vi.Se. (reato associativo, capo A); violazioni finanziarie, capo C); riciclaggio, capo D); trasferimento fraudolento di valori, capo G); autoriciclaggio, capo H); usura, capo I)). 1. Con il primo motivo deduce l'inosservanza degli artt. 191, comma 1 e 2,442, comma 1-bis, cod. proc. pen., con riferimento al rigetto dell'eccezione di inutilizzabilità delle relazioni redatte dall'amministratore giudiziario dr. Reverberi che la Corte di merito aveva disatteso facendo riferimento a diversi profili di inammissibilità e/o infondatezza. In particolare: - illegittima era la declaratoria di inammissibilità del motivo di appello con cui la difesa aveva eccepito l'inutilizzabilità della consulenza, che la Corte di merito aveva fondato sul rilievo che non sarebbero stati indicati i capi e i punti della sentenza in cui sarebbe stata utilizzata la relazione, violandosi così il disposto degli artt. 581 lett. a) e 591, comma 1, cod. proc. pen.; si precisa che l'eccezione era riferita alla fonte di prova in generale e non, invece, per come ritenuto dalla Corte territoriale, alla specificità del relativo capo o punto della decisione cui la doglianza farebbe riferimento; - inconferente era il richiamo all'art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen., trattandosi di disposizione che fa esclusivo riferimento agli atti contenuti nel fascicolo, tra cui non rientrano le relazioni dell'amministratore giudiziario; - inconferente era il rilievo che la difesa avrebbe dovuto impugnare l'ordinanza di ammissione del rito, la quale aveva dato atto che una relazione dell'amministratore era già in atti, posto che l'eccezione di inutilizzabilità riguardava relazioni mai legittimamente acquisite; - errata era l'indicazione per sezione ed oggetto del precedente di legittimità ("Sez. II n. 486/2019") a cui la sentenza impugnata aveva fatto riferimento ai fini del rigetto dell'eccezione. Il motivo è inammissibile poiché generico. Parte ricorrente omette, infatti, di specificare la rilevanza probatoria dell'atto del quale si denunzia l'inutilizzabilità sia rispetto alle altre fonti di prova sia riguardo alle plurime imputazioni in relazione alle quali è stata affermata la responsabilità dell'imputato (capi A, C, D, G, H, I della rubrica), talché possa inferirsene la decisività con riguardo al provvedimento impugnato. La Corte di legittimità ha, infatti, al riguardo affermato che: - in tema di ricorso per cassazione, è affetta da genericità la censura con la quale la parte eccepisce l'inutilizzabilità di un atto, senza dedurne, al tempo stesso, la rilevanza probatoria, nel contesto degli altri elementi di prova. (Fattispecie nella quale la difesa dell'imputato si è limitata a sostenere la inutilizzabilità di uno tra i molti verbali di interrogatorio, resi da un collaboratore di giustizia, Sez. 6, n. 159 del 18/10/2000, dep. 2001, Rv. 219617 - 01; in termini, Sez. 3, n. 37111 dell'8/06/2023, Bianchi, in motivazione pag. 7; Sez. 6, n. 15839 del 20712/2018, dep. 2019, Viviano, in motivazione a pag. 9; Sez. 4, n. 41816 del 20/05/2014, Esposito, in motivazione a pag. 1); - nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve, infatti, illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218 - 01). 2. Con il secondo motivo si lamenta l'inosservanza dell'art. 416 cod. pen., in relazione agli elementi costitutivi dell'associazione per delinquere e al riconoscimento in capo al ricorrente della qualità di promotore ed organizzatore. Richiamati gli elementi distintivi tra concorso necessario ed eventuale e gli orientamenti espressi dalla Corte di legittimità in materia, si lamenta che la motivazione non si è soffermata sui caratteri che distinguono l'associazione per delinquere dal concorso eventuale di persone nel reato, richiamando genericamente a sostegno la ripetitività e la continuità nel tempo delle condotte delittuose ascritte quali reati fine (si fa riferimento ai reati fiscali e a quello di riciclaggio), omettendo di considerare che continuità e permanenza sono connotazioni che attengono proprio alle modalità di realizzazione di quei reati satelliti. Lo stesso "aspetto personologico" non sembrava sostenere l'ipotesi associativa, in quanto l'unico referente costante dell'imputato era Er.Pi., salvo il tramite telefonico della Da.Ro. e quello occasionale di Er.Gi. In via subordinata, si evidenzia come l'eventuale struttura associativa escluda in concreto la presenza di promotori ed organizzatori che non può essere ricavata dall'incontro di due volontà (Er.Pi. e Me.Vi.Se.) finalizzate alla commissione di reati fiscali mediante le società di rispettivo riferimento. Il motivo, sotto entrambi i profili dedotti, è inammissibile perché aspecifico e meramente reiterativo del motivo di appello (v. punti 7.1 e 7.2 pagg. 158-159 della sentenza impugnata). Parte ricorrente non ha formulato alcuna deduzione in relazione alla rilevata inammissibilità dell'appello per mancata enucleazione in maniera specifica della parte di motivazione della sentenza di primo grado (da pag. 239 a pag. 256) che con l'atto di appello la difesa intendeva censurare, precisando i motivi di dissenso dalla decisione appellata (vedi pag. 266 della sentenza impugnata). L'assenza di impugnazione rispetto a tale preliminare declaratoria consente di rilevare la mancanza di confronto con la sentenza impugnata. Peraltro, come si evince dalla lettura dei paragrafi 7.1.2, 7.1.3 e 7.2 della sentenza impugnata (pagg. 267-274), la Corte d'appello si è ampiamente diffusa nell'individuazione degli elementi costitutivi dell'associazione e sul ruolo di promotore ascritto al ricorrente; il ricorso, reiterando il motivo di appello, si limita a richiamare principi giurisprudenziali sul tema della distinzione del reato associativo rispetto al concorso di persone nel reato continuato, senza segnalare in concreto alcun passaggio specifico dal quale evincere che il collegio distrettuale abbia disatteso il testo normativo. 3. Con il terzo motivo si lamenta, in relazione al reato di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 (capo C, evasione fiscale commessa avvalendosi di fatture emesse dalla società Vinicola Ma. a r.l. a fronte di operazioni inesistenti), il vizio di motivazione con particolare riguardo alla ritenuta inoperatività e natura di società di comodo della Vinicola Ma. s.r.l. e della fittizietà delle forniture rese in favore della Me. Trading "in relazione all'art. 606 I comma lett. c del c.p.p.". Il motivo è inammissibile e/o manifestamente infondato. Preliminarmente deve osservarsi che il vizio di motivazione in relazione alla rilevata inoperatività della Vinicola Ma. s.r.l. e della natura fittizia delle operazioni alla medesima riconducibili, viene ricondotto all'ipotesi di violazione della legge processuale ex art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., così determinandosi una incertezza sull'inquadramento della censura destinata ad incidere negativamente sulla richiesta specificità (sul punto, vedi anche protocollo d'intesa del 18/12/2015 tra la Corte di cassazione e il CNF sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale, pagg. 4 e 5). In ogni caso, le censure mosse risultano riproduttive di profili già svolti con l'atto di appello e adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dalla sentenza impugnata, la quale ha affermato la natura fittizia delle operazioni commerciali oggetto delle fatture emesse, sulla base del complesso degli elementi indicati nei paragrafi 2,1.4, 2.1.5, 2.1.6, 2.1.7 della impugnata sentenza (da pagina 208 a pagina 216), con considerazioni lineari e pienamente confortate dalle risultanze istruttorie puntualmente richiamate nel testo. In particolare, la Corte di merito ha affermato l'inesistenza oggettiva delle operazioni, con ciò escludendo l'ipotesi alternativa di trovarsi al cospetto di operazioni solo soggettivamente inesistenti ovvero di una mera sovrafatturazione (per come affermato dallo stesso ricorrente), attraverso il puntuale richiamo alla molteplicità delle fonti di prova acquisite, costituite non solo dagli esiti contabili e di relazione dell'amministratore giudiziario sulle reali condizioni della Ma. Vini s.r.l., unite alle note dei verbalizzanti, ma anche dal contenuto di intercettazioni tra i diversi coimputati e financo del ricorrente con gli autotrasportatori, da cui emerge la natura fittizia delle forniture e la consapevole predisposizione di un apposito schema a ciò deputato, al fine di consentire alla Me. Trading s.r.l. di evadere le imposte per l'annualità in contestazione (pagg. 203-222). Ciò ha consentito di affermare di trovarsi al cospetto di una contabilità del tutto inattendibile e, dunque, di svalutare il dato formale a cui le difese hanno fatto riferimento, anche mediante il richiamo dell'elaborato del rispettivo c.t., ritenuto di per sé non attendibile stante la mancata allegazione dei documenti utilizzati a sostegno e l'assenza di un confronto con i dati extra contabili acquisiti. Si è assegnata coerentemente prevalenza al dato sostanziale per come emergeva dalle intercettazioni e dalle plurime anomalie che hanno investito, in punto di effettiva consistenza, la persona giuridica deputata ad effettuare le prestazioni e coloro che si sarebbero occupati del trasporto della merce, scientemente coinvolti nel favorire il meccanismo fraudolento contestato, così rendendosi priva di rilievo anche l'affermazione volta ad escludere la fittizietà delle ipotesi di triangolazione di parte del prodotto vinoso pur riproposte nell'odierno motivo di ricorso. Parimenti è a dirsi riguardo la valenza che dovrebbe riconoscersi all'esistenza, nel periodo in contestazione, di altre forniture rese in favore di altre aziende che mal si concilierebbero con l'inesistenza della persona giuridica ovvero alla valenza dimostrativa che andrebbe riconosciuta ai documenti di trasporto utilizzati per "scortare" la merce della società Ma. Vini allo stabilimento della Me. Trading s.r.l. Si tratta, infatti, di censure che risultano essere state specificamente passate in rassegna dalla sentenza impugnata che ne ha motivatamente disatteso il rilievo difensivo evidenziandone la carenza dimostrativa sulla base dell'assenza dei necessari elementi sostanziali di indispensabile sostegno (vedi rispettivamente pagg. 204 e 215). Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riguardo al censurato rilievo che la Corte territoriale ha attribuito ai contenuti di un'intercettazione telefonica ed alla condizione personale del legale rappresentante della società Da. Mosti s.r.l., quali elementi indicatori della natura fittizia delle operazioni riconducibili alla vinicola Ma. Il ragionamento svolto sul punto all'interno della sentenza impugnata - che fa riferimento a dati fortemente indiziari - è logico e chiaro, come si evince dalla lettura del paragrafo 2, e, soprattutto, si sovrappone alle considerazioni di analogo tenore svolte dal Gup. In conclusione, le deduzioni difensive - che si avvalgono di diffusi richiami a prospettati alternativi elementi di merito non scrutinagli in questa sede - non si appalesano idonee a disarticolare l'unitaria motivazione che si trae dalla lettura delle due decisioni di merito sul tema della fittizietà e della inoperatività della Ma. Vini s.r.l., quale presupposto della configurabilità del delitto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000. 4. Con il quarto motivo, sempre relativo al capo C) della rubrica (art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, evasione fiscale commessa avvalendosi di fatture emesse dalla società Vinicola Ma. a r.l. a fronte di operazioni inesistenti), si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2 D.Lgs. n. 74/2000, 8, commi 1, 2, 3 del D.L. n. 16/2012, conv. con modif. nella I. n. 44/2012. La difesa si duole dell'affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui la inesistenza soggettiva delle fatture rileverebbe anche rispetto alle imposte dirette in relazione alla configurabilità del delitto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000; sul punto si segnala che tal statuizione si porrebbe in contrasto con gli indirizzi della giurisprudenza di legittimità che limitano la rilevanza in sede penale della inesistenza soggettiva esclusivamente ai fini della evasione dell'Iva e non delle imposte dirette. Errata sarebbe l'affermazione secondo cui, nel caso di fatture soggettivamente inesistenti, il mancato rispetto del principio cardine della inerenza del costo escluderebbe la rilevanza fiscale di tali situazioni, dal momento che proprio il principio di inerenza, che regola la formazione del reddito di impresa, ammette la deducibilità dei costi originati da fatture soggettivamente inesistenti. A conferma del rilievo del motivo dedotto, si evidenzia che sia stata accertata, all'atto dell'inizio dell'incarico dell'amministratore giudiziario, giacenza di vino nei magazzini della società; l'acquisto di tali partite ha rappresentato un costo per la società Me. Trading s.r.l., inerente all'esercizio della sua attività imprenditoriale, per essere detto compendio destinato alla vendita, realizzando, con ciò, dei ricavi fiscalmente rilevanti. Pertanto, si sottolinea, se tali partite non erano provenienti dalla vinicola Ma., essendo state commercializzate da altre cantine che hanno fornito la Me. del quantitativo di merce, la situazione rappresentata era riconducibile nell'alveo della fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti. Il motivo è inammissibile poiché anzitutto formulato secondo direttrici che mirano ad una non consentita rilettura degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio di merito. È, altresì, manifestamente infondato. Sul punto va, infatti, precisato che la doglianza è stata trattata dalla Corte di merito quale ipotesi subordinata a quella principale asseverata dalle sentenze di merito che sono concordemente pervenute ad un'affermazione di oggettiva inesistenza delle prestazioni rese dalla Ma. Vini s.r.l. per l'anno 2016 (vedi pag. 201). Peraltro, costituisce affermazione condivisa nella giurisprudenza di legittimità che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell'ipotesi di inesistenza oggettiva dell'operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l'operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitative, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, Moiseev, Rv. 278378 - 01; Sez. 5, n. 43778 del 21/09/2023, Carnemolla, in motivazione pag. 6; Sez. 3, n. 37111 dell'8/06/2023, Bianchi, in motivazione pag. 8; Sez. 7, ord. n. 2807 del 2/12/2022, dep. 2023, Bertelli). Del resto, la lett. a) dell'art. 1, D.Lgs. n. 74/2000, norma definitoria di matrice penale, classifica tre ipotesi di falsificazione collegate al genus delle operazioni inesistenti indicando quelle: i) non realmente effettuate in tutto o in parte (oggettivamente inesistenti); ii) che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale (ipotesi di sovrafatturazione); iii) che riferiscono l'operazione a soggetti in tutto o in parte diversi da quelli effettivi (soggettivamente inesistenti) (cfr. Sez. 3, n. 26051 del 6/5/2022, in motivazione). 5. Con il quinto motivo, si lamenta l'inosservanza dell'art. 648-ó/s cod. pen. ed il vizio di motivazione (capo D, della rubrica) in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di riciclaggio. Si contesta che l'imputato, tenuto conto "della reale dinamica delle operazioni e dei trasferimenti di denaro e dalla strumentalità della prima rispetto al secondo", non abbia realizzato alcun "money laundering" del denaro asseritamente di provenienza illecita, essendo l'operazione idonea a garantire l'evasione fiscale costruita in maniera opposta alla tipicità del riciclaggio, con la palese inversione del percorso del denaro. Nel caso di specie la "simulazione" andava ravvisata nel documento fattura - emessa da colui che riceve in pagamento il denaro di derivazione illecita - quale giustificazione lecita del trasferimento o sostituzione di denaro ed è soltanto attraverso questa che si realizza l'effetto dissimulatorio. Nella sostanza, il denaro compie il tragitto inverso rispetto a quello che il riciclaggio avrebbe richiesto. Le fatture avrebbero legittimato il trasferimento del denaro di provenienza illecita dMe.Vi.Se. ai coimputati, ma non da quest'ultimi Me.Vi.Se., perché quest'ultimo avviene senza alcuno schermo idoneo a garantire la lecito-vestizione. Il motivo è infondato. Anzitutto alla censura svolta, per come evidenziato dal P.G. nella memoria in atti, può muoversi un rilievo di inammissibilità posto che le considerazioni difensive fanno leva su una ricostruzione alternativa dei fatti, secondo cui Me.Vi.Se. non riceveva il denaro per poi procedere ad un bonifico ed attendere la fattura, bensì egli riceveva la fattura, effettuava il bonifico della somma indicata e successivamente riceveva denaro in contanti. Si tratta di un argomento di merito che non può essere oggetto di valutazione in questa sede; di contro deve osservarsi che la ricostruzione delle condotte e, dunque, la valutazione del compendio probatorio risulta conformemente avvenuta nelle sentenze rese all'esito dei due gradi di giudizio e che la difesa espone una tesi alternativa senza far riferimento al travisamento di ben individuati atti istruttori. Peraltro, non può neppure condividersi la prospettazione difensiva. Nel caso in esame, è certo che vi sia una provvista derivante da attività delittuosa che deve essere ripulita ed è quella proveniente principalmente dal delitto di abusivo esercizio di attività finanziaria, attribuito ai coimputati foggiani del Me.Vi.Se., peraltro partecipi dell'associazione per delinquere di cui al capo A) della rubrica. In tale contesto, l'attività svolta dall'imputato assume un decisivo rilievo. Infatti, è grazie al bonifico da costui effettuato alle società emittenti le false fatture, quali apparenti pagamenti per prestazioni mai rese, che gli autori dei delitti presupposto possono assicurarsi il risultato di sostituire il denaro "sporco" di provenienza illecita con quello "pulito". Sono quindi le operazioni di bonifico bancario, sistematicamente effettuate dall'imputato, che consentono la ripulitura, mediante "sostituzione", del denaro, a giustificazione delle quali viene emessa la falsa fattura. La consegna del denaro di provenienza illecita avviene solo in quanto le parti hanno predisposto il collegato negozio del pagamento della fattura per un'operazione oggettivamente inesistente ed è l'intera operazione che consente il risultato finale di ostacolare la provenienza illecita del denaro che entra nella disponibilità dell'imputato il quale si presta alla sua ripulitura. La falsa fattura, in tale concordato contesto, corredando di giustificativo l'erogazione effettuata dall'imputato, ha la funzione di attribuire una parvenza di causale ad una movimentazione di denaro che altrimenti ne sarebbe priva e che, sin dalla sua origine, assume una destinazione finalistica illecita in quanto causalmente necessaria ad occultare la provenienza delle somme che l'imputato ha ricevuto e in tal modo sostituito. Il reato fiscale si atteggia alla stregua di semplice strumento, vale a dire quale mezzo destinato a ulteriormente frantumare la tracciabilità dei flussi finanziari, così da generare un doppio circuito non esclusivamente orientato alla realizzazione dei profitti che scaturiscono dall'ordinario traffico di fatture emesse per operazioni inesistenti. Con la conseguenza che il momento di ricezione delle somme provenienti da delitto non assume decisiva rilevanza ai fini dell'integrazione del reato in esame, la cui realizzazione esula dall'osservanza di modalità e forme di carattere vincolato. La prospettazione difensiva muove, invece, da una non consentita parcellizzazione della condotta dell'imputato, a fronte, invece, di una ricostruzione che, facendo leva sul reale intendimento delle parti, ha correttamente ricondotto i contributi dal ricorrente resi nell'alveo della fattispecie contestata, posto che integra il delitto di riciclaggio il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l'accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente che consista nell'aggirare la libera e normale esecuzione dell'attività posta in essere. (Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012 - dep. 23/01/2013, Anemone e altri, Rv. 254314-01; Sez. 2, n. 7503 del 7/12/2021, dep. 2022, Marchesan, non mass.). 6. Con il sesto motivo si lamenta, sempre in relazione al delitto di riciclaggio di cui al capo D) della rubrica, la violazione di legge ed il difetto di motivazione rispetto alla richiesta di assoluzione perché il fatto non costituisce reato di cui al terzo motivo di appello. Si sostiene l'assenza di elementi dimostrativi del dolo. Il motivo è inammissibile, dovendosi osservare che sul tema dell'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio la difesa non si spinge oltre la mera riproposizione in questa sede dei motivi già svolti in appello e rispetto ai quali il riscontro fornito dalla Corte territoriale (paragrafo 3.2.2 pagg. 229-233) si fonda su considerazioni particolareggiate, recanti plurimi riferimenti a risultanze istruttorie, tra cui significative intercettazioni telefoniche che lo vedono direttamente partecipe, e logiche. 7. Con il settimo motivo si deduce l'inosservanza dell'art. 648-bis, comma 2, cod. pen., in relazione alla contestata aggravante. Il motivo è infondato. Il ricorrente vorrebbe limitare l'operatività della circostanza aggravante solo per coloro che commettono il reato nell'ambito di attività strumentali al movimento di denaro e, quindi, a professionisti avvezzi a pratiche di money laudering, rimandando per l'individuazione all'elenco previsto dall'art, 26 della I. n. 55 del 1990 o quello di cui agli artt. 10 e 14 del D.Lgs. n. 231 del 2007. Per come rilevato dalla Corte territoriale - che richiama sul tema un condivisibile orientamento di legittimità (Sez. 2, n. 3026 del 6/12/2016, Ianni, Rv. 269166 - 01) - tale interpretazione è ultronea rispetto al dettato letterale che si limita a prevedere un aggravamento di pena quando il reato è commesso nell'esercizio di un'attività professionale, ossia quando venga accertato un nesso di strumentalità tra qualsiasi professione di natura economica o finanziaria diretta a creare nuovi beni e servizi oppure attività di scambio e di distribuzione dei beni nel mercato del consumo e il riciclaggio. La circostanza, infatti, è volta a differenziare, in ragione della diversa portata di disvalore, l'attività di riciclaggio svolta in modo episodico da quella compiuta da chi, disponendo di una struttura organizzata, può svolgerla in modo più efficace e, dunque, con maggiori probabilità di successo. A conferma che l'esercizio dell'attività professionale non si esaurisca con le professioni tipicamente addette al maneggio di denaro e/o di strumenti finanziari, assumendo un ambito più ampio, depone anche la distinzione, contenuta nel quinto comma dell'art. 648-ter.l. cod. pen., tra l'esercizio dell'attività professionale e quello relativo all'attività bancaria o finanziaria, in ossequio ad un orientamento espresso dal legislatore con riguardo all'analoga fattispecie dettata in materia di usura (art. 644, comma 5, n. 1 cod. pen.) che, ai fini dell'aggravamento della pena, distingue l'attività professionale anche dall'esercizio dell'attività di intermediazione finanziaria mobiliare. Con l'aggravante, infatti, il legislatore intende sanzionare con maggior rigore quei fatti di riciclaggio che vengono commessi approfittando dello svolgimento di determinate attività e/o qualifiche professionali e delle particolari conoscenze o competenze acquisite in tali ambiti che finiscono per agevolare la commissione del reato. Si pensi, ad esempio, alla sistematica attività di "taroccaggio" dei veicoli da parte di officine organizzate che si avvalgono anche di agenzie di pratiche automobilistiche compiacenti al fine di corredare le "nuove" autovetture dei documenti necessari. Ovvero ai fatti di riciclaggio ommessi dai soggetti dediti al commercio e alla trasformazione dell'oro da investimento o ad uso industriale, nonché gli operatori esercenti il commercio degli oggetti preziosi usati, tenuti all'osservanza delle nuove disposizioni antiriciclaggio contenute nel D.Lgs. n. 125/2019. Tali casi, seguendo la prospettazione restrittiva del ricorrente, esulerebbero dal perimetro dell'aggravante e dovrebbero rientrare nell'alveo dell'ipotesi base del riciclaggio, sebbene dotati di eguale offensività rispetto a quelli commessi nello svolgimento di quelle professioni additate come più avvezze al money laudering. In realtà, la circostanza va riempita di contenuto facendosi riferimento sia a quelle che sono le diverse e variegate modalità della condotta di riciclaggio sia allo scopo dell'incriminazione che, a partire dalla riforma del 1993 e in ossequio alla Convenzione sul riciclaggio approvata dal Consiglio d'Europa, non è volto soltanto a tutelare il patrimonio, bensì l'amministrazione della giustizia ovvero l'ordine economico. Nel caso in esame, l'attività professionale del ricorrente, imprenditore viticolo e amministratore della società nell'ambito della quale è stato architettato il meccanismo finalizzato alla ripulitura del reato di provenienza illecita, costituisce il nesso di derivazione necessaria che ha indubbiamente agevolato la commissione del riciclaggio: correttamente è integrata la circostanza. 8. Con l'ottavo motivo si denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione rispetto al delitto di cui all'art. 512-6/s cod. pen. (capo G della rubrica). Si sostiene che non vi sarebbe dissociazione tra forma e contenuto dell'operazione asseritamente fittizia, in quanto si tratta di un'operazione reale priva della finalità di eludere l'applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, essendo semmai volta ad ostacolare l'apprensione del bene da parte della ex coniuge del ricorrente. Peraltro, difettavano elementi univocamente dimostrativi che potessero rappresentare motivo di preoccupazione per l'imputato di subire l'avvio di un procedimento di prevenzione finalizzato alla confisca delle quote del capitale sociale della società che aveva poi intestato alla compagna e coimputata Bassi Roberta. Il motivo è inammissibile poiché aspecifico, essendo svolte al suo interno unicamente considerazioni di merito già devolute alla Corte territoriale e non confrontandosi il ricorrente con i plurimi elementi declinati dalla sentenza impugnata a corredo non solo della natura fittizia dell'operazione, peraltro ammessa dallo stesso imputato ed emergente ictu oculi dal contenuto delle intercettazioni e dal prezzo irrisorio della cessione delle quote a fronte di un elevatissimo volume di affari, ma anche del perseguimento della finalità vietata dalla norma incriminatrice. A conferma che lo schermo societario era stato appositamente apprestato anche al fine di eludere le finalità indicate dalla legge risultano, infatti, riportate in sentenza diverse intercettazioni tra l'imputato e la stessa intestataria fittizia da cui non emergono le prospettate ragioni alternative indotte dalla difesa. Anzi, la coeva pendenza di procedimenti penali e giudiziari dà ragionevolmente conto dell'intento dell'imputato di preservare la società da possibili sequestri, per come ricavato dal giudice di merito anche dalle stesse dichiarazioni del ricorrente riportate in sentenza (v. pagg. 238 e 239). 9. Con il nono motivo si lamenta, sotto diversi aspetti, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al delitto di cui all'art. 648-ter. 1. cod. pen. (capo H della rubrica). Il primo profilo di censura investe la questione relativa ai profili intertemporali dell'autoriciclaggio ed alla pretesa irretroattività della norma penale, posto che il reato presupposto - ravvisato dai giudici di merito nella frode fiscale - è stato commesso in epoca di gran lunga antecedente all'introduzione dell'art. 648-ter.l. cod. pen., "rendendo quest'ultimo insussistente" (v. pag. 117 e ss. del motivo di appello a cui la difesa fa riferimento). Il secondo profilo, invece, attiene alla condotta di autoriciclaggio e, in particolare, all'elemento costitutivo del reato rappresentato dall'aver agito "in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa". In particolare, si sostiene che il mero trasferimento delle disponibilità finanziarie dai conti correnti personali del ricorrente alla Me. Trading s.r.l. non sia modalità idonea ad ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa delle somme. Il percorso a ritroso dai conti intestati alla Me. Trading, s.r.l. avrebbe automaticamente individuato l'origine della provvista, la stazione di partenza e di arrivo, nonché l'unico conducente dell'operazione. A nulla valeva, poi, fare riferimento all'utilizzo di società fiduciarie utilizzate per il trasferimento dei fondi di provenienze illecita dagli istituti bancari dello Stato di San Marino, essendo ciò avvenuto ben prima dell'introduzione del reato. Il motivo è infondato e/o manifestamente infondato con riguardo a tutti i profili di censura sollevati. Quanto al primo aspetto, il ricorrente sostiene che il delitto presupposto sia parte della condotta di autoriciclaggio e non possa rappresentare un mero antecedente. Si tratta, però, di una prospettazione non condivisibile. Anzitutto del tutto improprio è il richiamo al principio di irretroattività per giustificare la non applicazione della nuova fattispecie alle condotte aventi ad oggetto proventi di reato realizzati anteriormente alla sua entrata in vigore. Al riguardo, occorre ricordare che il fondamento del principio di irretroattività è quello di permettere al soggetto agente di orientare consapevolmente il proprio comportamento e di prevedere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni. Tale principio, infatti, storicamente nasce e si afferma come limite all'arbitrio del legislatore, cui viene preclusa la possibilità di sanzionare i consociati in ordine a comportamenti realizzati in un momento nel quale essi non costituivano illecito penale. Esso si salda con il superiore principio di legalità, di cui costituisce un corollario, e, unitamente al principio di colpevolezza, concorre alla determinazione di un sistema nel quale è garantita a tutti la libertà di scelte e di autodeterminazione e la calcolabilità delle conseguenze delle proprie azioni (c.d. choosing system). Orbene, sembra evidente che le suddette esigenze, sottese al principio di irretroattività, possano dirsi salvaguardate anche nell'ipotesi in cui l'autoriciclaggio, comunque commesso dopo l'entrata in vigore del nuovo art. 648-ter.l cod. pen., abbia ad oggetto proventi di condotte realizzate anteriormente alla sua entrata in vigore. Occorre, invero, tenere presente che tali proventi debbono necessariamente provenire dalla commissione di un delitto, non colposo, il quale viene realizzato in un'epoca nella quale, pur non essendo ancora entrata in vigore l'incriminazione dell'autoriciclaggio, era comunque già sanzionata la commissione del reato presupposto. In altri termini, i proventi che vengono ora "ripuliti" derivano da un comportamento che, al momento della sua commissione, era già punito dalla legge penale. L'agente, pertanto, era già a conoscenza dell'illiceità della condotta posta in essere e disponeva così dei mezzi per calcolare le conseguenze, in termini di possibile soggezione ad una sanzione penale, della propria azione. Allo stesso modo, successivamente all'entrata in vigore del nuovo delitto di cui all'art. 648-ter.l c.p., nel momento in cui l'agente si determina a riciclare i proventi dell'azione criminosa da lui stesso posta in essere, egli dispone dei mezzi per scegliere liberamente se andare o meno incontro alla sanzione penale prevista dalla nuova disposizione. Né può ritenere violato il principio di irretroattività solo perché, al momento della commissione del delitto presupposto, l'agente ancora non era a conoscenza della sopravvenuta rilevanza penale dell'autoriciclaggio. In altri termini, appare del tutto estranea alle esigenze sottese al principio di irretroattività l'aspettativa di colui che consapevolmente delinque, realizzando una condotta che in quel momento è vietata dall'ordinamento, solo perché confida nel fatto che, in base al quadro normativo vigente, potrà reinvestirne i proventi senza incorrere in ulteriori sanzioni. Altrimenti il principio di irretroattività finirebbe per consentire a chiunque abbia commesso un delitto anteriormente all'entrata in vigore della nuova disposizione, anche a distanza di tempo, di porre in essere una condotta ormai notoriamente illecita, riciclando liberamente i proventi della precedente attività delittuosa, senza essere esposto ad alcuna conseguenza; e, per questa via, si trasformerebbe paradossalmente da garanzia primaria dello Stato di diritto a vero e proprio "bonus" per delinquere impunemente. Invocare il principio di irretroattività per non punire le condotte di autoriciclaggio aventi ad oggetto delitti presupposto commessi anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 648 ter. 1 cod. pen. significherebbe pertanto rovesciarne il significato, da presidio contro l'arbitrio del legislatore a incentivo al libero arbitrio del singolo, autorizzato a commettere un fatto ora previsto come reato ma per il quale non verrà mai punito. Escluso, pertanto, qualsiasi rilievo al principio di irretroattività, l'applicabilità della nuova fattispecie anche ai casi in cui i proventi oggetto di autoriciclaggio provengano da condotte delittuose poste in essere prima dell'entrata in vigore dell'art. 648-ter.l. cod. pen., trova decisivi elementi di conferma sia nelle ragioni che hanno condotto il legislatore all'introduzione di tale nuova figura di reato sia negli elementi di fattispecie. L'introduzione dell'art. 648-ter.l cod, pen. muove dalla constatazione, sul piano politico-criminale, della sopravvenuta inadeguatezza dell'idea secondo cui il disvalore dell'autoriciclaggio potesse essere interamente assorbito dal delitto presupposto, commesso dallo stesso autore del riciclaggio. Occorre infatti tenere presente che la crescente sofisticatezza e insidiosità dei meccanismi escogitati dalla criminalità per far perdere le tracce dei patrimoni illecitamente accumulati ha più spesso consentito di reimmettere nel circuito economico tali capitali, con grave pregiudizio della libertà della concorrenza e dell'iniziativa degli operatori di mercato. Di fronte a questo allarmante scenario, è apparso evidente che la scelta di incriminare solo Peteroriciclaggio", considerando l'autoriciclaggio (secondo quella che era l'impostazione maggioritaria come post factum non punibile rispetto al delitto presupposto), si rivelasse come ormai del tutto inadeguata ed anacronistica. Era, infatti, risultato che le gravi condotte appena descritte offendessero un bene giuridico diverso e autonomo rispetto a quello protetto dal delitto presupposto, ossia quello del corretto svolgimento del mercato, la cui tutela, nel caso in cui fossero realizzate dallo stesso soggetto che aveva accumulato le ricchezze illecite, non poteva essere affidata alla sola sanzione prevista per il delitto presupposto. Può dunque affermarsi che con la previsione della incriminazione dell'autoriciclaggio, e la sua affrancazione dal delitto presupposto, si è inteso contrastare l'ingresso di capitali illeciti nel tessuto economico, garantendo la tutela di un bene giuridico diverso da quello protetto dallo stesso delitto presupposto, ossia quello dell'ordine economico nel suo complesso. Alla luce di tali considerazioni, la riconosciuta diversità dei beni giuridici tutelati dal delitto presupposto e dall'autoriciclaggio, e, in particolare, il riconoscimento dell'autonoma rilevanza della nuova fattispecie sul piano dell'oggettività di tutela, giustifica l'incriminazione anche delle condotte aventi ad oggetto proventi di reato commessi anteriormente. Essendo il disvalore della fattispecie prevalentemente incentrato sul fenomeno criminoso della conversione dei patrimoni illeciti in risorse da reinvestire nel mercato, appare evidente che, nella prospettiva di sanzionare tali comportamenti, la commissione del delitto presupposto e il momento della accumulazione dei capitali illeciti si presenta come del tutto neutrale. Il divieto posto dalla norma, infatti, si incentra sul momento del reimpiego dei capitali illeciti e non su quello della loro accumulazione. È, dunque, attraverso il compimento delle condotte di impiego, sostituzione e trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative che il soggetto agente, in perfetta autonomia causale dall'origine dei proventi, lede il bene giuridico tutelato, così relegandosi, sul piano della fattispecie, a presupposto del reato la provenienza di quei beni, denaro o utilità dalla commissione di un precedente delitto. Con la conseguenza che del tutto improprio risulta il mero richiamo operato dal ricorrente nei motivi di appello alla decisione delle Sezioni Unite Reina in tema di tentativo di rapina impropria (sentenza n. 34952 del 2012), ove l'esclusione della sottrazione dall'alveo del presupposto del reato si lega proprio al fatto che si tratta di una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo di un elemento naturale o giuridico anteriore all'azione delittuosa ed indipendente da essa. Peraltro, una automatica ed acritica trasposizione delle conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite sul tema del tentativo di rapina impropria rischia di non tenere conto della profonda diversità della questione affrontata in quella occasione rispetto alla tematica che invece viene in considerazione in questa sede. Non è affatto scontato, invero, che i criteri dettati per individuare gli elementi della fattispecie che sono esterni dal perimetro del fatto tipico quando si tratta di ipotizzare la configurabilità di un tentativo di reato, debbano valere anche quando si tratti di selezionare i "fatti" che devono essere commessi successivamente all'entrata in vigore di una nuova incriminazione, perché questa possa trovare applicazione. E ciò a maggior ragione ove si consideri che quello di "presupposto" dell'incriminazione è un concetto estremamente manipolabile e suscettibile di prestarsi a interpretazioni del tutto dissonanti. Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ritiene pertanto di condividere l'orientamento di legittimità che, in tema di autoriciclaggio, a proposito di fattispecie in cui il delitto presupposto era costituito da un reato fiscale, ha affermato il principio secondo cui impropriamente è invocato il principio di irretroattività della legge penale di cui all'art. 2 cod. pen., in relazione ad un reato, quale quello di autoriciclaggio, in cui l'elemento materiale risulta posto in essere in epoca successiva all'introduzione della predetta normativa e quello presupposto - già previsto dalla legge come reato - si assume commesso in epoca antecedente l'entrata in vigore della I. 15 dicembre 2014 n. 186 (Sez. 2, n. 3691 del 15/12/2015, dep. 2016, Bianchi, n.m., in motivazione a pag. 6; conformi Sez. 2, n. 25321 del 5/05/2016, Fiorentino, n.m., in motivazione a pag. 3, ove si reputa irrilevante che il delitto presupposto sia passato in giudicato in data anteriore all'autoriciclaggio, giacché questo non implica necessariamente che le ingenti disponibilità finanziarie siano state nel frattempo già riciclate). Tanto è avvenuto nel caso in esame: con l'operazione di finanziamento in favore della Me. Trading s.r.l. - attraverso la forma del "prestito soci" - quella che era, fino a quel momento, una "semplice" condotta di godimento personale non punibile di proventi delittuosi, si è trasformata in una modalità autoriciclatoria - interamente realizzata sotto la vigenza della nuova disposizione incriminatrice -in quanto tale operazione apparentemente lecita, nella sostanza, ha consentito al ricorrente di "ripulire" il profitto illecito di frodi fiscali da lui commesse impiegandole nella sua società imprenditoriale, iniettando così il denaro "ripulito" nel tessuto economico sociale, integrando l'offesa del bene giuridico protetto costituito in principalità dall'ordine pubblico economico. Quanto al secondo profilo di censura, va anzitutto chiarito - per come risulta anche dalla stessa contestazione - che la condotta di autoriciclaggio consiste nell'aver reimmesso nel sistema economico attraverso attività imprenditoriali, sub specie finanziamenti alla società Melandri Trading. S.r.l., una parte delle somme di provenienza delittuosa, dapprima espatriate dal ricorrente e investite in giacenze redditizie a San Marino (così commettendo una serie di condotte integranti autoriciclaggio, all'epoca non punibile), poi rimpatriate attraverso il ricorso a istituti fiduciari che hanno messo a disposizione dell'imputato tale provvista presso i conti correnti a lui intestati accesi presso la Cassa di Risparmio di Ravenna e la Banca Carim. La circostanza, dunque, che i trasferimenti della provvista delittuosa fossero avvenuti prima del 2015 non assume alcun rilievo ai fini dell'integrazione del reato, in quanto la condotta materiale di autoriciclaggio, consistita nell'impiego di tali denari in attività economiche - mediante il ricorso allo strumento del "prestito socio" - è stata interamente commessa nell'alveo della vigenza dell'art. 648-ter.l. cod. pen. Nessun frammento di tale condotta è, dunque, stato realizzato prima dell'entrata in vigore della fattispecie incriminatrice. Riguardo, poi, la capacità dissimulatoria della condotta, coglie nel segno la sentenza impugnata laddove, dopo aver ricostruito storicamente il meccanismo architettato dall'imputato per disporre dei proventi dei reati fiscali commessi in precedenza, la individua nel momento in cui avviene il trasferimento dei denari alla società mediante il ricorso ad un'operazione di finanziamento avente una causale giustificativa apparentemente lecita e l'intestazione del profitto illecito ad un soggetto giuridico diverso, nei cui bilanci di esercizio tali proventi finiscono; è, dunque, la modifica della formale intestazione che comporta la condotta di sostituzione del bene che risulta idonea ad ostacolare l'individuazione dell'origine illecita dello stesso e si concretizza l'ipotesi astrattamente punibile. L'attività di autoriciclaggio si viene, infatti, ad arricchire di un'attività più ampia in forza della quale l'originaria provvista si autonomizza e perde la sua identità, assumendo diversa destinazione e transitando nella disponibilità di altro soggetto giuridico, così rendendo obiettivamente difficoltosa l'identificazione della provenienza delittuosa di quanto autoriciclato. A nulla valendo, poi, che l'operazione di finanziamento sia tracciabile, avendo sul tema la Corte di legittimità precisato che ricorre l'autoriciclaggio nell'ipotesi di versamento di denaro, provento del delitto di appropriazione indebita, presso un istituto bancario per estinguere debiti ed ipoteche immobiliari, atteso che tale condotta realizza la sostituzione del profitto del reato presupposto, che assume diversa destinazione e transita nella disponibilità di altro soggetto giuridico, consentendo, inoltre, all'imputato di godere dei beni liberi da vincoli reali (Sez. 2, n. 35620 dell'8/09/2021, Pari, Rv. 281942 - 01. In motivazione la Corte ha evidenziato che è irrilevante che l'operazione sia tracciabile, ricorrendo comunque un ostacolo all'individuazione del compendio delittuoso. Conformi v. Sez. 2, n. 28548 del 20/06/2023, Bucari, n.m., in motivazione a pag. 5; Sez. 2, n. 46538 del 6/10/2022, Lipani, n.m., in motivazione a pag. 4; Sez. 5, n. 45687 del 12/10/2022, De Michele, n.m., in motivazione a pag. 7). In tema di autoriciclaggio, infatti, il criterio da seguire ai fini dell'individuazione della condotta dissimulatoria è quello della idoneità "ex ante", sulla base degli elementi di fatto sussistenti nel momento della sua realizzazione, ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del bene, senza che il successivo disvelamento dell'illecito per effetto degli accertamenti compiuti (nella specie, grazie alla tracciabilità delle operazioni poste in essere fra diverse società), determini automaticamente una condizione di inidoneità dell'azione per difetto di concreta capacità decettiva (ex multis, v. Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri F., Rv. 279407 - 01). 10. Con il decimo motivo si deduce la violazione dell'art. 644, commi 3 e 4, cod. pen., nonché il vizio della motivazione in ordine al superamento del tasso soglia. Il motivo è inammissibile, vertendo le deduzioni difensive esclusivamente sulla riconsiderazione di aspetti fattuali di cui si chiede alla Corte di legittimità una non consentita rilettura. Peraltro, quanto alla prima operazione, le discrasie temporali e di quantum evidenziate nel motivo di ricorso nulla mutano rispetto al disvalore del fatto ed alla sua riconducibilità alla fattispecie usuraria per come contestata; la circostanza poi, che siano stati prestati Euro 15.490,00 anziché Euro 14.000,00 non elide la natura usuraria del tasso di interesse concretamente praticato, per come indicato a pag. 264 della sentenza impugnata. Con riguardo alla seconda operazione, peraltro, le annotazioni dell'imputato, che la difesa contesta quale elemento dimostrativo di un accordo già perfezionatosi, sono state lette dalla Corte di merito unitamente al contenuto di due intercettazioni con cui il ricorrente omette specificamente di confrontarsi e che danno conto dell'esistenza del patto, così non rendendo decisive, ai fini della consumazione del reato, le obiezioni in ordine all'assenza di riscontro sull'effettiva consegna e circolazione delle cambiali. 11. Con l'undicesimo motivo si deduce la violazione degli artt. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 e 8 della I. n. 44/2012 con riferimento alla disposta confisca diretta o per equivalente concernente il risparmio di imposta derivante dal delitto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 contestato al capo C) della rubrica. Il ricorrente richiama le considerazioni già svolte all'interno del quarto motivo, osservando che in presenza di fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti e con riferimento alle imposte dirette si è in presenza di un costo realmente sostenuto, non generante alcun risparmio di spesa; si ribadisce l'erroneità della tesi giuridica sostenuta dai giudici di merito, riaffermando che le fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti non assumono rilevanza penale rispetto alle imposte dirette. Il motivo è manifestamente infondato per quanto in precedenza evidenziato sub paragrafi n. 3 e n. 4 a proposito della fattispecie di reato in ragione della quale è stata disposta la confisca. La doglianza, infatti, muove dalla differente prospettazione - smentita dalle sentenze di merito - che si sia al cospetto di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti, essendosi al contrario accertato che il reato, per come contestato, attiene a fatture per operazioni oggettivamente inesistenti (v. par. 2 della sentenza impugnata). 12. Con il dodicesimo motivo si denuncia la violazione dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 ed il vizio della motivazione rispetto alla disposta confisca diretta e/o per equivalente concernente l'ingiusto profitto rinveniente dal delitto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 (capo C, della rubrica), pur in assenza di formazione di ricchezza reale; la difesa si sofferma sulla illogicità della motivazione nel punto in cui, da un lato, si osserva che l'operazione non ha condotto alla formazione di alcun incremento economico (come si evincerebbe dalla relazione del c.t.) e dall'altro si afferma ugualmente l'esistenza della pretesa tributaria, quale presupposto del risparmio fiscale che giustifica la confisca diretta o per equivalente. Il motivo è manifestamente infondato. Sul tema della confisca ex art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000, la sentenza impugnata ha chiarito che il profitto è costituito dalle somme oggetto dell'evasione resa possibile dalla utilizzazione delle fatture, annotate nella contabilità della società e delle quali si è avvalsa presentando la relativa dichiarazione fiscale, al fine di abbattere i costi nella dichiarazione dei redditi (così riducendo la base imponibile) e per detrarre l'Iva. Si tratta di una conclusione conforme al consolidato orientamento della Corte di legittimità secondo cui il profitto confiscabile ex art. 12-bis D.Lgs., n. 74/2000, nei confronti di chi si avvale delle fatture per operazioni inesistenti, va riferito all'ammontare dell'imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo (Sez. 3, n. 25890 del 26/05/2010, Rv. 248058 -01; Sez. 4, n. 51345 del 9/10/2018, Sagretti, in motivazione a pag. 11; Sez. n. 37933 del 2021; Sez. 3, n. 28047 del 20/01/2017, Rv. 270429 - 01; Sez. 3, n. 1994 del 21/09/2016, dep. 27/04/2017, Rv. 269763 - 01). Il profitto della frode fiscale corrisponde, in altri termini, all'imposta evasa, indipendentemente dalle concrete modalità della sua mancata corresponsione da parte del contribuente all'amministrazione finanziaria ed è, dunque, indifferente se tale imposta sia stata in concreto non pagata o portata a credito dal contribuente stesso. L'evasione dell'imposta costituisce, infatti, non uno degli elementi costitutivi, ma semplicemente l'oggetto del dolo specifico del reato, che si consuma, in un momento precedente all'evasione stessa, con l'indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (Sez. 3, n. 1657 del 27/09/2018, dep. 2019, Di Giambattista, Rv. 275474 - 01). Riguardo, poi, al rilievo difensivo secondo cui, a fronte di un'operazione oggettivamente inesistente - salvi gli effetti fiscali - non deriverebbe, ai fini del profitto confiscabile ex art. 12-bis del decreto legislativo, una maggiore ricchezza dell'utilizzatore (ossia per la Me. Trading s.r.l.), stante la natura fittizia dei ricavi, va precisato quanto segue. Per come rilevato dalla sentenza impugnata la Me. Trading s.r.l. si è avvalsa delle fatture relative ad operazioni inesistenti al fine di abbattere i costi nella dichiarazione dei redditi (ex art. 109 TUIR) e per detrarre l'Iva (art. 19 D.P.R. n. 633 del 1972). Quanto all'Iva a credito non spettante è pacifica la sua "reale" quantificazione ai fini della nozione di profitto confiscabile, in quanto la società può avanzare tanto una domanda di rimborso del relativo credito, che utilizzarlo in compensazione verticale o orizzontale. Quanto, invece, alla redditività societaria, la Me. Trading s.r.l., pur non avendo acquisito le forniture oggetto delle false fatturazioni - e, dunque, incrementato materialmente il suo patrimonio per effetto di avvenuti trasferimenti di beni - se ne è avvalsa al fine di portare in detrazione costi imponibili fittizi per un importo assai elevato che hanno consentito, per come evidenziato dalla sentenza impugnata, di ridurre l'utile di esercizio (riducendosi falsamente l'imponibile fiscale), pagare meno tasse, implementando sul piano finanziario le liquidità. La società, pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente secondo cui non si formerebbero redditi reali dal risparmio di imposta collegato ad operazioni inesistenti, ne ha ricavato un vantaggio patrimoniale che si traduce in una maggiore "redditività" dell'impresa, idonea a generare nei suoi confronti e a giustificare sul piano sostanziale l'esistenza di un profitto direttamente e penalmente confiscabile. Di conseguenza, correttamente la sentenza impugnata ha confermato la confisca diretta della somma come quantificata dal primo giudice nella disponibilità della società Me. Trading s.r.l., oppure per equivalente nei confronti dell'imputato finno alla concorrenza della medesima ai sensi dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000, in quanto la confisca, per la sua natura sanzionatoria, trova fondamento nella realizzazione di una condotta riconducibile a reati tributari, posta in essere dalla persona fisica nell'interesse o a vantaggio dell'ente (Sez. 3, n, 11086, del 04/02/2022, Pulvirenti, Rv. 283028 - 02). Pertanto, risulta un fuor d'opera fare riferimento - ai fini della confisca per equivalente in ipotesi eseguibile sui beni personali dell'imputato - all'assenza di incremento di redditività del suo patrimonio personale, in quanto con tale misura non si acquisisce la cosa che è in relazione di pertinenzialità con il reato, bensì un bene diverso di valore equivalente, anche se acquistato anteriormente o successivamente rispetto al fatto di reato, nei casi in cui non sia possibile l'apprensione diretta dei proventi del reato. Essa, applicandosi quindi solo qualora non sia possibile procedere con una confisca diretta, presenta infatti carattere residuale. 13. Con il tredicesimo motivo, in relazione alla disposta confisca ricondotta al delitto di autoriciclaggio di cui al capo H), si lamenta la violazione degli artt. 648-ter. 1. cod. pen. e 12-ò/'s D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui è stato sottoposto a confisca per equivalente l'importo di Euro 3.060.000 che doveva invece intendersi compreso in quello più ampio di Euro 11.396.400 sottoposto a confisca per equivalente da parte della Corte di appello di Bari, con sentenza del 15 luglio 2016, in relazione ai delitti di frode fiscale accertati da quella autorità giudiziaria costituenti il delitto presupposto dell'autoriciclaggio, così essendosi determinata un'illegittima duplicazione del provvedimento ablatorio, in contrasto con gli orientamenti sul punto espressi dalla giurisprudenza di legittimità a mente dei quali il prodotto o il profitto del reato dell'autoriciclaggio deve essere autonomo da quello del delitto presupposto e consistere nei proventi conseguiti dal suo impiego in attività economiche, finanziarie e speculative. Pertanto, ai fini dell'esatta misura del profitto confiscabile, doveva aversi riguardo non all'importo di Euro 3.060.000,00 pari alla provvista di provenienza delittuosa canalizzata nei conti bancari di San Marino nella disponibilità del Melandri e, poi, successivamente trasferita alla Me. Trading s.r.l. (per come contestato al capo H), bensì "al risultato utile ed economico dell'attività imprenditoriale nella quale sono stati investiti i proventi stessi", corrispondete alla somma di Euro 357.290.000, quale utile di esercizio conseguito dalla società nel 2016. Il motivo non è fondato. Anzitutto alla prospettazione difensiva, secondo cui il profitto dell'autoriciclaggio non va individuato nella stessa misura della somma costituente la provvista di provenienza delittuosa, bensì nell'utile di esercizio che la società Me. Trading s.r.l. ha ricavato a seguito dell'investimento nella sua compagine di tali proventi, può muoversi, quanto al contenuto, un rilievo di genericità, in quanto, per come accertato dalle sentenze di merito - e riportato dallo stesso ricorrente a pag. 40 del ricorso con riferimento al nono motivo - i trasferimenti di provenienza delittuosa alla Me. Trading s.r.l., per l'importo complessivo di Euro 3.060.000, avvengono in tre annualità (dal 2015 al 2017) ed il ricorrente si limita soltanto a indicare, quale profitto confiscabile derivante dall'immissione dei capitali illeciti, l'utile di esercizio che la società ha conseguito nel 2016, mentre analogo utile - a fronte di una contestazione che parte dal 1 gennaio 2015 -risulta conseguito nel 2015 (v. pag. 40) e nulla è specificato con riguardo al 2017, annualità pure interessata dai trasferimenti dal conto personale dell'imputato al conto societario che risulta avere generato un profitto quale utile confiscabile. Pertanto, l'importo indicato da assoggettare a confisca per equivalente a titolo di profitto del reato di autoriciclaggio sarebbe più elevato di quello indicato e la sua determinazione, involgendo profili di merito, non può essere demandata alla Corte di legittimità. Inoltre, la censura difensiva non esaurisce il tema relativo alla confisca delle somme riferibili all'attività di autoriciclaggio contestata al ricorrente. Può infatti concordarsi con la difesa - in ossequio ad orientamenti già espressi dalla Corte di legittimità - che il profitto del delitto di autoriciclaggio non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall'impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Al riguardo, si è, infatti, sottolineato che il delitto di autoriciclaggio si alimenta in tutto o in parte con il provento del delitto presupposto, da qui deriva un'ovvia conseguenza sul piano giuridico: il profitto del reato non può coincidere con quello del reato presupposto proprio perché di quest'ultimo profitto l'agente ne ha già goduto; non può, quindi, che essere un qualcosa di diverso e ulteriore. Si tratta di una soluzione che risulta coerente con la ratio legis del reato il cui obiettivo fu quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto e, quindi, di impedire all'agente sia di reinvestirlo nell'economia legale sia di inquinare il libero mercato ledendo l'ordine economico con l'utilizzo di risorse economiche provenienti da reati: infatti, non a caso, l'agente che abbia commesso il reato presupposto non è punibile ove, ex art. 648-ter.l, comma 4, cod. pen. "il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale"; è in linea con il costante principio di diritto secondo il quale "in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, costituisce profitto del reato non solo il vantaggio costituito dall'incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio, suscettibile di valutazione patrimoniale o economica, che determina un aumento della capacità di arricchimento, godimento ed utilizzazione del patrimonio del soggetto" (ex plurimis, Sez. 5, n. 20093 del 31/10/2014, dep. 2015, Bonetti, Rv. 263832); è obbligata perché, ove si volesse far coincidere - sic et simpliciter - il profitto del reato presupposto con quello di autoriciclaggio, non vi sarebbe spazio alcuno per l'applicabilità dell'art. 648-quater cod. pen., proprio perché, essendo il provento del reato presupposto, a sua volta, confiscabile, non sarebbe ammissibile una duplicazione della confisca della stessa somma di denaro (o dello stesso bene).(Ex multis, Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970 -01; Sez. 2, n. 27228 del 15/09/2020, Lolaico, Rv. 279650 - 02). Tali orientamenti, tuttavia, non hanno approfondito la questione - in quanto l'oggetto dei motivi di ricorso era incentrato sul tema del sequestro preventivo del profitto del reato - se alla confisca delle somme direttamente oggetto della condotta di autoriciclaggio possa pervenirsi in ragione del fatto che esse rappresentano il prodotto del reato. Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la dottrina, il prodotto del reato si identifica nel frutto materiale della consumazione del reato e cioè in quell'oggetto che è derivato dalla perpetrazione del fatto illecito di rilevanza penale. A titolo esemplificativo si indicano le banconote oggetto della contraffazione nummaria ovvero lo stupefacente derivante dalla condotta di coltivazione. Secondo le Sezioni Unite, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita. Il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato (Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni, Rv. 205707 - 01). In una successiva pronuncia in tema di confisca si è ulteriormente precisato che il "profitto" del reato è costituito dal vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dalla commissione dell'illecito e si contrappone al "prodotto" e al "prezzo" del reato; il "prodotto", invece, rappresenta il risultato empirico, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato (Sez. F., n. 44315 del 12/09/2013, Cicero, Rv. 258536 - 01; Sez. 2, n. 22053 del 18/04/2023, Romano, Rv. 284679 - 02, in motivazione a pag. 22 ove si è ricondotta alla nozione di prodotto del reato di cui all'art. 648-ter cod. pen, l'ipotesi di quantitativi di oro e di argento, acquisiti dai vari soggetti collettori, poi trasformati mediante fusione e conversione in verghe d'oro e di argento e, quindi, nuovamente impiegati in attività economica lecita mediante immissione nel circuito commerciale ordinario grazie alla copertura delle finte vendite delle società estere). Non essendovi ragioni per discostarsi da tali orientamenti, il prodotto del reato va quindi individuato nelle cose trasformate, create o acquisite mediante il delitto ed in quelle cose che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita, nel risultato empirico dell'azione illecita. Nel caso dell'autoriciclaggio la lecita vestizione delle somme, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto, derivando da una condotta positiva di impiego, sostituzione o trasferimento, costituisce il risultato empirico dell'attività delittuosa. Proprio in forza di tale variegata condotta le risorse di provenienza delittuosa, pur essendo legate da un nesso di derivazione causale con il delitto presupposto, assumono una diversa veste giuridica e naturalistica, in quanto dotate - a seguito dell'operata trasformazione - di una loro individualità sia per causa che per effetto. Dunque, si assiste ad un fenomeno di "autonomizzazione" di quella che da un punto di vista economico potrebbe qualificarsi come la provvista del nuovo illecito trasformativo, non soltanto della res in quanto tale, ma anche della sua stessa destinazione funzionale. Si tratta, infatti, di denaro, beni ed altre utilità che costituiscono oggetto di un reato differente rispetto a quello da cui originariamente provengono. Accertato, dunque, che il ricorrente ha impiegato e trasferito disponibilità finanziarie provenienti da frodi fiscali in precedenza dallo stesso commesse, investendo denaro di provenienza delittuosa rimpatriato da San Marino in attività imprenditoriali, mediante finanziamenti fruttiferi soci effettuati a favore della Me. Trading s.r.l., il prodotto dell'autoriciclaggio consiste proprio in quelle somme che sono state successivamente investite in attività economiche, impiegando e sostituendo il provento delle frodi fiscali. La somma oggetto di lecita vestizione è, dunque, differente da quella evasa per causa, effetto e destinazione, in quanto attraverso l'immissione nel circuito economico-produttivo è destinata a generare nuova ricchezza e, dunque, a circolare. Non sussiste, quindi, la lamentata sovrapposizione tra profitto del reato presupposto e quello di autoriciclaggio, posto che il provento illecito delle contestazioni fiscali consiste nelle somme evase al fisco italiano e dirottate all'estero, mentre il prodotto dell'autoriciclaggio è individuabile nei flussi finanziari che, dopo essere stati trasferiti all'estero, sono stati reimmessi - attraverso il transito su diversi conti correnti e mediante operazioni di finanziamento fruttifero soci - nella società italiana riconducibile all'imputato, attraverso condotte succedutesi nel tempo nell'ambito di fattispecie che non esige affatto una contestualità temporale tra il formarsi della provvista delittuosa ed il suo successivo impiego. In nessuna preclusione di "giudicato" incorre, pertanto, la disposta confisca, in quanto il titolo dell'apprensione è ontologicamente diverso, conseguendo ad una duplicità di condotte delittuose, riferibili sul piano giuridico e naturalistico a "profitti-prodotti" differenti, autonomamente considerati e portatori di disvalore. La motivazione del giudice del merito va, pertanto, corretta in diritto dal Collegio, dovendo più pertinentemente qualificarsi come prodotto del reato l'oggetto della confisca disposta in forma diretta nei confronti della società Me. Trading. S.r.l. e, in caso di incapienza totale e/o parziale, per equivalente sui beni riferibili all'imputato; a seguito della riqualificazione del titolo della misura di sicurezza non si determina, infatti, alcuna immutatio significativa agli effetti dell'odierna decisione, risultando del tutto inalterati i presupposti di fatto sulla scorta dei quali deve essere adottata la misura reale e rispetto ai quali sono state compiutamente svolte le censure difensive. 14. Con il quattordicesimo motivo si rileva la violazione di legge ed il vizio della motivazione rispetto alla disposta confisca nei confronti dell'imputato del prodotto o profitto del reato di riciclaggio e, in caso di incapienza, di beni nella disponibilità di quest'ultimo per un importo pari ad Euro 2.248.550,56. In primo luogo, la difesa lamenta l'omessa motivazione in ordine al corrispondente motivo di appello con cui aveva censurato la disposta confisca in relazione al delitto di riciclaggio. Contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, rappresenta di avere trattato la censura relativa all'infondatezza della misura cautelare nella parte dedicata al "profitto confiscabile" (da pag. 144 a pag. 150), diffondendosi sui contenuti dei rilievi formulati in quella sede. In secondo luogo, eccepisce la non configurabilità del delitto di riciclaggio in capo al Me.Vi.Se., il quale sarebbe semmai concorrente del reato presupposto di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000. In ogni caso, l'importo sopra indicato non costituirebbe il profitto conseguito dal Me. in relazione al delitto di riciclaggio, essendo tale somma quella che egli aveva anticipato agli emittenti le fatture e che da questi ultimi avrebbe ricevuto in restituzione; l'importo da sottoporre a confisca dovrebbe essere quello ricevuto dall'imputato per l'attività di riciclatore, ma esso non corrisponderebbe all'ammontare delle fatture emesse. Il motivo è infondato. La difesa fa leva anzitutto sull'assenza del reato stante il concorso del ricorrente nel delitto presupposto: si tratta, però, di tema già affrontato a proposito della principale doglianza mossa in tema di sussistenza del delitto di cui al capo D) della rubrica e ritenuto infondato per le ragioni al riguardo evidenziate. Inconferente si rivela anche il richiamo ad un precedente della Corte di legittimità (Sez. 2, n. 30206/2020 non mass.) che attiene ad una differente ipotesi: nel caso in esame l'ambito del delitto presupposto è arricchito da fattispecie divere ed ulteriori rispetto alla frode fiscale; inoltre, il ricorrente non si limitava ad erogare somme di provenienza lecita a corredo del quantum riportato dalle false fatture, ma riceveva dagli imprenditori "foggiani" denaro di variegata provenienza delittuosa che poi provvedeva a sostituire mediante operazioni di bonifico bancario. Peraltro, con riguardo allo specifico tema dell'oggetto della confisca possono utilmente richiamarsi le argomentazioni spese a proposito della fattispecie di autoriciclaggio, riconducendosi gli importi integralmente ripuliti dall'imputato alla nozione di prodotto del reato. E tanto a prescindere, per come rilevato dal P.G., dal profilo di inammissibilità della censura ricondotta alla violazione di legge sostanziale (artt. 240,240-bis, 648-bis cod. pen. in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.) e al vizio di motivazione, laddove l'assenza di motivazione configura invece una violazione della legge processuale (art. 125 cod. proc. pen.) da ricondursi all'ipotesi di cui all'art. 606 lett. c) cod. proc. pen. 15. Con il quindicesimo motivo si lamenta la violazione dell'articolo 240-bis cod. pen., per errata applicazione del concetto di sproporzione e, comunque, per motivazione apparente e contraddittoria sul punto. Si era anzitutto operata una non consentita ed indiscriminata ablazione cumulativa dei beni omettendo di svolgere un'indagine sulla provenienza di ogni singolo bene alla luce del reddito disponibile al momento della loro rispettiva acquisizione, con ciò andando di contrario avviso rispetto a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità. Si sostiene, poi, che il ricorrente abbia indicato gli elementi fattuali dai quali si può dedurre che i beni non sono stati acquistati con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non proporzionati rispetto alla sua capacità patrimoniale. Si tratterebbe di redditi leciti, seppur non dichiarati ai fini fiscali, derivanti da variegate attività economiche di tipo consolidato anche nel tempo, per come specificato nel ricorso. Si censura, infine, il rilievo attribuito dalla Corte di merito, fra le voci che concorrono a formare la sproporzione, all'importo pari ad Euro 3.060.000 proveniente dai conti esteri dell'imputato e poi utilizzato come spesa per prestiti fruttiferi alla Me. Trading s.r.l. Si rappresenta che nella ricostruzione della posizione economica del ricorrente tali somme sono state inserite tra le spese e, quindi, tra gli investimenti, senza annotarle ed imputarle anche alle entrate, operando, quindi, una differenziazione che non ha ragion d'essere. Si sarebbe quindi valutata negativamente l'operazione di emersione sotto un duplice profilo: come spese incrementativa senza però valorizzarla come entrata. Il motivo è infondato. Il primo profilo di censura è inammissibile. Come noto, la sproporzione rappresenta il nucleo fondamentale della misura della c.d. confisca allargata, giustificativa dell'ablazione del patrimonio del condannato che non è in grado di offrire plausibili ragioni della legittima provenienza della ricchezza accumulata, che non sarebbe congrua o comunque correlata con le capacità reddituali dichiarate. Nel corso del giudizio di primo grado il Gup, all'esito delle indagini investigative (le cui risultanze sono puntualmente richiamate alle pagine 448 e ss. e risultano poste a fondamento dell'adozione del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca allargata emesso dallo stesso giudice), degli elementi giustificativi offerti dal ricorrente anche a mezzo consulente tecnico e della perizia disposta nel corso del processo, ha rilevato una significativa sproporzione tra entrate ed uscite, tale da giustificare la misura ablativa. In particolare, a tale risultato si è giunti non attraverso una mera ricognizione statica del patrimonio dell'imputato, ma attraverso un'operazione ricostruttiva di tipo dinamico in modo da fornire uno spaccato dell'attività economica che superasse l'immagine reddituale rappresentata al Fisco, valutando tutti i flussi finanziari in modo da risalire all'effettiva capacità finanziaria del soggetto, tenendosi conto, per come espressamente indicato all'atto del conferimento della perizia, anche delle movimentazioni patrimoniali intervenute a decorrere dal periodo più remoto al periodo attuale e verificando comunque l'epoca di acquisto dei beni di cui il sequestro si è interessato, in ragione della capacità economica del soggetto in relazione al periodo cronologico di riferimento dell'acquisto. Si è quindi ripercorsa la genesi di tali molteplici acquisizioni finanziarie e patrimoniali distinte per ciascuna annualità, alla luce dei redditi disponibili e dichiarati dal ricorrente. Inoltre, si sono comparate le positività e le negatività accertate nel corso del ventennio, sterilizzandosi anche la possibile decisiva valenza di incrementi patrimoniali e/o di redditi degli anni precedenti. Infine, si è motivatamente escluso che gli incrementi patrimoniali del Me.Vi.Se. abbiano trovato integrale copertura nei redditi anche da capitale dichiarati dallo stesso, ovvero nell'attività economica svolta e che, a tale fine, possa tenersi conto delle somme provenienti dallo scudo quale indice di maggiore disponibilità finanziaria (v. pagg. 298-308 della sentenza impugnata). In conclusione, il saldo complessivo accertato, quantomai significativo (la differenza tra entrate ed uscite è stata stimata pari ad Euro 6.304.204,43), è stato ritenuto endemicamente incapiente da giustificare le spese che negli anni il ricorrente aveva sostenuto, Con la conseguenza che non è affatto illogico avere attribuito a tale considerevole disavanzo la riprova dell'esistenza di altre fonti di accumulo di ricchezza, indimostrate e ingiustificate sul piano delle liceità, che hanno concorso a formare il patrimonio oggetto di confisca allargata. La sentenza impugnata, con congrua motivazione, ha avvalorato gli esiti raggiunti dal Gup in ordine alla sproporzione, disattendendo i rilievi mossi dalla difesa con l'atto di appello volti ad incidere sulla forbice dimostrativa del ritenuto disavanzo in forza delle variegate causali alle quali il ricorrente attribuisce idoneità a generare un maggior reddito. Peraltro, a fronte di censure tutte incentrate sull'esatta quantificazione della sproporzione, il ricorrente, mediante la denuncia di violazione di legge, sposta i termini di raffronto dello squilibrio, facendo leva sul differente impiego delle risorse finanziarie nella disponibilità del ricorrente che avrebbero giustificato una parte dei complessivi acquisti o incrementi di volta in volta acquisiti. Ma una tale prospettazione non solo appare generica, avendo la sentenza impugnata asseverato un'incapacità in capo al ricorrente di far fronte negli anni alle spese sostenute, ma finisce per porre a fondamento degli acquisti - alcuni dei quali indicati nel corpo del ricorso - le stesse fonti variegate di reddito che le sentenze di merito hanno motivatamente escluso dall'alveo dei flussi finanziari a tale fine valutabili. E tanto, in conclusione su tale aspetto, senza sottacere che, in tema di confisca ed. allargata, la Corte di legittimità ha affermato: - che non è censurabile in questa sede la valutazione relativa alla sproporzione tra il valore di acquisto dei beni nella disponibilità del condannato e i suoi redditi, ove la stessa sia congruamente motivata dal giudice di merito con il ricorso a parametri suscettibili di verifica e sia preceduta da un adeguato e razionale confronto con le avverse deduzioni difensive, come avvenuto nel caso in esame (Sez. 3, n. 1555 del 21/09/2021, dep. 2022, Arcuri, Rv. 282407 - 02; Sez. 5, n. 6511 del 27/10/2023, Lucchetti, n.m., in motivazione a pag. 8; Sez. 1, n. 8783 dell'8/11/2022, dep. 2023, Paludi, in motivazione a pag. 6); - che dall'accertata sproporzione tra guadagni e patrimonio, che spetta alla pubblica accusa provare, scatta una presunzione "iuris tantum" d'illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall'interessato, specialmente nel caso di confusione tra risorse di provenienza lecita e illecita, sulla base di specifiche e verificate allegazioni, dalle quali si possa desumere la legittima provenienza del bene confiscato attingendo al patrimonio legittimamente accumulato (Sez. 2, n. 43387 dell'8/10/2019, Novizio, Rv. 277997 - 04). Infondato è, poi, il rilievo mosso alla sentenza impugnata sotto il profilo della contraddizione del principio di correlazione laddove la Corte di merito ha ritenuto valutabili - ai fini della sproporzione - anche i conferimenti effettuati dall'imputato sotto forma di prestito fruttifero alla Me. Trading s.r.l. La circostanza che tali flussi finanziari non possano costituire, ai fini della giustificazione della sproporzione, indice di redditività lecita, state l'assenza di un'attività a monte generatrice di profitti intrinsecamente leciti, non ne elide la valenza causale ai fini del concorso nella stima degli incrementi patrimoniali acquisiti nel tempo dall'imputato e, in particolare, del rilievo che gli stessi assumono, in virtù dell'operazione negoziale in cui si sono tradotti, quali voci di uscita, trattandosi di profili funzionalmente e temporalmente differenti: il primo attiene al piano dell'assolvimento dell'onere probatorio liberatorio e il secondo al preliminare aspetto relativo alla valutazione complessiva del compendio patrimoniale/finanziario di cui il condannato è risultato disporre. 16. Con il sedicesimo motivo si lamenta la violazione dell'art. 240-bis cod. pen. e la manifesta ed illogica motivazione, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto non soddisfatto pienamente da parte del ricorrente l'onere probatorio di provare l'origine lecita delle somme impiegate per l'acquisto dei cespiti patrimoniali giudicati sproporzionati rispetto alle capacità reddituali dello stesso. La censura si incentra sulla valenza probatoria delie allegazioni addotte dall'imputato a corredo dell'esistenza di disponibilità finanziarie sufficienti, citandosi i proventi derivanti dall'attività di imprenditore agricolo, dai rediti di capitale e dai redditi diversi. Il motivo è inammissibile poiché - a fronte di una motivazione congrua e scevra da vizi logici e decisivi travisamenti delle emergenze processuali - è incentrato su censure di fatto e volto a prefigurare una rivalutazione e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, tra le quali in particolare gli esiti della consulenza tecnica del dott. Corvi, estranea al sindacato di legittimità. 17. Con il diciassettesimo motivo si eccepisce la violazione dell'art. 240-bis cod. pen. ed il vizio della motivazione per avere la Corte di appello, sulla scorta delle risultanze della perizia d'ufficio disposta dal Gup, disconosciuto valenza, ai fini della valutazione della capacità economica e patrimoniale dell'imputato, agli avvisi di accertamento - che la difesa aveva prodotto in giudizio dopo il deposito della perizia - elevati dall'Agenzia delle entrate per gli anni di imposta 2003-2009. Si trattava di un esito che configgeva con le diverse conclusioni raggiunte dal perito d'ufficio che aveva ritenuto, invece, di calcolare a favore dell'imputato i maggiori redditi derivanti da altri avvisi di accertamento per gli anni 2005-2008 sempre relativi all'Azienda Vinicola Alla Gr. s.r.l. di cui aveva avuto invece la disponibilità nel corso dell'incarico peritale. La Corte di appello, al fine di escludere il rilievo reddituale degli avvisi, aveva fatto erroneamente riferimento all'impossibilità della società di incrementare la propria redditività in ragione dell'inesistenza delle prestazioni oggetto delle fatture, senza considerare che nei reati tributari il provento del reato si manifesta sotto forma di risparmio di spesa, nel senso che il mancato pagamento delle imposte dovute dalla società Azienda Vinicola Alla Gr. (per avere accresciuto falsamente attraverso l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti i costi, con conseguente riduzione degli oneri fiscali) ha generato il formarsi di un vantaggio economico-patrimoniale distribuito in nero al Me.Vi.Se. che, con ciò, ha sottratto tale utilità al prelievo fiscale, trovando applicazione la disciplina sul reddito da capitale. Il motivo è infondato. Dalla lettura delle sentenze di merito risulta che gli avvisi di accertamento, emessi per dichiarazione infedele, muovono dal disconoscimento di costi fittizi da parte della società Azienda Vinicola Alla Gr. in quanto relativi a fatture (di acquisto) per operazioni inesistenti, emesse da varie aziende riconducibili a soggetti coimputati del Me.Vi.Se. nel processo svoltosi dinanzi l'autorità giudiziaria di Bari. Secondo la difesa agli avvisi di accertamento andrebbe riconosciuta valenza dimostrativa di maggior reddito da capitale attribuito al ricorrente per gli anni a cui si riferiscono. Tale conclusione risulterebbe avvalorata dal fatto che lo stesso perito d'ufficio, in relazione ad altri avvisi di accertamento relativi a diverse annualità (di cui aveva avuto la disponibilità in costanza di perizia), era pervenuto ad un esito positivo a favore dell'imputato. I risparmi di imposta percepiti dalla società Azienda Agricola Alla Gr., a fronte della commissione dei suddetti reati fiscali, si sarebbero trasfusi in redditi di capitale di cui avrebbe fruito il solo imputato, in quanto dominus della stessa, attraverso la redistribuzione degli utili in forza del principio di solidarietà dei soci nella ipotesi di c.d. "ristretta base partecipativa". Tale prospettazione - benché disattesa dalla sentenza impugnata facendosi riferimento all'assenza di un incremento dei ricavi (di natura fittizia) in capo alla società che avrebbe dovuto conseguire alla successiva vendita dei prodotti fatturati, ma mai acquistati - non risulta comunque condivisibile anche sul piano del reddito da capitale su cui la difesa ha incentrato la censura. L'attribuzione al disconoscimento di costi fittizi della valenza di indice di una maggiore disponibilità finanziaria in capo Me.Vi.Se., quale dominus della società, il quale sarebbe stato destinatario del risparmio di spesa accantonato dalla Azienda Vinicola Alla Gr. in conseguenza del risparmio fiscale derivante dall'abbattimento degli utili, è frutto di una presunzione di carattere tributario, peraltro avente valore iuris tantum, che non assume alcun automatico rilievo probatorio nell'ambito del processo penale e, in particolare, ai fini delle allegazioni che il condannato deve fornire al fine di dimostrare un maggior reddito; si tratta, infatti, di meri atti amministrativi con cui si avanza nei confronti del contribuente la pretesa fiscale e inidonei, di per sé, a provare il fatto costitutivo del diritto vantato dall'amministrazione finanziaria. Peraltro, gli avvisi risultano essere stati impugnati dall'imputato in sede tributaria, il quale ha contestato il merito dell'accertamento. È lo stesso imputato, quindi, che nega quella valenza presuntiva che in sede penale, invece, rivendica in una sorta di eterogenesi dei fini. Inoltre, non vi è alcuna allegazione che dimostri che, a seguito del risparmio di imposta, vi sia stata una successiva distribuzione dello stesso - quale dividendo - in favore dell'imputato. Anzi, il dato formale è negativo, in quanto, per come riconosciuto nello stesso ricorso, dalle scritture contabili gli utili non risultano contabilizzati e, quindi, formalmente mai distribuiti, tanto che si è costretti a richiamare l'assunto - al quale si vuole riconoscere financo valenza presuntiva, ma certamente non sussumibile nell'alveo della massima di esperienza - secondo cui l'artifizio contabile conseguente alle indicazioni in contabilità derivante dalla falsa fatturazione renderebbe di per sé infedele l'intera rappresentazione della gestione economica della società. Nessun elemento dimostra, quindi, che quel risparmio di imposta si sia tradotto, in qualche modo, in un reddito di capitale a favore dell'imputato, né che tale provvista sia uscita in qualche modo dalla società e sia confluita nella diretta sfera giuridica e disponibilità del ricorrente. E tanto a prescindere dal fatto che parte della ricchezza finanziaria dell'imputato - che dovrebbe assumere rilievo tra le entrate - finirebbe per trovare giustificazione in maggior redditi derivanti da evasione fiscale, reciuts frode fiscale. 18. Con il diciottesimo motivo si deduce la violazione dell'art. 13-bis I. n. 141/2009, nonché dell'art. 240-bis cod. pen. e comunque l'apparenza e la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la Corte di appello ha escluso la rilevanza di capitali sottratti alla imposizione fiscale e rimpatriati, avvalendosi dello strumento di emersione del ed "scudo fiscale ter", ai fini dell'apprezzamento della legittima provenienza della ricchezza rinvenuta nella disponibilità di Me.Vi.Se. e della neutralizzazione del requisito della sproporzione tra il valore delle acquisizioni patrimoniali e dei redditi e delle attività economiche allo stesso riferibili. Sul punto la difesa si sofferma sull'assoluta regolarità delle somme versate attraverso il pagamento della imposta normativamente fissata e sulla assenza di ragioni ostative alla regolarizzazione, nonché sulla certa riconducibilità di tali importi allo svolgimento di attività imprenditoriali lecite. Il motivo non è fondato. La questione posta dalla difesa ruota intorno al quesito se, ai sensi dell'ultima formulazione dell'art. 240-bis cod. pen., possa ritenersi fondata e in che misura -ai fini della dimostrazione della proporzionalità - l'allegazione dei patrimoni oggetto di rimpatrio e regolarizzazione che provengono da reati fiscali, posto che, a norma dell'art. 240-ò/s cod. pen., "il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge". Alla introduzione, infatti, voluta per mano del legislatore con l'art. 31 della legge 17 ottobre 2017, n. 161 del divieto di dare prova della legittima provenienza del denaro invocando l'evasione fiscale, ha fatto poi seguito la deroga a tale limite in caso di avvenuta estinzione dell'obbligazione tributaria a norma dell'art. 13-ter, comma 1, d.l. n. 148 del 2017, convertito con modif. dalla I. 4 dicembre 2017, n. 172 poi trasfuso nel testo del vigente art. 240-bis cod. pen. Sul tema dei rapporti tra confisca allargata e proventi derivanti da evasione fiscale, la giurisprudenza, per lungo tempo orientata ad escludere che l'onere dell'imputato di giustificare la provenienza legittima dei beni potesse essere assolto con l'allegazione di redditi derivanti da evasione fiscale (nel senso dell'esclusione, v. ex muitis, Sez. 1, 10/06/1994, n. 2860, Moriggi, Rv. 198943; Sez. 2, 14/10/1996, n. 5202, Scarcella, Rv. 205738), ha poi affermato, con specifico riguardo alla c.d. confisca allargata, che - ove le fonti di produzione del patrimonio siano identificabili, siano lecite, e ne giustifichino la titolarità in termini non sproporzionati ad esse - è irrilevante che tali fonti siano identificabili nei redditi dichiarati ai fini fiscali piuttosto che nel valore delle attività economiche che tali entità patrimoniali producano pure in assenza o incompletezza di una dichiarazione dei redditi. Una diversa conclusione, si afferma, avrebbe comportato l'espropriazione del patrimonio non per una presunzione della sua provenienza illecita, in tutto o in parte, ma per il solo fatto dell'evasione fiscale, in contrasto con la ratio dell'istituto in questione che mira a colpire i proventi di attività criminose e non a sanzionare la infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione dei reddito, e per la quale soccorrono specifiche norme in materia tributaria, non necessariamente implicanti responsabilità penali (Sez. 6, n. 29926 del 31/05/2011, Tarabugi, Rv. 250505 - 01; Sez. 1, n. 6336 del 22/01/2013, Mele, Rv. 254532 - 01; Sez. 2, n. 49498 dell'I 1/11/2014, Pucillo, Rv. 261046 - 01). Una simile interpretazione è del resto confortata dal tenore letterale della disposizione, che impedisce l'ablazione del patrimonio quando, indifferentemente, esso sia giustificato dal valore dei redditi formalmente dichiarati ovvero dall'attività economica svolta, quest'ultima normalmente produttiva di reddito imponibile. Le stesse Sezioni Unite, nel soffermarsi sulle differenze esistenti tra la confisca di prevenzione e quella allargata, hanno evidenziato come "risulta del resto coerente con l'evidenziata diversa struttura normativa che per la confisca ex art. 12-sexies, che prevede che requisito della sproporzione debba essere confrontato con il "reddito dichiarato" o con "la propria attività economica", si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (perché comunque rientranti nella propria attività economica) secondo i più recenti e prevalenti approdi giurisprudenziali in tale ambito." (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260244 - 01). Si tratta di orientamenti che danno conto di come la possibilità di recuperare, ai fini della sproporzione, e sempreché l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge, i proventi derivanti dall'evasione fiscale si leghi necessariamente, in ragione della ratio della disposizione, alla pregressa esistenza di redditi che, seppur occultati al fisco (inclusi i profitti da evasione), derivino da attività lecite e comprovate nella loro consistenza. A conferma di tale soluzione depongono, poi, anche ragioni di carattere sistematico. I parametri legali stabiliti ai fini della valutazione della sproporzione - i c.d. "termini di raffronto dello squilibrio" - sono due e sono fissati nel proprio reddito e nell'attività economica. Il primo esprime un concetto statico, l'altro dinamico, ma entrambi risultano accomunati dalla liceità delle attività che generano la ricchezza utilmente dimostrativa della propria capacità lucro genetica che giustifica la provenienza del denaro, beni a od altre utilità. Inoltre, la deroga (con l'inciso approvato dalla Camera il 27.9.2017) che consente di far valere ai fini della valutazione della sproporzione il denaro utilizzato per acquistare i beni che sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale (purché l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge), va necessariamente letta e coordinata con il testo complessivo della disposizione che richiama, quali termini di paragone, i redditi dichiarati ai fini delle imposte o la propria attività economica svolta, ossia fonti generatrici di profitto lecite, con la conseguenza che sarebbe del tutto distonico dare ingresso a flussi di denaro che, sebbene sottratti al fisco, non siano riconducibili allo svolgimento di un'attività ab origine lecita e la cui produzione risiede causalmente e finalisticamente in un'attività illecita (e nel caso in esame anche penalmente illecita). Tanto basta per affermare l'infondatezza della doglianza difensiva, posto che - per come evidenziato dalla sentenza impugnata - non è stato dimostrato che le attività esercitate e generatrici della ricchezza accumulata fossero lecite, ossia che i capitali espatriati a San Marino potessero in qualche modo essere ricondotti a ricavi "in nero" di una lecita attività imprenditoriale, essendosi anzi accertato che i profitti veicolati verso i conti sanmarinesi e poi rimpatriati mediante lo scudo fiscale sono prevalentemente provento di frode fiscale e, dunque, hanno una causale genetica di tipo illecito, avendo il giudice del merito precisato - sulla scorta degli esiti della perizia e degli accertamenti svolti - che sono state smentite le generiche e non riscontrate dichiarazioni del ricorrente secondo cui il denaro allocato a San Marino corrisponderebbe ad una percentuale di circa 15/20% di ricavi non fatturati. Assumono, infine, valenza di merito non scrutinarle in questa sede, in difetto di denunciati e specifici travisamenti, le doglianze con cui il ricorrente sostiene che le somme costituenti il reddito provento di evasione fiscale (ricondotto soprattutto a redditi di capitale o di partecipazione alla società Vinicola Alla Gr.s.r.l.) siano pienamente lecite trattandosi di utili che si sono generati dall'esercizio ad opera della stessa società di un'attività imprenditoriale pienamente lecita. Sul punto il ragionamento dei giudici di merito - che ne ha escluso rilievo decisivo - si è svolto in maniera logica e coerente, con dettagliata considerazione di tutte le premesse armonicamente confluenti in un esito maturato in rigorosa applicazione del principio di diritto pronunciato dalla Corte di legittimità, disattendendo le giustificazioni sulla sproporzione fornite dall'imputato giudicandole con impeccabile percorso argomentativo non credibili. 19. Con il diciannovesimo motivo si evidenzia la violazione della legge n. 350/2001, nonché dell'art. 13-bis della legge n. 141/09 e dell'art. 240-b/s cod. pen. Sul punto la difesa ha rilevato la erroneità della affermazione contenuta nella impugnata sentenza secondo cui lo scudo fiscale costituirebbe una mera operazione di regolarizzazione amministrativa, laddove esso, in realtà, assumerebbe rilievo anche rispetto ad illeciti penali, così che le somme rimpatriate avrebbero concorso a pieno titolo ad arricchire lecitamente il Me.Vi.Se. Rileva, inoltre, la difesa che destituita di fondamento sarebbe l'affermazione secondo cui Me.Vi.Se.non si sarebbe avvalso dello scudo fiscale, avendo, al contrario, quest'ultimo documentato di esserne avvalso a far tempo dal 2017, epoca di avvio del presente procedimento. Si contesta, poi, l'affermazione che l'illiceità delle reiterate condotte di accumulo della ricchezza da parte dell'imputato comporterebbe l'esclusione dell'incidenza dello scudo fiscale. Il motivo è infondato. Sebbene la sentenza impugnata abbia correttamente escluso la valenza, ai fini della sproporzione, dei capitali espatriati a San Marino e da qui rimpatriati mediante lo scudo fiscale, in quanto riconducibili a proventi illeciti generati con condotte di frode fiscale e stante l'assenza di specifica allegazione per ritenere che parte dei beni o dei denari sottoposti a confisca siano stati acquistati o provengano da lecite attività economiche non denunciate al fisco, le sentenze di merito hanno affrontato anche la questione relativa agli effetti che debbono riconoscersi allo scudo fiscale in relazione al giudizio di proporzionalità. Si tratta di una questione che la difesa ha più volte posto nei motivi di ricorso e, specificamente, con l'ultimo di questi. Al riguardo, le sentenze di merito, sotto diversi aspetti, hanno concordemente escluso che lo scudo fiscale operi come una sorta di "speciale" copertura assicurativa delle operazioni di emersione, i cui effetti possano essere spesi dall'interessato a suo piacimento per giustificare maggiori imponibili accertati (pagg. 306 e ss. sentenza impugnata e pagg. 377 ss. sentenza di primo grado). Si tratta di una soluzione ermeneuticamente corretta nel suo approdo finale, per le ragioni di seguito evidenziate. Secondo la difesa l'essersi avvalso il ricorrente dello scudo fiscale farebbe venir meno gli effetti di illiceità delle condotte generatrici dell'accumulo di ricchezza che lo stesso avrebbe rimpatriato da San Marino, stante la previsione, tra gli effetti premiali dello scudo, della causa di non punibilità anche per i reati tributari di cui agli artt. 2,3,4,5 e 10 del D.Lgs. n. 74/2000. Si sarebbe al cospetto di uno strumento non di mera regolarizzazione amministrativa, per come ritenuto dai giudici di merito, ma idoneo ad elidere gli effetti penali delle condotte che a monte hanno generato i redditi rimpatriati, così rendendo pienamente spendibili in tema di sproporzione quei flussi finanziari, divenuti ormai leciti. Si tratta di una prospettazione manifestamente infondata. La Corte di legittimità, con orientamento che il Collegio condivide, ha affermato che l'art. 13-bis d.l. n. 78 del 2009, conv. in L. n. 102 del 2009 e succ. modif., non è norma abolitrice del reato, ma prevede una causa sopravvenuta di esclusione della punibilità di un reato già consumato, non inquadrabile, pertanto, né tra le cause di giustificazione che elidono la illiceità o antigiuridicità, intesa quale contrasto fra il fatto e l'intero ordinamento giuridico, rendendo inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione, né tra le cause di esclusione della colpevolezza che, lasciando integra l'antigiuridicità o illiceità oggettiva del fatto, fanno venir meno solo la possibilità di muovere un rimprovero al suo autore. Essa è, difatti, annoverabile fra le cause di esenzione della pena in senso stretto, che lasciano inalterata sia l'antigiuridicità che la colpevolezza: la non punibilità di cui al citato art. 13-bis si inquadra fra le condotte, susseguenti al reato, riparatorie dell'offesa, condotte alle quali il legislatore, in via eccezionale, attribuisce efficacia estintiva del reato (Sez. 3, n. 50308 del 15/10/2014, Carignano, Rv. 261393; Sez. 1, n. 21729 del 19/02/2018, dep. 2019, D'Aloi, Rv. 276314 - 04, pag. 76). Pertanto, l'emersione dei capitali detenuti all'estero attraverso lo scudo fiscale che siano riferibili a condotte di evasione fiscale, non svolge, quand'anche la procedura di regolarizzazione sia adempiuta e, dunque, debba applicarsi la causa di non punibilità, alcuna funzione certificante la liceità genetica degli stessi, di talché possa ritenersi che, ai fini della confisca allargata ci si trovi al cospetto di proventi ab origine leciti e, dunque, non più ascrivibili a fatti di evasione fiscale. Del resto, l'indifferenza a fini penalistici delle forme di condono del reato tributario è stata, altresì, affermata dalla Corte di legittimità con riguardo all'autoriciclaggio, essendosi ritenuta irrilevante la circostanza che per il reato presupposto, concernente la violazione della normativa tributaria, operi la causa di non punibilità contenuta nell'art. 9, comma 10, lett. c) legge 27 dicembre 2002, n. 289 (c.d. "condono tributario"). Inoltre, va anche rimarcato che non tutte le ipotesi di violazioni finanziarie rientrano nell'alveo della causa di non punibilità, posto che l'esclusione della punibilità per i reati tributari attiene alle ipotesi di cui agli artt. 2,3,4,5 e 10 D.Lgs. n. 74/2000, mentre resta decisamente fuori dall'invocata "protezione", tra le altre, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, indicata nelle sentenze di merito quale condotta illecita generatrice di gran parte dei flussi finanziari poi rimpatriati, la cui genesi delittuosa non sarebbe elisa dall'operatività del condono. Peraltro, la valenza dello scudo è stata altresì esclusa dai giudici di merito sotto altro profilo che nel motivo di ricorso rinviene generica contestazione. In particolare, nella sentenza di primo grado (v. pag. 383) si legge, infatti, che tra la condotta posta in essere in frode all'Erario, generatrice negli anni dell'accumulo di ingenti ricchezze, e la successiva attività di rimpatrio di buona parte del capitale allocato all'estero, si era frapposta un'ulteriore attività: quella dell'esportazione dei capitali a San Marino e del loro investimento in forme di risparmio bancario, in giacenze fruttifere, in assicurazioni, ecc. Si sarebbe, dunque, al cospetto di variegate forme di reimpiego della liquidità non lecitamente accumulata in varie forme - che, oltre a realizzare più fatti all'epoca non punibili di autoriciclaggio - hanno decisamente alterato il "nesso sinallagmatico" che deve sussistere tra il profitto dei reati fiscali ed il capitale soggetto a strumenti di condono fiscale. Mancherebbe, pertanto, quel legame diretto tra reati tributari e le somme oggetto di regolarizzazione, con la conseguenza che avendo i giudici di merito escluso che tale sinallagma sia mai stato dimostrato dall'imputato, ne conseguirebbe non solo la punibilità di tutte le fattispecie penali tributarie che originariamente hanno dato vita a quei flussi finanziari, ma l'indifferenza ai fini del giudizio di sproporzione delle somme oggetto di regolarizzazione. Infine, si è anche escluso - nelle conclusioni non prive di rilievo raggiunte dal Gup - che l'avvalersi dello scudo fiscale del 2009 possa costituire una delle forme tipiche di estinzione dell'obbligazione tributaria a cui l'art. 240-bis cod. pen. fa riferimento per consentire di allegare, ai fini del giudizio di sproporzione, i proventi da evasione fiscale. Si è, infatti, sottolineato come tale forma di regolarizzazione costituisca una sorta di condono "improprio", avente natura eccezionale e derogatoria degli ordinari istituti premiali di definizione previo adempimento delle controversie tributarie (ravvedimento operoso, accertamento con adesione, acquiescenza agli avvisi di accertamento, definizione delle liti pendenti, ecc.), in ragione non solo della diversità dei presupposti e degli ambiti applicativi, soprattutto con riguardo all'imposta sul valore aggiunto, ma anche sotto il profilo degli esiti satisfattivi per l'Erario. Di conseguenza, resta priva di decisività l'ulteriore questione, pur affrontata nei motivi di ricorso, se il ricorrente si sia ritualmente avvalso dello scudo fiscale nelle competenti sedi, aspetto che secondo la difesa il giudice del merito avrebbe trascurato a fronte di produzioni documentali che, in quanto attinenti a profili di merito, non sarebbero scrutinabili in questa sede, non risultando al riguardo dedotti specifici travisamenti. 20. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, condannandosi il ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso di Me.Vi.Se. che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di Er.Pi., Te.Ge., Er.Gi., Di.Pa.Ru. e Da.Ro. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende. Così deciso, il 07 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria l'11 gennaio 2024.
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