top of page

L'evasione artificiosa della tassa di successione configura truffa aggravata ai danni dello Statoe

Truffa

Cassazione penale sez. III, 04/07/2024, n.36776

È configurabile il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, ove ne sussistano gli ulteriori elementi costitutivi, nella condotta di artificiosa evasione della tassa di successione, in quanto, non ricadendo tale materia impositiva in alcuna disposizione del d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, non è configurabile alcun rapporto di specialità, né alcuna duplicazione incriminatrice rispetto alla normativa penal-tributaria. (Fattispecie cautelare relativa, tra l'altro, al contestato delitto di cui all'art. 640, comma 2, n. 1, c.p., consistito nella rappresentazione fittizia della residenza abituale della de cuius in Svizzera, tale da determinare la fraudolenta sottrazione all'erario alla tassa di successione della stessa).

L'aggravante della truffa si applica anche se il pericolo immaginario prospettato riguarda l'agente stesso

Indebita percezione di pubbliche erogazioni: differenza rispetto alla truffa aggravata per assenza di induzione in errore

Induzione indebita e truffa aggravata del pubblico ufficiale: distinzione tra complicità e inganno del soggetto passivo

L'evasione artificiosa della tassa di successione configura truffa aggravata ai danni dello Statoe

Truffa: il diritto di querela spetta sia al soggetto raggirato sia a chi subisce il danno patrimoniale

Truffa aggravata: il profitto del reato è determinato dal valore di mercato dei beni ottenuti con raggiri

Modifica i chilometri dell'autovettura prima di venderla: è truffa contrattuale

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 26 marzo 2024, il Tribunale di Torino ha rigettato le istanze di riesame, avanzate nell'interesse di Fe.Gi., El.Jo., El.La. ed El.Gi., avverso il decreto emesso dal Pubblico Ministero presso il medesimo Tribunale, in data 6 marzo 2024, con cui era stato disposto il sequestro probatorio di beni elettronici e documenti, in relazione agli ipotizzati reati di cui: agli artt. 110 cod. pen. e 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000, perpetrati con riguardo alle dichiarazioni fiscali di Ca.Ma., vedova Ag., deceduta nel 2019, riferiti ad evasione Irpef tramite simulazione di residenza prevalente in Svizzera, relativamente alle annualità 2015-2019 (capi 1-5 dell'incolpazione, provvisoriamente ascritti ai soli Fe.Gi. ed El.Jo.), all'art. 640, secondo comma, n. 1), cod. pen., relativamente alla falsa rappresentazione di circostanze incidenti sul regime fiscale della vicenda successoria della Ca.Ma., tale da determinare l'evasione della tassa di successione della de cuius, sul presupposto della predetta fittizia residenza svizzera di quest'ultima (capo 6 dell'incolpazione, per cui risultano indagati, in concorso, anche El.La. ed El.Gi.). Nello specifico, il decreto oggetto del provvedimento impugnato era adottato a seguito dell'annullamento, per mancanza di motivazione in ordine al nesso di pertinenzialità differita ed alla proporzionalità dei beni sequestrati, di altro precedente decreto, emesso in data 7 febbraio 2024, con riferimento, originariamente, ai soli capi 1) e 2) dell'incolpazione provvisoria, afferenti alla sola evasione Irpef - per un totale di imposta evasa pari ad Euro 3.504.532,00, per il 2018, e ad Euro 244.266,01, per il 2019 - ascritta, in concorso tra loro e con altri, a Fe.Gi. e ad El.Jo. in conseguenza della mancata dichiarazione della somma di Euro 8.166.669,00, quale rendita vitalizia percepita da Ca.Ma. a seguito di un accordo successorio transattivo intervenuto, alla morte del marito, con la figlia Ag.Ma.; rendita che, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbe stata fraudolentemente sottratta alla tassazione italiana mediante la rappresentazione fittizia della residenza abituale della de cuius in Svizzera. 2. Avverso l'ordinanza, Fe.Gi., mediante difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. Con un primo motivo di censura, si lamenta la violazione delle disposizioni incriminatrici, relativamente all'assenza del fumus commissi delicti e del contributo concorsuale del ricorrente, nonché dell'art. 125 cod. proc. pen. Nello specifico, sostiene la difesa che - diversamente da quanto fatto nel decreto precedentemente annullato dal Tribunale del riesame, afferente ai soli capi di incolpazione provvisoria 1) e 2), riferiti all'ipotizzata evasione Irpef per le annualità 2018 e 2019 - nel nuovo decreto, oggetto della presente impugnazione, il Pubblico Ministero avrebbe erroneamente omesso di descrivere non solo la condotta di reato ascritta all'odierno indagato, essendosi limitato a riportare i riferimenti giuridici delle norme violate, ma anche gli elementi rilevanti ex art. 110 cod. pen. del concorso del ricorrente, quale professionista, nelle nuove contestazioni dei reati dichiarativi afferenti agli anni di imposta 2015, 2016 e 2017, nonché nel reato, anch'esso di nuova contestazione, di cui all'art. 640, secondo comma, cod. pen. Mancherebbe un puntuale confronto con la circostanza che, se per le dichiarazioni riferite al biennio 2018-2019, al professionista era addebitata la trasmissione, quale intermediario in Italia, delle dichiarazioni sottoscritte dall'amministratore svizzero - essendo la Ca.Ma. già deceduta - per quelle contestate nel nuovo decreto sarebbe stata necessaria una nuova descrizione dei fatti, essendo state quelle dichiarazioni sottoscritte dalla stessa Ca.Ma., ancora in vita e trasmesse al fisco italiano da un altro consulente commercialista, il dott. Fe.Ce. Analoghe considerazioni varrebbero, poi, anche per il diverso reato di truffa ai danni dello Stato, relativamente al quale la prospettazione difensiva rileva la necessità - rimasta disattesa nel caso - di descrivere analiticamente l'eventuale contributo materiale o morale addebitato al professionista, non potendosi ritenere sufficiente a tal fine la violazione dell'obbligo di presentazione della denuncia di successione in Italia di cittadina residente in Svizzera dal 1976, trattandosi di adempimento non gravante sul professionista. Per l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale anche l'omessa allegazione di atti investigativi richiamati per relationem nel decreto potrebbe integrare violazione di legge processuale a pena di nullità, il decreto di sequestro emesso in data 26 marzo sarebbe peraltro nullo, giacché mancante dell'allegazione della relazione di polizia giudiziaria del 05/03/2024, ivi ampiamente richiamata. 2.2. In secondo luogo, ci si duole dell'inosservanza degli artt. 125,247,253 e 275 cod. proc. pen. e, segnatamente, della violazione del principio di adeguatezza e proporzionalità, nonché della mancanza di un nesso di pertinenzialità tra il decreto, i documenti cartacei e il materiale informatico oggetto di spossessamento prolungato. Secondo la prospettazione difensiva, l'inesistenza di una concreta descrizione dei reati per cui si procede, già oggetto del primo motivo di ricorso, ha inciso anche sul diverso piano della pertinenza, rilevante ex art. 253 cod. proc. pen., così determinando l'adozione di provvedimenti meramente esplorativi, tanto con riferimento ai numerosi faldoni prelevati nell'ufficio del ricorrente - per i quali non potrebbe ritenersi sufficiente la motivazione del decreto nella parte in cui giustifica il sequestro alla luce di "un'esigenza di controllo differita del loro contenuto da svolgersi in una fase successiva" - quanto in relazione al cellulare ed alla copia dei server di studio, la cui pertinenzialità, solo presunta, risiederebbe invece nell'esigenza investigativa di provare "il dolo richiesto dalla legge". A parere del ricorrente, si tratterebbe infatti di una descrizione che, oltre a non essere satisfattiva del criterio della pertinenza, confonderebbe la supposta esigenza investigativa rappresentata con il diverso concetto previsto dall'art. 253 cod. proc. pen., il quale dovrebbe essere ancorato ad oggettivi presupposti di collegamento fra il reato ed il bene da sequestrare, predeterminabili ex ante. A ciò si aggiunga che, a parere del ricorrente, l'ordinanza impugnata sarebbe altresì viziata per assenza di motivazione anche con riferimento alle modalità esecutive del decreto di sequestro. Avendo sottratto al contraddittorio la fase dell'analisi della cosiddetta "pertinenza differita" dell'ingente documentazione cartacea prelevata, dei dati acquisiti dal server secondo parametri e chiavi di ricerca ignote alla parte giacché non indicate nel relativo verbale di perquisizione, e del telefono cellulare, ingiustificatamente sottoposto a provvedimento ablativo dal primo sequestro del 7 febbraio 2024, il Pubblico Ministero avrebbe violato il diritto della difesa di poter conoscere ed identificare quanto asportato, oltre che la legge n. 48 del 2008, la quale, in materia di criminalità informatica, non consente il sequestro di interi sistemi informatici. Meramente apparente sarebbe, del resto, la motivazione del provvedimento gravato laddove il Tribunale del riesame ha ritenuto che il vaglio differito di pertinenzialità dei beni in sequestro fosse stato rispettato mediante l'impegno del Pubblico Ministero di esaurire entro il più breve tempo possibile le attività tecniche finalizzate a copiare, selezionare e restituire, anche in copia, ogni dato non rilevante per l'indagine. Cosi facendo, il Pubblico Ministero avrebbe continuato a detenere i dati riservati del ricorrente nel server e nel cellulare senza alcun termine prevedibile. 2.3. Con un terzo motivo di ricorso, si censura la violazione del principio del ne bis in idem cautelare di cui all'art. 649 cod. proc. pen., in relazione alla precedente ordinanza di parziale accoglimento, emessa in data 28 febbraio 2024 dal medesimo Tribunale del riesame di Torino. Secondo la difesa, l'ordinanza impugnata sarebbe lesiva del divieto di secondo giudizio giacché il Pubblico Ministero, con il nuovo decreto di sequestro, anziché addurre nuovi elementi fattuali, si sarebbe limitato a riproporre i precedenti reati fiscali ex art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000, ampliando le annualità in contestazione ed aggiungendo in epigrafe il solo reato di cui all'art. 640 cod. proc. pen., senza nessuna descrizione della condotta e sulla base di un quadro investigativo che, a ben vedere, non apparirebbe differente, essendo immutato l'oggetto del possibile sequestro rispetto alle dichiarazioni fiscali, reiterate solo per più anni, ed essendo di fatto immutate le stesse esigenze investigative, comuni anche alla truffa ai danni dello Stato, dovendosi considerare rilevante ai fini della successione, qualora radicata in Italia, la stessa base imponibile dei redditi, degli immobili e delle disponibilità finanziarie che non è stata dichiarata. In assenza di un apprezzabile quid novi, il Pubblico Ministero avrebbe imposto, dunque, una nuova misura ablativa attraverso la mera rivalutazione e riproposizione di quegli stessi argomenti già sottoposti al vaglio di merito e di legittimità del Tribunale del riesame, così aggirando l'efficacia preclusiva della prima ordinanza. 2.4. Con una quarta censura, si eccepisce la nullità dell'ordinanza gravata e del decreto dì sequestro del 6 marzo 2024, derivata ex art. 185 cod. proc. pen., in conseguenza dell'annullamento parziale del primo decreto del 7 febbraio 2024, in forza dell'ordinanza del 28 febbraio 2024 del Tribunale del riesame, sul rilievo che anche il provvedimento oggetto della presente impugnazione riproporrebbe il medesimo difetto motivazionale del precedente decreto. Sostiene il ricorrente che, come già il primo decreto di sequestro, anche il provvedimento gravato mancherebbe di qualsivoglia indicazione specifica in ordine alle chiavi logiche da utilizzare per circoscrivere ex ante la ricerca nella prospettiva di cui all'art. 27,5 cod. proc. pen., così giungendosi a reiterare la selezione ex ante del materiale cartaceo, in difetto di alcuna preventiva indicazione funzionale. La stessa circostanza che, nel secondo decreto, per stessa ammissione del Tribunale del riesame, siano stati utilizzati solo gli elementi indiziari tratti dall'analisi dei documenti non dissequestrati in sede di riesame costituirebbe l'esplicito riconoscimento dell'assenza totale di qualsivoglia quid novi, avendo il Pubblico Ministero sviluppato il proprio atto solo sulla base di elementi di cui già disponeva. Contrariamente a quanto argomentato dal giudice cautelare, inoltre, il primo decreto rappresenterebbe l'antecedente logico necessario del secondo provvedimento; di talché, trattandosi di due sequestri consecutivi, essendo stato parzialmente dichiarato nullo il primo, esso dovrebbe estendere il proprio vizio all'atto successivo che dallo stesso dipende. A parere del ricorrente, in particolare, l'ordinanza impugnata sarebbe carente, laddove non ha fornito motivazione sull'eccezione difensiva devoluta ai sensi dell'art. 185 cod. proc. pen. in riferimento all'acquisizione particolare della copia forense del server dello studio dell'odierno indagato: la riconosciuta nullità dell'apprensione della predetta copia, infatti, dovrebbe propagare i propri effetti caducatori anche sul secondo provvedimento di sequestro, il quale adotterebbe come presupposto un atto dichiarato nullo. 2.5. Con un quinto motivo di impugnazione, si denuncia, infine, la violazione dell'art. 5 del D.Lgs. n. 139 del 2005, quanto al rigetto della richiesta di opposizione del segreto professionale da parte dell'indagato, in relazione al combinato disposto degli artt. 200, comma 1, lettera d), 256 e 103 cod. proc. pen. Secondo la prospettazione difensiva, il Pubblico Ministero avrebbe erroneamente ritenuto inopponibile, da parte del professionista sottoposto ad indagini, qualsivoglia segreto professionale sulla base di una sentenza della Corte di cassazione del 1990, omettendo tuttavia di confrontarsi, non solo con le modifiche introdotte, alla normativa processuale del segreto, con la legge n. 48 del 2008, ma anche con due recenti pronunce della Corte di legittimità, estensive della facoltà di opporre il segreto professionale financo al professionista indagato, nonché con la sentenza n. 40 del 2012 della Corte costituzionale, applicativa della garanzia del segreto ex art. 41 della legge n. 124 del 2007 anche alla figura dell'imputato. In conseguenza di ciò, si sarebbe omesso di attivare la procedura di garanzia, prevista dall'art. 256 cod. proc. pen., che avrebbe dovuto comportare tra le parti un confronto sulla tipologia dei documenti e sulla valenza per i medesimi del segreto professionale, non potendosi ritenere legittima un'ispezione volta a rinvenire, all'interno di uno studio professionale, atti indeterminati. Trattasi, del resto, sia di un soggetto rientrante nella previsione di cui all'art. 200, comma 1, lettera d), cod. proc. pen. - vincolato cioè dall'obbligo del segreto professionale rispetto alle pratiche e agli incarichi da lui evasi, nonché ai documenti regolarmente custoditi - che di documentazione tutta riconducibile al rapporto fiduciario e professionale intrattenuto dal ricorrente con la Ca.Ma., ivi compresa la difesa, assunta a favore della donna, relativamente al contenzioso tributario avverso l'Agenzia delle Entrate, conclusosi nel luglio 2020. Oltre ad avere violato le garanzie legate al segreto non prevedendo l'ordine di esibizione, l'autorità giudiziaria avrebbe altresì mancato di rispettare la procedura ex art. 256 cod. proc. pen. nella fase di esecuzione del sequestro, allorché, una volta opposto il segreto professionale, avrebbe omesso di sottoporre il vaglio di quanto reperito al necessario contraddittorio tra le parti, così precludendo qualsivoglia accordo sul punto, oltre che l'eventuale esperimento della procedura di opposizione attivabile ai sensi dell'art. 263 cod. proc. pen. A favore della prospettazione difensiva, secondo il ricorrente, deporrebbe peraltro l'ulteriore garanzia prevista dall'art. 103, comma 2, cod. proc. pen., che prevede l'espresso divieto di sequestrare atti di causa - salvo che costituiscano corpo del reato - quali, nel caso di specie, i due fascicoli intitolati "Ca.Ma. contenzioso tributario", rispetto ai quali il ricorrente avrebbe rivestito la qualifica di vero e proprio difensore. Secondo quanto argomentato dalla difesa, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lettera c), e 185 cod. proc. pen., potrebbe infine sostenersi la nullità degli atti eseguiti in assenza della richiesta di esibizione ex art. 256 cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità della documentazione illegittimamente acquisita e sequestrata. 3. Avverso l'ordinanza, anche El.Jo., tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 3.1. Con un primo motivo di gravame, si lamentano sia la violazione dell'art. 253 cod. proc. pen., relativamente alla nullità del decreto di sequestro del 6 marzo 2024 in quanto ri-esercizio da parte del Pubblico Ministero del potere cautelare in assenza di novum e vista la preclusione processuale dovuta al precedente intervento del Tribunale con l'ordinanza del 26 marzo 2024, sia l'apparenza motivazionale del provvedimento, traducentesi in violazione di legge ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. In primo luogo, premette la difesa che, in linea generale, al Pubblico Ministero non è preclusa l'emissione di un nuovo sequestro qualora l'annullamento da parte del Tribunale del riesame non abbia riguardato il fumus commissi delicti, ma lamenta che l'impugnazione sarebbe stata proposta, nel caso di specie, avverso l'ordinanza caducatola del precedente provvedimento, soltanto al fine di paralizzare l'effetto dell'intervento giurisdizionale sulla sua azione cautelare. Si sostiene che il Tribunale del riesame avrebbe erroneamente travisato il concetto di novum allorché avrebbe erroneamente confuso il fumus con il requisito della maggiore chiarezza della motivazione del sequestro rispetto al precedente, omettendo tuttavia di considerare che la novità idonea a resistere alla preclusione processuale dovrebbe delinearsi nella sua materialità e concretezza, non potendo essa essere costituita da una riconsiderazione, reinterpretazione o ripresentazione degli stessi fatti. Nel caso di specie, del resto, emergerebbe con evidenza come la pronuncia abbia espressamente inferito il novum da una migliore esposizione degli elementi già richiamati nel precedente provvedimento cautelare, ovvero da atti che erano già stati sottoposti al vaglio del giudice e depositati con il primo incidente cautelare - quali i documenti offerti dall'esponente Ag.Ma., figlia della de cuius Ca.Ma., ovvero i dati ricavabili dalla compilazione del quadro RW da parte degli indagati - valutati non solo come inconferenti rispetto all'imputazione provvisoria ma altresì privi di riscontri quanto ad eventuali redditualità ulteriori ascrivibili nel perimetro della contestazione ex art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000. Si contesta, infine, che il richiamo nell'ordinanza gravata agli altri elementi indicati in decreto dal Pubblico Ministero sarebbe stato utilizzato dal provvedimento impugnato a conferma del fumus dell'esterovestizìone e della estensione della contestazione penalistico-tributaria ad annualità precedenti, e non anche in ordine all'allargamento delle voci reddituali oggetto di reato. Rispetto ad esse, nessun elemento di novità sarebbe stato effettivamente portato a supporto della nuova misura, non potendosi considerare tale l'estensione temporale dell'indagine relativa al reato di dichiarazione fraudolenta ad anni d'imposta precedenti al 2018, perché lo stesso Tribunale del riesame aveva precisato, nella prima ordinanza parzialmente annullata, che tale estensione avrebbe dovuto intendersi implicitamente dedotta già con la prima misura cautelare, in quanto sviluppo prevedibile dell'imputazione trasfusa nel fumus. In connessione con il vizio processuale sopra descritto, si eccepisce, inoltre, la violazione di legge, in ragione della presunta apparenza della motivazione dell'ordinanza gravata, la quale intenderebbe altresì celare la sua contraddittorietà con il provvedimento adottato in precedenza, specie con riferimento alle ricerche postulate dal Pubblico Ministero sulla società Dicembre SS e su altre società estere parimenti riconducibili alla Ca.Ma. Se, infatti, la prima ordinanza aveva predicato sul punto la totale assenza di riscontri in ordine alla redditività di tali società, tale da impossibilitare qualsivoglia collegamento delle predette compagini con l'ipotesi accusatoria, il provvedimento ora impugnato contraddittoriamente attribuirebbe rilievo sia alla società off-shore Bundeena, divenuta rilevante rispetto al fumus in quanto produttrice di redditi, sia alla stessa Dicembre SS, la quale diviene ora redditizia per la de cuius proprio in ragione del titolo di possesso azionario, all'opposto ritenuto inconferente nella prima ordinanza. A parere del ricorrente, la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe, infine, carente nella parte in cui, disattendendo le doglianze difensive sul punto, ha omesso qualsivoglia risposta, sia con riferimento alla preclusione processuale nella quale sarebbe incorso il decreto di sequestro nella parte in cui avrebbe asserito che le acquisizioni presso terzi non sarebbero state cassate dalla prima ordinanza del Tribunale, sia con riguardo all'indebito utilizzo, nel decreto, di tali illegittime acquisizioni probatorie. 3.2. Con un secondo motivo di censura, ci si duole della violazione dell'art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., in riferimento all'astratta configurabilità del fumus del delitto di truffa ai danni dello Stato, sul rilievo che l'ordinanza impugnata delineerebbe un illecito in realtà incoerente con l'assetto strutturale della truffa tipizzata dal legislatore, servendosi di tale fattispecie per colmare i "vuoti di tutela" lasciati dal D.Lgs. n. 74 del 2000. Nello specifico, deduce il ricorrente che, trattandosi di due omissioni prive di reciproca incidenza - costituite, prima, dalla taciuta verità al fisco e, dopo, dalla mancata presentazione della dichiarazione ereditaria - sussisterebbe la palese carenza degli elementi costitutivi del fatto tipico dell'induzione in errore e della cooperazione volontaria dell'offeso, laddove invece lo schema tipizzato dal legislatore nel reato di truffa, che è pacificamente un reato di evento, postulerebbe una compenetrazione della condotta artificiosa nella sfera psichica del soggetto passivo, ponentesi in rapporto deterministico con la condotta cooperativa di quest'ultimo, guidata dalla positivizzata induzione in errore, cagionata dagli artifici del soggetto attivo. L'ordinanza gravata, cioè, facendo coincidere il meccanismo fraudolento di cui ai capi 1-5 dell'incolpazione provvisoria con la fattispecie truffaldina ex art. 640 cod. pen., avrebbe sostanzialmente destrutturato il tipo legale tracciato da quest'ultima norma, indebitamente trasmutato in illecito di mera condotta, relativamente al quale i pretesi artifici finirebbero per obliterare gli indefettibili requisiti dell'induzione in errore e del conseguente atto di disposizione. Ciò che, in spregio al principio di tassatività, determinerebbe l'inedita incriminazione di una condotta il cui elemento caratterizzante verrebbe ad essere il tributo stesso in quanto credito statale, estraneo alla sistematica del D.Lgs. n. 74 del 2000, e giammai attinto da alcuna norma incriminatrice ad hoc. A favore della prospettazione difensiva deporrebbe, del resto, l'unico precedente in termini della Corte di cassazione, risalente al 1979, facente riferimento alla fraudolenta evasione di tributi ereditari, in relazione al quale la truffa era stata esclusa proprio per difetto dei già menzionati elementi costitutivi dell'illecito. Né - sostiene il ricorrente - si potrebbe in alcun modo trarre, dalla giurisprudenza richiamata, in materia di Iva, dall'ordinanza gravata, la conseguenza che il delitto di truffa ai danni dello Stato colmi i vuoti di tutela del D.Lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di pronunce tutte facenti riferimento, non già all'imposta nazionale, bensì all'Iva transfontaliera, evidentemente differente e munita di un diverso statuto giuridico. Secondo la prospettazione difensiva, inoltre, nel caso di specie, non sussisterebbero né la qualità di eredi in capo agli indagati né il profilo dell'ingiusto profitto prescritto dal secondo comma dell'art. 640 cod. pen. In primo luogo, infatti, gli obblighi di monitoraggio, come regolati dalla legge n. 167 del 1990, imporrebbero la compilazione del quadro RW non solo a chi detenga beni all'estero e quindi ne sia proprietario o titolare effettivo, ma anche a chiunque sia munito di poteri di movimentazione o beneficio di tali beni; con la conseguenza che tale compilazione non consentirebbe di inferire ex se la qualità di proprietari di quanto oggetto di dichiarazione e quindi di eredi di tali attività. In secondo luogo, non sussisterebbe nell'ordinamento italiano - che all'art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 346 del 1990, onera alla presentazione della dichiarazione di successione, tra gli altri, i chiamati all'eredità, ma vincola al pagamento del relativo tributo i soli eredi ed i legatari - la qualifica di "eredi di fatto", indebitamente attribuita dal Tribunale del riesame agli indagati. Al contrario, i chiamati all'eredità e gli altri soggetti obbligati alla dichiarazione, fin tanto che l'eredità non sia accettata, sarebbero tenuti solidalmente all'imposta nel limite del valore dei beni ereditari già posseduti. In terzo luogo, non si sarebbe tenuto conto del fatto che, in forza dell'art. 23 del Reg. UE n. 650 del 2012, alla successione in esame, si applicherebbe la legge elvetica. Data la predetta contestazione ereditaria, e posto che nessuno degli indagati, in mancanza di qualsivoglia accettazione dell'eredità, sarebbe fornito del certificato ereditario svizzero e di qualsiasi potestà di amministrazione, possesso e disposizione dei beni ereditari, costoro non potrebbero quindi qualificarsi come gli eredi della de cuius Ca.Ma. e, dunque, né come i soggetti passivi dell'imposta ereditaria che si assume evasa né come i possibili autori della complessa macchinazione sussunta al capo 6) dell' incolpazione provvisoria. Nell'ultima parte del motivo di ricorso, si lamenta, infine, che il giudice del riesame, affermando che il D.Lgs. n. 74 del 2000 non rechi il monopolio di ogni forma di tutela penale dei crediti del fisco, avrebbe così determinato un sovvertimento dell'indirizzo tracciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1235 del 2010 - afferente al tema della disciplina dei reati tributari contenuta nel predetto decreto legislativo e della sua eterointegrazione tramite l'invocazione della truffa ai danni dello Stato - foriero, secondo l'indagato, di insanabili distorsioni nella sistematica del diritto penale tributario. Secondo la predetta pronuncia, infatti, il sistema penale tributario delineato dalla citata normativa costituirebbe un corpus chiuso ed autosufficiente cosicché la condotta di frode al fisco non potrebbe che esaurirsi all'interno del quadro sanzionatorio delineato dal D.Lgs. n. 74 del 2000 e dalle specifiche norme penali tributarie previste dall'ordinamento, con la conseguente inconfigurabilità della truffa ai danni dello Stato rispetto al fenomeno dell'evasione fiscale, così come peraltro desumibile anche dalla disciplina dettata in materia di condono fiscale - riferita non solo alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ma anche ad una serie di imposte sprovviste di specifiche previsioni sanzionatone di carattere penale - previdente un elenco di reati rispetto ai quali, in caso di perfezionamento della predetta sanatoria, sarebbe stata esclusa la punibilità. Erroneo sarebbe dunque il richiamo, operato dal giudice del riesame, a precedenti giurisprudenziali in cui era stata ipotizzata la truffa ai danni dello Stato con riferimento all'evasione dell'imposta sul valore aggiunto, così colmando le presunte lacune del D.Lgs. n. 74 del 2000, che peraltro già reprime l'evasione di tale imposta; precedenti che, infatti, sarebbero riferiti alla diversa imposta dell'Iva all'importazione, già espressamente presidiata a livello penalistico, rispetto alla quale, dunque, la contestata truffa ex art. 640, secondo comma, n. 1), cod. pen. non sarebbe intervenuta né in funzione vicaria né in funzione ancillare al D.Lgs. n. 74 del 2000. Soltanto con riguardo a determinati tributi, e solo con riferimento a talune specifiche modalità di evasione delle medesime, il legislatore avrebbe dunque inteso di prevedere, oltre alle sanzioni di natura amministrativa, anche presidi di carattere penalistico. Tale ruolo "ancillare" del reato di truffa rispetto alle lacune del D.Lgs. n. 74 del 2000, del resto, determinerebbe molteplici distorsioni sul piano sistematico, postulando l'incriminazione di siffatti tributi al di fuori di ogni soglia di punibilità, senza alcuna previsione di premialità, senza limiti al tentativo, senza il beneficio di termini di comporto in caso di omessa presentazione, e comportando altresì il concorso di sanzione penale e sanzione amministrativa, con evidente lesione del principio di proporzionalità. 3.3. Con un terzo motivo di ricorso, ci si duole, infine, della violazione degli artt. 253 e 247, comma 1-bis, cod. proc. pen., in relazione ai principi di adeguatezza e proporzionalità e al nesso di pertinenzialità in ordine al materiale informatico sequestrato, nonché dell'apparenza della motivazione, per avere il decreto del 6 marzo 2024 reiterato l'esigenza acquisitiva del materiale digitale, senza confrontarsi con i criteri dettati dalla giurisprudenza di legittimità e ribaditi dal primo giudice cautelare. Il decreto oggetto dell'impugnata ordinanza si limiterebbe ad un generico richiamo all'apprensione di dati informatici, senza esplicitare ex ante alcun criterio di ricerca o parola-chiave che possa consentire alla difesa un vaglio in sede giurisdizionale del nesso di pertinenzialità tra il fumus e l'acquisizione, così legittimando l'adozione di un provvedimento meramente esplorativo, volto a consentire la lettura di tutti i file presenti sui supporti informatici attinti, con riserva di selezionare solo in seguito quelli pertinenti al reato. L'esigenza indifferibile di porre sotto sequestro solo il materiale digitale che sia pertinente al reato, del resto, non potrebbe ritenersi soddisfatta dalla creazione di una copia forense dei dati informatici salvati nel contenitore, la quale, se appare satisfattiva della necessità di preservare la genuinità del dato, non risulta tuttavia rispondente all'esigenza di sequestrare soltanto i beni aventi un'effettiva funzione probatoria. Né il Tribunale del riesame avrebbe in alcun modo provveduto a colmare tale lacuna, avendo cercato, all'opposto, di salvare gli effetti del decreto, mediante l'apodittica affermazione che il testo del decreto e la nota di produzione del Pubblico Ministero in udienza consentirebbero di desumere in qualche modo i criteri di selezione, cimentandosi in un elenco improvvisato ed estemporaneo di possibili parole-chiave. 4. La sentenza è stata impugnata, mediante il difensore e con unico atto, anche da El.La. ed El.Gi., i quali hanno proposto un primo e un secondo motivo di ricorso analoghi a quelli dedotti nell'interesse di El.Jo., riportati sub 2.2. e 2.3. In relazione al primo motivo di gravame, va aggiunto che, secondo la difesa, il provvedimento gravato, oltre ad essere viziato quanto alla configurazione degli elementi costitutivi della truffa, presenta altresì una descrizione delle ragioni della ascrivibilità del fumus agli odierni ricorrenti talmente vaga da concretizzare una motivazione apparente. Si osserva che, mentre il primo decreto di sequestro del 7 febbraio 2024 non faceva menzione alcuna degli odierni ricorrente - che anzi vi figuravano come terzi - nel successivo decreto del 6 marzo 2024, costoro sarebbero risultati indagati per il delitto di truffa ex art. 640, secondo comma, n. 1), cod. proc. pen., senza che la loro ribadita qualifica di eredi avesse subito una qualche evoluzione in senso accusatorio, con un iter argomentativo che, all'opposto: a) risulterebbe avulso dalle risultanze processuali giacché privo di qualsiasi riferimento a fatti specifici; b) farebbe ricorso ad argomentazioni di puro genere o asserzioni apodittiche, affidandosi all'erroneo sillogismo per cui beneficiare di una pretesa condotta illecita significa di per sé parteciparvi; c) troverebbe fondamento su proposizioni prive di efficacia dimostrativa. 5. Con memoria datata 17 giugno 2024, le difese di El.Jo., El.La. e El.Gi. hanno presentato motivi aggiunti ad integrazione delle doglianze già sviluppate nei ricorsi principali, con i quali insistono in quanto già dedotto. 5.1. Con un primo motivo aggiunto, si ripete che, in violazione del cosiddetto giudicato cautelare - che dispiega i suoi effetti limitatamente all'ambito della cognizione del giudice della cautela ed opera dunque allo stato degli atti, impedendo la reiterazione della misura sugli stessi presupposti già vagliati in tale sede, salva la proposizione di elementi nuovi - il Pubblico Ministero, mediante il secondo decreto di sequestro, avrebbe determinato una vistosa irregolarità processuale, rappresentata dalla contestuale litispendenza su misure cautelari analoghe per tenore ed effetti, in assenza di qualsivoglia elemento di novità. Tale, del resto, non potrebbe considerarsi il richiamo, nel successivo decreto, a verbali di sommarie informazioni medio tempore raccolte, volti ad estendere la consumazione del delitto di dichiarazione fraudolenta agli anni 2015-2017, atteso che il giudice del riesame, non solo aveva ampiamente analizzato i documenti richiamati nella prima misura, ma si era anche pronunciato sull'implicita estensione dell'imputazione a tali annualità, così assorbendo sul punto qualsivoglia profilo innovativo emerso successivamente. Anche a voler postulare nella truffa ai danni dello Stato un effettivo elemento di novità, il necessario annullamento del sequestro quanto alla condotta di cui all'art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 non consentirebbe la sopravvivenza del titolo relativamente alla sola truffa, attesa l'evidente inscindibilità dell'ordine acquisitivo impartito dal provvedimento genetico quanto ai due reati provvisoriamente ascritti. 5.2. Con una seconda doglianza, la difesa riconferma che, anche alla luce della copiosa giurisprudenza di legittimità consolidatasi in tema di truffa aggravata ai danni dello Stato, nel caso di specie, difetterebbero sia l'elemento costitutivo dell'induzione in errore che quello dell'atto di disposizione patrimoniale. Dopodiché precisa che, sussistendo ancora i termini per la liquidazione e riscossione del tributo da parte dell'amministrazione finanziaria, la fattispecie di cui trattasi non potrebbe inquadrarsi in una forma consumata, ma al più tentata. Né, a parere dei ricorrenti, una tale condotta potrebbe fondarsi sul dolo eventuale, essendo necessario che la direzione degli atti alla consumazione sia univoca anche sul piano soggettivo. Secondo la difesa, inoltre, l'ordinanza impugnata avrebbe erroneamente sostenuto che l'indagato El.Jo., al pari dei suoi fratelli, avrebbe per la prima volta indicato i cespiti ricevuti nel 2019 a seguito della morte della Ca.Ma. solo all'esito di un controllo antiriciclaggio effettuato dalla Guardia di Finanza nel luglio del 2023, omettendo tuttavia di confrontarsi sia con l'annotazione di polizia giudiziaria del 6 febbraio 2024 che con il decreto di sequestro del mese successivo. Dai predetti atti, infatti, emergerebbe il corretto adempimento dell'indagato ai propri obblighi di monitoraggio di tutti i beni e diritti situati all'estero, ricevuti in conseguenza della morte della de cuius, sin dalla dichiarazione dei redditi relativa al primo periodo di imposta successivo al decesso (il 2019) - rimasta invariata anche a seguito dell'integrazione avvenuta nel 2023 al fine di includervi un reddito, derivante da plusvalenze su criptovalute cautelativamente dichiarato, imputato al ricorrente dalla società del Liechtenstein "Blue Dragons A.G.", dallo stesso interamente controllata - così dimostrando l'insussistenza del presunto nesso con il controllo antiriciclaggio del 2023. Analoghe considerazioni varrebbero, peraltro, secondo la difesa, anche per gli indagati El.La. e El.Gi., le cui dichiarazioni, regolarmente presentate, parimenti includerebbero i detti cespiti in relazione a tutti i periodi di imposta di residenza fiscale italiana successivi al decesso della Ca.Ma. 5.3. Con un ultimo motivo aggiunto, infine, ribadisce la difesa quanto già argomentato in punto di proporzionalità e pertinenzialità. 6. In data 21 giugno 2024, anche la difesa di Fe.Gi. ha depositato memoria, con la quale, ribadisce le argomentazioni già espresse in via principale. In primo luogo, si insiste nel ritenere che, a fronte della preclusione processuale, operante, nel caso di specie, a seguito del bis in idem per essere stato l'annullamento parziale della prima ordinanza sorretto da ragioni non esclusivamente formali o processuali, i pretesi elementi di novità del nuovo decreto di sequestro probatorio risulterebbero meramente funzionali alla giustificazione del ri-esercizio del potere ablativo, traducendosi in modifiche soltanto esteriori di un quadro di indagine sostanzialmente immutato e già sottoposto allo scrutinio del primo giudice cautelare. In secondo luogo, si afferma che, relativamente al quarto motivo di ricorso, afferente alla censurata violazione dell'art. 185 cod. proc. pen., sussisterebbe tra la precedente pronuncia di annullamento ed il nuovo sequestro una dipendenza necessaria di ordine logico, giuridico ed addirittura materiale, tale da invalidare la sottoposizione a sequestro del medesimo materiale. In terzo luogo, si ribadisce che l'operato del Pubblico Ministero si sarebbe risolto in una apprensione indiscriminata di materiale cartaceo ed informatico depositato presso lo studio Fe.Gi., priva di qualsivoglia illustrazione delle pretese ragioni della sua necessità e sottratta al successivo contraddittorio con la parte ricorrente la quale, non a caso, ad oltre quattro mesi della perquisizione, continuerebbe ad ignorare quali dati personali e riservati siano stati estrapolati. 7. Con memoria depositata in data 28 giugno 2024, infine, la difesa di El.Jo., El.La. e El.Gi. ha replicato alle conclusioni depositate dal Procuratore Generale, insistendo, ancora una volta, in quanto già dedotto. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati. 2. Il ricorso di Fe.Gi. è infondato. 2.1. Il primo motivo di doglianza, concernente la violazione degli artt. 110 cod. pen., 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000, e 640 cod. pen., in ordine alla mancanza del fumus commissi delicti e del contributo concorsuale del ricorrente, nonché con riferimento all'art. 125 cod. proc. pen., è inammissibile. 2.1.1. Sul punto è opportuno premettere che, a norma dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (ex multis, Sez. 2, n. 49739 del 10/10/2023, Rv. 285608; Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656; Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Rv. 254893). Ciò premesso, occorre rilevare che, nel caso di specie, a fronte di un percorso motivazionale, quale quello seguito dall'ordinanza impugnata, del tutto in linea con gli enunciati di questa Corte, la doglianza del ricorrente sulla pretesa violazione dei predetti principi si risolve in una richiesta di rivalutazione fattuale, non prospettabile nella presente sede di legittimità. La doglianza è, inoltre, formulata in modo non specifico, senza la prospettazione di elementi puntuali e dirimenti, tali da dimostrare un'effettiva carenza motivazionale su punti decisivi (ex plurimis, Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, Rv. 276566; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). 2.1.2. Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, ritiene comunque il Collegio che, nel caso di specie, il Tribunale abbia correttamente ravvisato il fumus dei reati di cui agli artt. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 e 640, secondo comma, n. 1), cod. pen., peraltro chiarendo espressamente, ed in maniera del tutto esaustiva, in cosa sarebbe consistito il contributo concorsuale fornito alla realizzazione dei fatti di reato dall'odierno imputato. In primo luogo, riprendendo le argomentazioni del nuovo decreto, si è adeguatamente evidenziato come il Pubblico Ministero abbia adeguatamente spiegato il motivo per cui si è ritenuto plausibile che il meccanismo simulatorio già oggetto del precedente sequestro sussistesse in realtà già a far data dalla prima annualità ancora non prescritta, e cioè il 2015, e perché involgesse anche altre voci della base imponibile, costituite da fondi investiti all'estero tramite plurime fiduciarie riconducibili ad un medesimo staff manageriale e gestionale, non essendo manifestamente illogico rinvenire nell'imposta di successione il precipitato del medesimo meccanismo fraudolento descritto ai capi 1-5 dell'incolpazione provvisoria, consistito nell'esterovestizione della residenza della de cuius, da cui consegue anche l'artificiosa rappresentazione della competenza svizzera sulle vicende ereditarie della Ca.Ma. Tali elementi, del resto, appaiono del tutto sufficienti in via indiziaria a fondare un sequestro probatorio, spettando ovviamente ai giudici del merito offrirne l'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica in sede dibattimentale. In secondo luogo, l'ordinanza ha espressamente precisato - sempre sulla base dell'attenuato standard indiziario necessario ai fini del sequestro probatorio - il ruolo di ideatore tecnico dell'operazione fraudolenta in capo a Fe.Gi., in qualità di consulente commercialista della de cuius: costui, infatti, da un lato, ebbe a consigliare la Ca.Ma., debitrice d'imposta - assistendola, finché viva, mantenendone l'apparente residenza fiscale estera anche post-mortem al fine di consentirne la presentazione delle ultime dichiarazioni, e simulando, per certi periodi, la nuda proprietà delle quote della Dicembre SS allo scopo di ridimensionare le conseguenze delle verifiche tributarie avviate sulla successione del defunto marito e culminate nel PVC del 2010 - dall'altro, rappresentandosi la frode conseguenziale all'evasione fiscale, avrebbe ecceduto il puro parere professionale, arrivando a fornire consigli e strumenti concreti per attuare l'illecito medesimo. 2.2. La seconda censura - con la quale si deduce la violazione degli artt. 125,247,253 e 275 cod. proc. pen. e, segnatamente, la violazione del principio di adeguatezza e proporzionalità, nonché del nesso di pertinenzialità del decreto, in ordine ai documenti cartacei ed al materiale informatico oggetto di spossessamento prolungato - è anch'essa inammissibile. 2.2.1. Va ribadito che il ricorso per cassazione contro ordinanze in materia di sequestro probatorio è consentito solo per violazione di legge e non anche per vizi attinenti al piano motivazionale, salvo che la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente. A ciò si aggiunga che, in tema di sequestro probatorio, il sindacato del giudice del riesame non può investire la concreta fondatezza dell'accusa - il cui riscontro è riservato al giudice della cognizione nel merito - ma deve essere limitato alla verifica dell'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato ed al controllo dell'esatta qualificazione dell'oggetto del provvedimento come corpo del reato o cosa pertinente al reato (ex plurimis, Sez. 3, n. 19141 del 08/04/2014, Rv. 260112; Sez. 5, n. 9258 del 13/01/2009, Rv. 242998; Sez. 2, n. 16639 del 22/03/2007, Rv. 236659; Sez. U., n. 20 del 11/11/1994, Rv. 199172). In particolare, il Tribunale del riesame è chiamato a verificare la sussistenza dell'astratta configurabilità del reato ipotizzato con esclusivo riferimento alla idoneità degli elementi, su cui si fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti acquisibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 3465 del 03/10/2019, dep. 28/01/2020, Rv. 278542). Va ulteriormente precisato che il sequestro probatorio, in quanto mezzo di ricerca della prova dei fatti costituenti reato, non può per ciò stesso essere fondato sulla prova del carattere di pertinenza ovvero di corpo del reato delle cose oggetto del vincolo patrimoniale, ma solo sul fumus di esso, cioè sulla mera possibilità del rapporto di esse con il reato. Qualora, quindi, dal complesso delle prime indagini tale fumus emerga, il sequestro si appalesa non solo legittimo ma opportuno, in quanto volto a stabilire, di per sé o attraverso le successive indagini che da esso scaturiscono, se esiste il collegamento pertinenziale tra l'illecito e la res (ex multis, Sez. 6, n. 33229 del 02/04/2014, Rv. 260339; Sez. 6, n. 1683 del 27/11/2013, dep. 15/01/2014, Rv. 258416). Il sequestro probatorio, infatti, non è una misura cautelare, ma un mezzo di ricerca della prova che, in quanto tale, presuppone non l'accertamento dell'esistenza di un reato, ma la semplice indicazione degli estremi di un reato astrattamente configurabile; ciò che, in altri termini, equivale a dire che il rapporto di pertinenza fra le cose sequestrate e l'ipotesi di reato per cui si procede non può essere considerato in termini esclusivi di relazione immediata, ben potendo acquisire rilievo ed essere oggetto di ricerca ed apprensione ogni elemento utili a ricostruire i fatti che anche in forma indiretta possono contribuire al giudizio sul merito della contestazione (Sez. 3, n. 13641 del 12/02/2002, Rv. 221275). 2.2.2. Ciò premesso, nel caso di specie non può ritenersi che l'ordinanza impugnata sia carente di motivazione sul punto dedotto dal ricorrente, avendo sia il decreto di sequestro che il successivo provvedimento impugnato coerentemente ritenuto pertinente la documentazione sequestrata rispetto ai reati ipotizzati, in quanto idonea a verificare l'astratta possibilità di sussumere il fatto nelle diverse ipotesi di reato di cui al capo di incolpazione provvisoria. Nello specifico, si è dato correttamente conto, alle pagg. 16-21, della necessità di sottoporre a sequestro "ogni foglio di ogni faldone, scatola, archivio, anche informatico, presso tutti i soggetti e gli enti interessati indicati in motivazione, trattandosi di beni passibili di contenere dati essenziali per verificare l'assunto accusatorio, secondo cui tutti i familiari tacciati di aver pretermesso la figlia della Ca.Ma., Ag.Ma., fossero adusi alla movimentazione di cospicue liquidità a scopi di investimento all'estero" mediante società fiduciarie, svizzere, lichtensteiniane ed off-shore, apparendo tali elementi sufficienti in sede cautelare e spettando ovviamente ai giudici del merito operarne l'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica. Dalle indagini condotte sul punto, infatti, è emerso con maggiore chiarezza come la fonte di tali liquidità fossero proprio i flussi di utili percepiti dai soci partecipando pro-quota alla Dicembre S.S.; di talché fondamentale è risultata l'acquisizione di ogni documento di riscontro relativo alla gestione del personale dipendente ad opera della famiglia dei coindagati, oltre che di ogni documentazione strettamente afferente alla de cuius Ca.Ma. Lo stesso è a dirsi per quanto concerne i dati informatici, in ordine ai quali il Pubblico Ministero ha parimenti circoscritto il proprio interesse investigativo alle sole chat ed email, con relativi allegati e documenti, riguardanti le vicende patrimoniali oggetto di indagine, altresì delimitando l'arco temporale delle attività tecniche finalizzate a copiare, selezionare e restituire ogni dato non rilevante per l'indagine, al "più breve tempo possibile". Come correttamente osservato anche dal Tribunale del riesame, del resto, in tema di sequestro probatorio avente ad oggetto dispositivi informatici o telematici, la finalizzazione dell'ablazione del supporto alla sua successiva analisi, implica che la protrazione del vincolo, nel rispetto dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, debba essere limitata al tempo necessario all'espletamento delle operazioni tecniche, dovendosi, tuttavia, valutare la sua ragionevole durata in rapporto alle difficoltà tecniche di apprensione dei dati, da ritenersi accresciute nel caso di mancata collaborazione dell'indagato che non fornisca le chiavi di accesso alle banche dati contenuti nei supporti sequestrati (Sez. 2, n. 17604 del 23/03/2023, Rv. 284393). Ebbene, a fronte di tale percorso motivazionale, del tutto in linea con gli enunciati di questa Corte in materia di proporzionalità e nesso di pertinenzialità delle res al reato, la valutazione del ricorrente sulla pretesa violazione dei predetti principi si risolve in una valutazione fattuale, comunque non afferente ad una mancanza di motivazione. 2.3. Parimenti inammissibile, giacché manifestamente infondato, è il terzo motivo di impugnazione, riferito alla violazione del principio del ne bis in idem, in relazione alla precedente ordinanza del Tribunale, di parziale accoglimento della richiesta di riesame. 2.3.1. Quanto alla preclusione processuale che forma oggetto della doglianza, occorre precisare, in adesione ai principi già affermati da questa Corte di legittimità, che più che al "giudicato cautelare", al fine di spiegare il fenomeno del ne bis in idem cautelare, occorre piuttosto ispirarsi al principio, più pertinente, della preclusione endo-processuale (Sez. 3, n. 50310 del 18/09/2014; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014). Alla materia cautelare, infatti, non si addice l'idea del giudicato, evocativa di concetti di definitività e di stabilità estranei alla teoria del processo cautelare, connotato dal criterio della provvisorietà delle situazioni giuridiche, per definizioni modificabili in conseguenza della progressione processuale. Ciò posto, deve ribadirsi, in linea di principio, che non è consentito al Pubblico Ministero richiedere una misura cautelare reale sollecitando un nuovo vaglio degli stessi elementi già ritenuti insussistenti o insufficienti dal giudice del riesame, e non anche quando tali elementi non siano stati valutati (Sez. 2, n. 2276 del 06/10/2015, dep. 20/01/2016, Rv. 265772; Sez. 3, n. 43806 del 05/11/2008, Rv. 241415; Sez. 2, n. 51199 del 01/10/2019, Rv. 288228, fattispecie in cui la Corte ha censurato la decisione del Tribunale del riesame che aveva escluso la preclusione di che trattasi proprio con riguardo all'emissione di un decreto di sequestro preventivo a fini di confisca, ai sensi dell'art. 648-quater cod. pen., di una somma di denaro ritenuta provento di riciclaggio, già oggetto di sequestro probatorio in relazione al reato di ricettazione; provvedimento, quest'ultimo, in seguito annullato con pronunzia non più soggetta a gravame per insussistenza del fumus commissi delicti rispetto alla provenienza delittuosa del denaro). In quella sede, il giudice di legittimità ha, invero, chiarito la portata della preclusione in questione, con riferimento alla materia cautelare: il sistema ordinamentale, infatti, riconosce al Pubblico Ministero un potere di impulso che però non è indiscriminato, bensì soggetto al limite di un razionale esercizio, di cui costituisce principale corollario l'impossibilità di reiterare l'azione penale per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, con le correlate preclusioni; sistema del quale costituisce massima espressione il divieto di bis in idem. Tali principi operano anche in materia cautelare, pur con gli adattamenti imposti dalla peculiarità dei profili processuali, ed hanno portato all'elaborazione giurisprudenziale di concetti quali il "giudicato cautelare", nonché all'individuazione di un sistema di preclusioni tese a garantire la razionalità dell'apparato normativo, onde impedire che, immutate le condizioni legittimanti l'applicabilità o meno di una misura cautelare, in assenza di un quid novi, vi sia una mera rivalutazione degli stessi elementi. Tale preclusione, tuttavia, non opera, ancorché il provvedimento di sequestro sia fondato sugli stessi presupposti del precedente annullato, ove quest'ultimo sia stato dichiarato inefficace solo per vizio formale (ex multis, Sez. 3, n. 29975 del 08/05/2014, Rv. 259944; Sez. 3, n. 9972 del 05/11/2019, dep. 13/03/2020; Rv. 278422). Da ciò emerge che, a sostegno della rinnovazione della domanda cautelare del Pubblico Ministero, debbano porsi fatti o esigenze processuali dotate del carattere della novità, suscettibili di conferire rinnovata legittimazione all'atto d'impulso, superando la consunzione conseguente al pregresso esercizio dello stesso potere, non potendosi ritenere sufficiente a configurare il predetto bis in idem la semplice identità oggettiva dei beni destinatari di apprensione coattiva. 2.3.2. Orbene, dovendosi estendere i principi affermati in materia di sequestro preventivo anche al sequestro probatorio, nel caso di specie deve osservarsi che il Pubblico Ministero procedente ha assunto la nuova iniziativa probatoria, apprendendo i medesimi beni, già oggetto di sequestro probatorio annullato - per difetto di motivazione in punto di proporzionalità e pertinenza - sulla base di una contestazione nuova, fondata sull'apprezzamento di nuovi e differenti reati-presupposto, quali l'evasione Irpef per le annualità 2015, 2016 e 2017 (art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000) e la truffa ai danni dello Stato (art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen.), correttamente rinvenendosi la diversità tra i provvedimenti nell'astensione del fatto a profili di maggiore ampiezza della base imponibile con riferimento ai beni, produttivi di reddito, detenuti off-shore - quali i fondi liquidi esteri detenuti dalla società estera Bundeena, ammontanti a 900 milioni di dollari, e le implicazioni societarie, connesse, della società Dicembre in capo alla Ca.Ma. - in aggiunta a quello certo della rendita finanziaria, nonché nel rilievo delle dichiarazioni personali dei tre fratelli El.Jo., El.La., El.Gi. Secondo quanto emerge dal provvedimento impugnato, il pubblico ministero ha adeguatamente rappresentato la nuova necessità di annettere le res al procedimento, per esigenze dimostrative del fatto contestato; di talché si versa, evidentemente, al di fuori di una situazione di bis in idem. È infatti differente e rinnovata la morfologia dei fatti, avendo il pubblico ministero colmato la lacuna, presente nel primo sequestro probatorio, riferita alla mancata formulazione di un'imputazione provvisoria che si estendesse a tutti i fatti oggi oggetto di contestazione, in modo da poter coprire adeguatamente le prospettate esigenze probatorie. 2.4. Anche il quarto motivo di ricorso - afferente all'eccezione di nullità dell'ordinanza gravata e del decreto di sequestro del 6 marzo 2024, derivata ex art. 185 cod. proc. pen., in conseguenza dell'annullamento parziale del primo decreto del 7 febbraio 2024 - è manifestamente infondato. L'art. 185 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che "la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo", intende fare riferimento alla necessaria sussistenza di un rapporto di successione cronologica, tale da tradursi in un nesso di causalità necessaria o sul piano logico o su quello giuridico; nesso che, tuttavia, nel caso in esame, è del tutto insussistente. Come correttamente rilevato anche dal Tribunale del riesame, infatti, gli eventuali vizi di un qualsiasi provvedimento non si trasmettono automaticamente ad altro successivo nei casi in cui, come nella specie, il primo ne costituisca il solo antecedente storico e non anche il presupposto giuridico indefettibile, non potendosi ravvisare alcuna dipendenza del secondo decreto dal primo rispetto alle parti annullate, avendo il provvedimento impugnato avuto cura di non fare uso dei documenti di cui, a seguito dell'annullamento del precedente decreto, era stato ordinato il dissequestro, e ferma restando, anche per le considerazioni in ordine alla diversità di fatti e di titoli di reato presupposto, svolte sub 2.3., l'autonomia dei due provvedimenti. Contrariamente a quanto dedotto dalla prospettazione difensiva, peraltro, dalle pagg. 18-19 del provvedimento impugnato, emerge un'esaustiva indicazione delle chiavi logiche da utilizzare ai fini della limitazione ex ante della ricerca, allorché si richiamano le parole-chiave identificative dei "nomi degli indagati, delle società nominate, dei dipendenti identificati, dei luoghi di verifica del transito e della permanenza della Ca.Ma." nonché riferibili ai "vocaboli e lemmi che riguardino le questioni della residenza estera, degli investimenti di fondi esteri, delle vicende ereditarie e successorie, delle eventuali donazioni, costituzioni e trasferimenti di diritti reali", oltre che a "numeri ed indicazioni di conti e dati bancari e societari riportati". Anche a prescindere da tali assorbenti argomentazioni, si rileva peraltro che, nel caso dì specie, il ricorso non indica né quali sarebbero gli atti affetti da invalidità derivata, né in che modo sarebbe configurabile il rapporto di consecutività e dipendenza tra tali atti e l'ordinanza annullata, necessario a norma dell'art. 185, comma 1, cod. proc. pen., per l'estensione degli effetti caducanti, né per quali ragioni gli atti asseritamente affetti da invalidità derivata sarebbero decisivi per ritenere la sussistenza dei presupposti per l'applicazione del sequestro. 2.5. Deve dichiararsi infondato il quinto motivo di ricorso, relativo alla violazione dell'art. 5 del D.Lgs. n. 139 del 2005, quanto al rigetto della richiesta di opposizione del segreto professionale da parte dell'indagato, in relazione al combinato disposto degli artt. 200, comma 1, lettera d), 256 e 103 cod. proc. pen. Il Tribunale di Torino si è diligentemente uniformato ai criteri ermeneutici sanciti dalla giurisprudenza di legittimità in materia di segreto professionale, la quale ha reiteratamente chiarito la piena legittimità del sequestro eseguito presso lo studio del libero professionista, giacché il segreto professionale può essere opposto solo dal testimone, e non anche dall'inquisito, tenuto conto che l'unico segreto opponibile da quest'ultimo al magistrato penale è quello di Stato (Sez. 6, n. 10281 del 19/02/2019; Sez. 3, n. 3288 del 10/07/1990, Rv. 185191). D'altra parte, è la stessa normativa processuale sul punto a restituire numerosi argomenti a favore della inopponibilità del segreto professionale da parte del professionista indagato/imputato. L'evocato art. 200 cod. proc. pen., infatti, statuendo che "non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria" tra gli altri "gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale" - e, dunque, per la parte che qui interessa, anche i dottori commercialisti ex art. 5 del D.Lgs. n. 139 del 2005 (Sez. 2, n. 46588 del 23/05/2017) - collega espressamente la disciplina del segreto alla testimonianza, delimitandone con sufficiente precisione l'ambito soggettivo di operatività, da ritenersi peraltro tassativo, trattandosi di norme derogatorie rispetto all'ordinario regime giuridico della testimonianza. Né alcun argomento si può trarre, a ben vedere, dall'art. 256 cod. proc. pen.; norma che - prevedendo per i titolari dell'eventuale segreto professionale e del segreto d'ufficio l'obbligo di adempiere alla richiesta dell'autorità giudiziaria di consegnare gli atti e i documenti, nonché i dati, le informazioni e i programmi informatici e ed ogni altra cosa di cui abbiano la disponibilità per ragioni di ufficio, ministero, incarico o professione, salvo che oppongano per iscritto il segreto di Stato, il segreto processionale ovvero quello d'ufficio - lungi dal limitarsi a compiere un mero richiamo ricognitivo all'articolo summenzionato, rappresenta lo statuto normativo dei segreto professionale e degli ambiti di sua applicabilità, disciplinando specificamente i rapporti intercorrenti tra il dovere di esibizione ed il segreto. Del resto, l'impossibilità di ammettere l'opponibilità del segreto professionale da parte dell'imputato/indagato si fonda sulla considerazione che, nell'ipotesi di richiesta di esibizione di documenti ex art. 256 cod. proc. pen., il riconoscimento del segreto in capo a tale soggetto gli attribuirebbe una facoltà di cui altrimenti sarebbe privo, altresì preclusa dal divieto di estensione analogica in una materia improntata al rigoroso rispetto del principio di legalità. Diversamente opinando, il segreto professionale si presterebbe ad essere uno strumento di elusione dei controlli (Sez. U. civ., n. 11082 del 07/05/2010). A ciò si aggiunga che la disciplina processuale dell'ordine di esibizione ex art. 256 cod. proc. pen. presuppone un simmetrico dovere di collaborazione del destinatario terzo, prevedendo altresì che, in caso di opposizione tempestiva, il Pubblico Ministero debba compulsare la procedura di accertamento prevista dal secondo coma della citata norma, potendo comunque sequestrare il documento richiesto laddove ritenga infondata l'opposizione, così prescindendo dal dissenso del professionista ed esponendosi al solo sindacato di legittimità sul giudizio di infondatezza, nonché sul presupposto, ivi espressamente tipizzato, della necessità insurrogabile dell'atto, non solo a fini probatori, ma addirittura a fini processuali ed operativi. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, peraltro, nessun argomento a favore di un'eventuale estensione della opponibilità del segreto professionale agli indagati/imputati potrebbe ricavarsi dalle due recenti sentenze della Suprema Corte di cassazione richiamate dalla prospettazione difensiva. Da un lato, infatti, la sentenza Sez. 2, n. 51446 del 18/10/2017, chiarisce espressamente l'idoneità della formale opposizione del segreto professionale, ove sollevata in ragione della correlazione della disponibilità dei beni sequestrati o estratti in copia con un mandato professionale in precedenza conferito, ad impedire all'autorità giudiziaria di procedere al sequestro del bene richiesto in consegna, salvi gli accertamenti previsti dall'art. 256, comma 2, cod. proc. pen. Dall'altro, la pronuncia n. 14082 del 14/11/2018, dep. 2019, riconosce - per la parte che qui interessa - la tipicità della figura del dottore commercialista rispetto alle categorie professionali alle quali la legge attribuisce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. Ma in nessuna delle due citate decisioni appare emergere un'argomentazione utile all'estensione delle garanzie connesse alla disciplina del segreto professionale al professionista inquisito. Parimenti deve argomentarsi con riferimento alla richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2012, anch'essa inconferente nel caso di specie. Essa fa effettivo riferimento alla possibilità per gli imputati di opporre il segreto di Stato allorché afferma che "Il nuovo art. 41 della legge 124 del 2007 muta i termini del bilanciamento. L'imputato viene ad essere, infatti, per un verso, incluso tra i titolari del potere-dovere di opporre il segreto di Stato ma, al tempo stesso, sottratto - ove tenga la condotta conforme all'esigenza di protezione della sicurezza nazionale - al rischio di una indebita affermazione di responsabilità penale. Lo Stato - mirando alla "autoconservazione" - richiede, cioè, anche alla persona sottoposta a processo il silenzio sulla notizia coperta da segreto, esigendo dalla giurisdizione un possibile esito processuale scevro da connotati negativi nei confronti del giudicabile, fermo restando il vaglio di essenzialità rimesso all'autorità giudiziaria". Ma tale affermazione risulta circoscritta alla speciale disciplina del segreto di Stato, come tale, non estensibile al segreto professionale. Ed invero, dal tenore letterale dell'art. 41 della legge n. 124 del 2007 - che, nel sancire che "ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato", non contiene alcuna clausola di esclusione, così consentendo alla Corte costituzionale di sancire l'estensione del segreto di Stato anche agli indagati/imputati - e dal confronto, tutt'altro che ultroneo, con l'art. 40 della medesima normativa - che ha modificato gli originari artt. 202 e ss., in materia di segreto di Stato - emerge, con evidenza, come il legislatore abbia inteso riferirsi anche agli imputati soltanto in ordine a questa seconda fattispecie. Tanto che la disposizione a cui la Corte costituzionale si riferisce non è contenuta nel codice di procedura penale - che non è stato modificato quanto all'individuazione dei soggetti legittimati all'opposizione del segreto - ma nella legge speciale sul segreto di Stato. Né alcuna garanzia a favore della posizione dell'odierno ricorrente potrebbe trarsi dall'art. 103 cod. proc. pen. Fermo restando che la perquisizione con conseguente sequestro non può trovare ostacoli di sorta ove si indaghi proprio su ipotesi specifiche di reato a carico di un professionista diverso dal difensore penale - la cui peculiare tutela è accessoria ad una protezione qualificata della libertà personale degli assistiti - rileva infatti il Collegio come, anche laddove si intenda riconoscere l'applicabilità della norma al commercialista, nella qualità di difensore nel contenzioso tributario, le richiamate guarentigie non possano trovare applicazione nel caso di specie, essendo lo stesso interessato nelle indagini non già nella qualità di difensore di altri cittadini indagati, bensì in quella di cittadino indagato egli stesso, come tale non meritevole di privilegiata posizione difensionale. Le garanzie previste dall'art. 103 cod. proc. pen., infatti, non introducono un principio immunitario di chiunque eserciti la professione legale - od espleti, quantomeno, attività difensiva - risultando dunque applicabili soltanto allorquando debbano essere tutelate la funzione difensiva o l'oggetto della difesa (Sez. 5, n. 35269 del 24/04/2013; Sez. 2, n. 32909 del 16/05/2012, Rv. 253263); tanto che, in tema di sequestro da eseguirsi nell'ufficio di un difensore, qualora il mezzo di ricerca della prova venga disposto nell'ambito di un procedimento relativo ad un reato attribuito al difensore medesimo, non è necessario l'avviso al Consiglio dell'ordine forense di cui al terzo comma dell'art. 103 cod. proc. pen.; e ciò, in quanto non viene in rilievo la tutela della funzione difensiva e dell'oggetto della difesa, cui è finalizzata la disposizione in esame (Sez. 2, n. 44892 del 25/10/2022, Rv. 283822). Fatte queste premesse, non risulta dunque in alcun modo configurabile la nullità prospettata, ai sensi degli artt. 178 e 185 cod. proc. pen., dal ricorrente, avendo l'ordinanza impugnata fatto buon governo dei principi esegetici consolidatisi in materia di segreto professionale e dovendosi, dunque, ritenere legittimo il sequestro della documentazione necessaria all'accertamento del reato oggetto della provvisoria incolpazione. In conclusione, la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell'attività professionale, svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume esclusivamente carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa, e non anche l'interesse soggettivo del professionista (Corte cost., n. 87 del 1997). 3. I ricorsi di El.Jo., El.La. e El.Gi. - che possono essere trattati congiuntamente giacché sostanzialmente sovrapponibili nelle doglianze afferenti alla contestazione della truffa ai danni dello Stato e alla censurata violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità e del nesso di pertinenzialità in ordine al materiale informatico sequestrato - nonché i motivi aggiunti, presentati con memoria del 17 giugno 2024, sono infondati. 3.1. Il primo motivo di ricorso, proposto nell'interesse del solo El.Jo., ed il primo motivo aggiunto - riferiti sia alla violazione dell'art. 253 cod. proc. pen., relativamente alla nullità del decreto di sequestro del 6 marzo 2024 in quanto ri-esercizio da parte del Pubblico Ministero del potere in assenza di un novum, sia all'apparenza motivazionale del provvedimento - sono manifestamente infondati. Valgono sul punto le considerazioni svolte sub 2.3., da intendersi qui integralmente richiamate, trattandosi, nel caso di specie, non già di una migliore descrizione dello stesso fatto già oggetto del primo provvedimento ablativo annullato, ma di una vera e propria estensione della sua morfologia, che rende la motivazione effettiva e non apparente, oltreché pienamente compatibile con le risultanze processuali. 3.2. Il secondo motivo di censura, nonché il secondo motivo aggiunto - con i quali si denuncia la violazione dell'art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., relativamente all'astratta configurabilità del fumus del delitto di truffa ai danni dello Stato - sono infondati. Come correttamente rilevato dal ricorrente, infatti, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui è configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, sul rilievo che qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all'interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale, quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni (Sez. U., n. 1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano, Rv. 248865). Le Sezioni Unite hanno cioè chiarito come l'intento del legislatore nella formulazione delle fattispecie penali tributarie debba rinvenirsi nello scopo di anticipare la tutela penale a quei comportamenti che sfocino in dichiarazioni fiscali non rispondenti al vero, così intessendo il predetto rapporto di specialità dei reati tributari, caratterizzati da modalità di artifizio consistenti nell'annotazione o emissione di fatture false, ovverosia nella predisposizione di un falso impianto contabile, rispetto al delitto di truffa aggravata. Nell'ambito della problematica di più ampia portata del concorso apparente di norme, del resto, l'ordinamento positivo si è ispirato al principio di specialità consacrato nell'art. 15 cod. pen. Sennonché, nel caso in esame, tali principi di diritto si appalesano tanto pacifici quanto inconferenti. Fermo restando che, in sede di impugnazione dei provvedimenti di sequestro probatorio, il controllo del giudice deve limitarsi all'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi (Sez. 4, n. 41388 del 12/12/2001, Rv. 223196), la prospettazione difensiva, omette, infatti, di confrontarsi adeguatamente con la circostanza che, nel caso di specie, oggetto della nuova incolpazione provvisoria di cui al decreto del 6 marzo 2024 risulta essere non solo l'evasione dell'imposta Irpef (capi 1-5 dell'incolpazione provvisoria), ma anche quella dell'imposta di successione, di cui al capo 6. Ebbene, costituendo quest'ultima un'imposta che, inerendo ad una materia che non è regolata da alcuna disposizione del D.Lgs. n. 74 del 2000, deve ritenersi estranea a qualsivoglia rapporto di specialità rispetto alla normativa penalistico-tributaria, essa risulta sottoposta alla disciplina dettata dalle norme generali, ivi compreso l'art. 640, secondo comma, n. 1), cod. pen. Di talché la fattispecie contestata della truffa aggravata risulta essere perfettamente compatibile con l'evasione della tassa di successione, senza alcuna duplicazione incriminatrice né specialità. Se così non fosse, del resto, la fattispecie criminosa della truffa ai danni dello Stato, connessa all'evasione delle tasse di successione, rimarrebbe impunita, in quanto assorbita da una legge speciale, che tale tuttavia non può considerarsi nella materia in esame, giacché del tutto silente sul punto. Come correttamente osservato anche dal giudice del riesame, nessun rilievo può poi attribuirsi alla circostanza che i ricorrenti non avessero ancora assunto la veste attuale di eredi, essendosi costoro comportati come successori di fatto nei confronti dei beni esteri che, in quanto presumibilmente appartenuti alla de cuius, dovranno far parte della ricostituzione dell'asse ereditario e, dunque, della nuova liquidazione di imposta secondo il diritto italiano, tenuto altresì conto che la dichiarazione di successione - che è un adempimento obbligatorio, a carattere prevalentemente fiscale, attraverso cui viene comunicato all'Agenzia delle Entrate il subentro degli eredi nel patrimonio del defunto, così consentendo la determinazione delle imposte dovute, sulla base del quadro normativo vigente - deve essere presentata, ai sensi dell'art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 346 del 1990, dai chiamati all'eredità, a prescindere dalla loro qualità di eredi. Deve, invece, ritenersi inammissibile la censura, sollevata da El.La. ed El.Gi. sempre nell'ambito del motivo di ricorso afferente alla configurabilità della truffa, relativa alla ritenuta apparenza motivazionale con riguardo alla loro postulata compartecipazione nel delitto di cui al capo 6) dell'incolpazione, perché riferita ad una carenza motivazionale manifestamente insussistente. Contrariamente a quanto dedotto nel motivo di gravame, ritiene infatti il Collegio che - con argomentazioni adeguate rispetto allo standard probatorio richiesta, che fanno salva qualsivoglia valutazione ulteriore nel giudizio di merito - il Tribunale del riesame (pagg. 13-15) abbia sufficientemente delineato il ruolo ascritto ai ricorrenti nell'ambito della realizzazione dell'unico reato loro contestato, allorché, in considerazione del maggior beneficio immediato che anch'essi avrebbero ricavato dalla imminente successione ereditaria ove fosse stata mantenuta e taciuta la frode già in atti, ha chiarito la portata del concorso morale rafforzativo posto in essere dai due indagati rispetto all'azione criminosa già tracciata, in via principale, dal fratello El.Jo., altresì fondando il proprio convincimento sulla circostanza che, solo nel 2023 - e cioè a quattro anni di distanza dal decesso della Ca.Ma. - i tre fratelli avrebbero provveduto a dichiarare, nell'apposito quadro RW, prima ancora dell'apertura di qualsivoglia successione ereditaria, tutte le risorse già incamerate dalla defunta. Come già chiarito sub 2.2., del resto, il sequestro con finalità probatorie può rendersi necessario anche al fine di stabilire gli esatti termini della condotta denunciata o ipotizzata, al fine non solo di verificare la configurabilità o meno di un reato, ma anche l'inquadramento di tale condotta in una o in un'altra figura criminosa, in una fase del procedimento caratterizzata dalla fluidità dell'imputazione sia sotto il profilo fattuale che sotto il profilo giuridico (ex multis, Sez. 3, n. 24846 del 28/04/2016, Rv. 267195; Sez. 6, n. 14411 del 05/03/2009, Rv. 24367). 3.3. La terza doglianza e il connesso motivo aggiunto - entrambi afferenti alla violazione degli artt. 253 e 247, comma 1-bis, cod. proc. pen., con riguardo ai principi di adeguatezza e proporzionalità e al nesso di pertinenzialità in ordine al materiale informatico sequestrato, nonché all'apparenza della motivazione - con contestuale violazione dell'art. 125 cod. proc. pen., devono essere dichiarati inammissibili, per considerazioni analoghe a quelle svolte sub 2.2., da intendersi integralmente richiamate. 4. Tenuto conto dei rilievi che precedono, i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 4 luglio 2024. Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2024.
bottom of page