RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9 Febbraio 2022 emessa nei confronti degli imputati Gi.Iv. e Ca.Do., il Tribunale di La Spezia, riqualificata l'originaria accusa relativa ai reati di cui agli art. 81 c.p.v., 110 e 629, comma 2, cod. pen. nel delitto di cui all'art. 640, comma 2, n. 2, cod. pen., condannava gli imputati alla pena di anni quattro di reclusione ed euro 1.200 di multa, oltre all'applicazione della pena accessoria ex art. 29 cod. pen. e la condanna in solido al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita Ma.Ed.
Avverso la predetta decisione Gi.Iv. e Ca.Do. proponevano appello.
La Corte territoriale, con sentenza del 4 aprile 2023, in parziale riforma della condanna inflitta in primo grado, condannava entrambi gli appellanti alla minor pena di anni 2 e mesi 9 di reclusione e 1.200 euro di multa, eliminando le pene accessorie e confermando le statuizioni civili.
2. Nei confronti della citata sentenza Gi.Iv. e Ca.Do., a mezzo dei rispettivi difensori, propongono ricorso per Cassazione, deducendo entrambi due motivi, in parte sovrapponibili.
3. L'imputato Gi.Iv. eccepisce con un primo motivo la violazione dell'articolo 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., in ordine alla manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, nonché relativamente al travisamento dei fatti oggetto dell'imputazione a carico del ricorrente. In particolare, deduce che nei confronti del Gi.Iv. vi sarebbe solo un indizio, ossia essere l'intestatario della carta postpay su cui venivano versati i soldi dalla persona offesa. Inoltre, non sussisterebbe l'aggravante dell'aver ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, dato che le minacce operate dalla Ca.Do. di togliersi la vita, venivano impartite a se stessa e nessun male ingiusto era mai stato prospettato in ordine alla sfera personale della persona offesa Ma.Ed., il quale in ogni momento avrebbe potuto interrompere la relazione virtuale con la donna e decidere di non inviare più soldi alla stessa. Vi sarebbe quindi, un'evidente inidoneità della condotta ad integrare il reato di truffa aggravata. Contesta altresì che la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado sarebbe viziata per carenza di motivazione in quanto si sarebbe limitata a riprodurre la decisione confermata dichiarando in termini apodittici e stereotipati di aderirvi, senza dar conto degli specifici motivi di impugnazione che l'appellante aveva prospettato avverso le soluzioni adottate dal giudice di primo grado.
3.1 Con un secondo motivo lamenta il vizio di motivazione relativamente alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto la Corte di appello non avrebbe vagliato adeguatamente gli elementi emersi dall'istruttoria dibattimentale con riferimento alla condotta attribuita al ricorrente, né avrebbe ottemperato al principio costituzionale di assicurare una pena "congrua", rispettosa del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.).
4. L'imputata Ca.Do., formula, anch'essa, due motivi di ricorso. Con il primo lamenta la violazione di legge in relazione all'art. 640, comma 2, n. 2, cod. pen., poiché nessun pericolo di danno si è mai paventato nei confronti della persona offesa, come dalla stessa riferito. Né può essere accolta la tesi fornita dall'impugnata sentenza, secondo cui il pericolo di danno da rinvenire in capo alla persona offesa sarebbe quello indiretto, ossia riconducibile all'imputata stessa (che aveva prospettato di uccidersi) e all'immaginaria figlia malata.
4.1 Con il secondo motivo eccepisce il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante delle più persone riunite, in quanto nella sentenza impugnata, malgrado lo specifico motivo di appello, non vi è alcuna motivazione al riguardo, e non quindi possibile comprendere se l'aggravante è stata esclusa oppure applicata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili perché proposti fuori dai casi previsti dalla legge o perché manifestamente infondati.
2. Con riguardo al primo motivo del ricorso di Gi.Iv. inerente al vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine al delitto di truffa aggravata, nonché al primo motivo dedotto da Ca.Do. relativamente alla violazione di legge con riferimento all'art. 640, comma 2, n. 2, cod. pen., si ritiene che essi siano manifestamente infondati.
Deve essere preliminarmente evidenziato che la sentenza di appello oggetto di ricorso in relazione al reato di truffa, aggravata dall'aver ingenerato nella vittima il timore di un pericolo immaginario, costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d'appello a quella del Giudice per le indagini preliminari, sia l'ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sez. 2, n. 33588 del 13.07.2023, Colusso, n.m.; Sez. 2, n. 6560 del 8/10/2020, Capozio, Rv. 280654-01). Va, altresì, evidenziato che la modifica dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge n. 46 del 2006, non consente alla Corte di legittimità di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, mentre comporta che la rispondenza delle dette valutazioni alle acquisizioni processuali possa essere dedotta sotto lo stigma del cosiddetto travisamento della prova, a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze (Sez. 3, n. 18521 dei 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217-01; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099-01; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007, Rv. 237652). Questa Corte, infatti, con orientamento (Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018 Rv. 272018; Sez. 6, n. 19710 del 3/2/2009, Rv. 243636) che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza della c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità per la truffa), il vizio di travisamento dei fatti o della prova possa essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice). Tanto premesso, rileva il Collegio come nel caso in esame non si versi in ipotesi di travisamento dei fatti o della prova nei termini sopra specificati e che, peraltro, la Corte di appello, ha fornito adeguate risposte ai motivi di ricorso, enucleando con chiarezza le condotte truffaldine dei due imputati. In conclusione, le difese - più che del travisamento dei fatti - si dolgono del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito, che in modo congruo ed esaustivo hanno ritenuto la configurabilità del delitto di cui all'art. 640, comma 2, n. 2, cod. pen., dichiarando di non condividerlo. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto cura di precisare che nel giudizio di Cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di uria migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 2, n. 9106 del 12/2/2021, Caradonna, Rv. 280747-01; Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, Filizzola, Rv. 280601-01; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482-01).
2.1 Con riguardo specifico alla posizione di Gi.Iv., i giudici di merito hanno motivato adeguatamente in ordine alla sussistenza di prove indiziarie inconfutabili circa la sua partecipazione alla truffa. Egli, infatti, fu il diretto beneficiario dei numerosi versamenti da parte della persona offesa delle cospicue somme di denaro oggetto della truffa, in quanto intestatario della carta postpay indicata alla vittima da Ca.Do., all'epoca sua fidanzata. Come riferito dalla persona offesa nel corso del dibattimento, la Ca.Do. non si lamentò mai di non aver ricevuto le somme accreditate sulla carta postpay del Gi.Iv., né mai quest'ultimo si attivò, anche solo per chiedere spiegazioni, circa la ricezione di somme di denaro non trascurabili da parte di un soggetto a lui sconosciuto. Queste due circostanze rappresentano una prova indiziaria certa in ordine alla partecipazione a titolo di concorso di Gi.Iv. nella truffa perpetrata dalla Ca.Do., con cui, evidentemente, condivise il profitto illecito che si concretizzava, in più momenti, sulla sua carta postpay. Per ribaltare queste emergenze probatorie la difesa di Gi.Iv. avrebbe dovuto, quantomeno, allegare delle circostanze da cui ricavare elementi di prova a discarico, ad esempio sul fatto che il Gi.Iv. non era in realtà in possesso della carta postpay al momento di ricevere i versamenti della vittima, perché l'aveva smarrita o gli era stata sottratta. Nei due giudizi di merito non vi è, invece, traccia di plausibili versioni alternative in ordine al possesso della carta postpay.
Le sentenze dei giudici di merito hanno, quindi, motivato sul punto in maniera corretta e adeguata, di talché i motivi di ricorso sono inammissibili non ravvisando, questo Collegio, alcun travisamento dei fatti e delle prove assunte, né alcun vizio di illogicità o contraddittorietà delle motivazioni della Corte di appello.
2.2 Quanto alla deduzione circa l'erronea configurabilità dell'aggravante dell'aver ingenerato nella vittima Ma.Ed. il timore di un pericolo immaginario, su cui entrambi i ricorrenti hanno sollevato eccezioni, va affermato che essa è stata correttamente ritenuta dai giudici di merito, non avendo rilevanza, a tal proposito, che il pericolo immaginario prospettato alla persona offesa per indurlo a versare denaro in favore dell'autrice del raggiro riguardasse la stessa protagonista della truffa. Come evidenziato nella sentenza impugnata, la Ca.Do. prospettò al Ma.Ed. "di togliersi la vita" perché disperata a causa della grave malattia della figlia e dalla mancanza di sufficienti risorse economiche per curarla; si trattava di un pericolo del tutto inventato perché la truffa era consistita proprio nel far credere alla vittima che la donna avesse una figlia gravemente malata, con l'evidente fine di ottenere un aiuto economico dal Ma.Ed. La Corte di appello ha affermato quanto segue: "Non può poi escludersi l'aggravante contestata riguardante il timore di un pericolo immaginario perché, oltre al danno che sarebbe potuto derivare dalle prospettazioni della Ca.Do. (aggravamento delle condizioni della piccola, intenzione della madre di togliersi la vita per la disperazione), non può escludersi che il paventato danno avrebbe coinvolto la persona offesa, in quanto riguardava persone a cui si sentiva ormai legato ovvero la Ca.Do. e la sua figlia ammalata", considerazione su cui le difese non si sono per nulla confrontate, limitandosi a ribadire l'interpretazione della norma da loro già esposta nell'atto di appello.
Al di là della aspecificità dei motivi di ricorso, va, in ogni caso, rilevato che l'aggravante di cui al comma secondo, n. 2, dell'art. 640 cod. pen., ricorre certamente nel caso di specie. La norma citata non distingue in alcun modo a chi debba riferirsi la prospettazione del pericolo immaginario, e la giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, ritenuto che il pericolo immaginario potesse riferirsi anche ai familiari della vittima della truffa (si veda per ultimo Sez. 2, n. 49519 del 29.11.2019, Martini, Rv. 278004-01; Sez. 2, n. 42445 del 19/10/2012, Rv. 253647-01). Il Collegio ritiene che ai fini del riconoscimento dell'aggravante ciò che davvero rileva è l'idoneità del prospettato pericolo immaginario a trarre in inganno la persona offesa su determinate circostanze fattuali, tale da indurlo a compiere atti dispositivi in favore dell'autore della truffa. Nel caso di specie, i giudici di merito, derubricando l'originaria imputazione di estorsione, hanno ritenuto che il Ma.Ed. sia stato indotto a versare del denaro alla Ca.Do., non per timore che la donna riferisse de la loro relazione alla compagna della persona offesa, ma piuttosto per l'erronea percezione della realtà derivante dalle condotte di raggiro: in un primo momento agì allo scopo di aiutare economicamente la Ca.Do. a curare la presunta figlia malata, ed, in una seconda fase, si convinse a versare ulteriore denaro alla truffatrice per il timore ingenerato fraudolentemente che la donna compisse gesti autolesionistici, da lei prospettati in ragione della manifestata situazione di disperazione personale. Non vi sono, perciò, dubbi che il prospettato pericolo di "togliersi la vita" nel contesto di una situazione tragica collegata alla grave malattia della presunta figlia, sia stata una condotta decettiva in concreto idonea a raggirare la persona offesa, la quale aveva stretto un forte legame affettivo, seppure a distanza, con la donna, tanto da averle già inviato consistenti somme di denaro allo scopo di aiutarla per curare la figlia. La concatenazione di questi fatti: la grave malattia della presunta figlia, la manifestata situazione di disperazione, la prospettazione di possibili gesti autolesionistici in mancanza di ulteriore sostegno economico, integra perfettamente lo schema tipico della truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 2 cod. pen., non essendo a tal fine necessario che il pericolo immaginario riguardi direttamente la persona offesa, purché essa sia tratta in inganno dal timore ingenerato da prospettazioni artatamente rappresentate dall'autore della vittima.
Per queste ragioni i citati motivi di ricorso sono, quindi, inammissibili.
3. Al pari inammissibile è il secondo motivo di ricorso dedotto da Gi.Iv.
La sentenza impugnata argomenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sotto tre profili: assenza di motivi di meritevolezza; gravità del fatto illecito, compiuto con professionalità e disinvoltura; entità del danno cagionato alla vittima. Si tratta di argomentazioni che non presentano vizi rilevabili in sede di legittimità, considerato che "in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione" (cfr. tra le tante Sez. 2, n. 23903 del 17.07.2020, Rv. 279549-01; Sez. 5, n. 43952 del 13.04.2017, Rv. 271269-01).
4. Il secondo motivo del ricorso della Ca.Do. è manifestamente infondato. Infatti, la Corte di appello correttamente non ha motivato nulla in ordine all'aggravante delle più persone riunite, dato che essa era stata contestata in relazione all'originaria imputazione di estorsione, che, come già evidenziato, è stata derubricata già in primo grado nel delitto di truffa aggravata.
5. Per tutte le considerazioni fin qui esposte, dunque, entrambi i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Alla inammissibilità degli stessi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si ritiene equa di euro tremila a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 24 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.