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Induzione indebita e truffa aggravata del pubblico ufficiale: distinzione tra complicità e inganno del soggetto passivo

Truffa

Cassazione penale , sez. VI , 18/04/2024 , n. 21076

I reati di induzione indebita ex art. 319-quater c.p. e di truffa aggravata commessi da pubblico ufficiale, pur avendo in comune l'abuso da parte del pubblico ufficiale della pubblica funzione al fine di conseguire un indebito profitto, si differenziano per il fatto che nel primo colui che dà o promette non è vittima di errore e conclude volontariamente un negozio giuridico illecito in danno della pubblica amministrazione per conseguire un indebito vantaggio, sicché è punibile per aver prestato acquiescenza alla richiesta di prestazione non dovuta, ponendosi su un piano di complicità con il pubblico agente, laddove, nella truffa, il pubblico ufficiale si procura un ingiusto profitto sorprendendo la buona fede del soggetto passivo mediante artifici o raggiri ai quali la qualità di pubblico ufficiale conferisce maggiore efficacia.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Pa.Ar. era stato condannato, in primo grado, per concussione (art. 317 cod. pen.), in quanto, abusando della sua qualità di carabiniere, costringeva Cr.Fe. a promettere indebitamente la somma di Euro 1000 a sé e ad un collega, per comprare il silenzio di un terzo soggetto pronto a rilasciare dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti nell'ambito di un procedimento penale nel quale Cr.Fe. era indagato, dopo avergli rappresentato che il mancato pagamento avrebbe comportato la sua rovina per via delle predette accuse e dopo aver più volte proferito, durante alcuni incontri, frasi dal carattere minatorio. 2. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello riqualificava il fatto in induzione indebita (art. 319-quater cod. pen.), rideterminando conseguentemente la pena. 3. Antefatto della vicenda oggetto del giudizio è un'indagine penale per una vicenda che ruotava attorno alla vendita di sostanze anabolizzanti e alla morte di un ragazzo (vicenda non meglio specificata nella pronuncia impugnata), nei confronti di Cr.Fe., proprietario di alcune palestre. Nella pronuncia impugnata si precisa che, appena dissequestratone il cellulare, il Cr.Fe. fu contattato mediante whatsapp da un suo conoscente, l'odierno ricorrente carabiniere Pa.Ar., il quale insistette per concordare un incontro. Dopo un'iniziale esitazione, il Cr.Fe. cedette all'invito e Pa.Ar. gli riferì che una terza persona era risentita verso di lui, perché avrebbe ricevuto anabolizzanti fasulli, e che (tale persona) possedeva elementi di conoscenza suscettibili di comprometterne la posizione. Il Pa.Ar. disse al Cr.Fe. che la persona aveva chiesto, in cambio del silenzio, una somma di denaro (nella specie, 4.000 euro che, grazie all'intercessione del Pa.Ar., sarebbero diventati 1.000) e si offrì di spendere la propria qualifica di carabiniere: a tratti spaventando il suo interlocutore ("tu ci tieni alla tua famiglia?" e similia)-, a tratti rassicurandolo, con il mettere a sua disposizione la tutela propria e di un altro collega carabiniere, amico del Cr.Fe. (il Ca.), anche per eventuali vicende future. Dalle sentenze di merito si evince inoltre che tali elementi furono per parte riferiti dalla vittima e che ebbero conferma nelle captazioni ottenute attraverso un microfono che il Cr.Fe. accettò di farsi collocare indosso dopo il primo incontro con l'imputato e che indossava anche quando avvenne la dazione del denaro al Pa.Ar.. 4. Avverso la sentenza d'appello ha presentato ricorso Pa.Ar. per il tramite degli Avvocati Giovanni Piccolo e Guido Contestabile, premettendo che, secondo la giurisprudenza di legittimità, si è in presenza di una "doppia conforme" anche nell'ipotesi - come nella specie - di riqualificazione del fatto da concussione in induzione indebita, quando le due sentenze di merito non si discostino in punto di ricostruzione in fatto e per i criteri utilizzati nella valutazione delle prove. Viene altresì premesso che, in caso di c.d. "doppia conforme", il vizio di travisamento della prova può essere dedotto sia quando il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi giudici di merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie. Sono quindi dedotti i seguenti quattro motivi di ricorso. 3.1. Vizio di motivazione con riferimento al giudizio di attendibilità della persona offesa, nella misura in cui i Giudici dell'appello reputano il suo narrato chiaro e specifico ma poi ne rilevano cattiva fede. 3.2. Errata applicazione dell'art. 319-quater cod. pen. quanto all'elemento dell'induzione. La Corte d'appello ha riferito che Cr.Fe. aveva sin da subito nutrito sospetti sull'atteggiamento del Pa.Ar., anche perché la cifra richiesta per comprare il silenzio dell'ignoto soggetto che intendeva ricattarlo era piuttosto bassa, e che Cr.Fe. si era fatto l'idea che il Pa.Ar. si fosse inventato l'esistenza di un ignoto ipotetico ricattatore per sfruttare a suo vantaggio ciò che sapeva sulla recente sottoposizione del Cr.Fe. ad indagini. Se è così, mancherebbe il requisito dell'induzione nei termini di persuasione, suggestione ecc., per come specificato da Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, Rv. 258474. 3.3. Vizio di motivazione e travisamento della prova quanto alla mancata qualificazione del reato in truffa aggravata dall'abuso di potere. La Corte di appello ritiene irrilevante se il Cr.Fe. avesse la "coscienza sporca" o meno e se avesse accettato di pagare per il timore effettivo di aver fatto qualcosa di male o solo nel dubbio di essere messo ingiustamente nei guai. A rilevare sarebbe, piuttosto, la condotta oggettivamente realizzata dall'imputato nei suoi confronti. Ma tale accertamento rimanda a sua volta ad un corretto vaglio delle emergenze probatorie, nel caso di specie rappresentate in massima parte da intercettazioni. Come più volte ribadito dei giudicanti, la persona offesa si era inizialmente determinata a promettere la cifra richiesta perché motivata dal timore ingenerato dalle parole dell'imputato, timore determinato dalla circostanza che, in un momento così delicato per la persona offesa, un appartenente all'arma dei Carabinieri gli avesse fatto intendere di conoscere circostanze per lui pregiudizievoli, mettendosi a disposizione come mediatore per sistemare le cose, forte della sua qualità di militare in servizio. Qualità - aggiunge la Corte d'appello - della quale il Pa.Ar., agendo dei termini descritti aveva certamente abusato. Tuttavia le intercettazioni testualmente riportate nelle sentenze di primo e secondo grado secondo ("quando vuoi... lui è tranquillo perché ... come detto Omissis lui vuole solo una cosa ... vuole recuperare quello che ha perso" ecc.) fanno emergere, semmai, un atteggiamento artificioso del Pa.Ar., dal che il travisamento della prova e conseguente vizio motivazionale. E d'altronde la stessa sentenza di primo grado a richiamare la giurisprudenza di legittimità secondo cui la differenza tra induzione indebita e truffa aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale consiste nel fatto che, nella prima, il privato mantiene la consapevolezza di dare o promettere qualcosa di non dovuto, mentre, nella seconda, la vittima è indotta in errore dal soggetto qualificato circa la doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa, e la qualità di pubblico ufficiale concorre solo in via accessoria condizionare la volontà del soggetto passivo. Sintomatico dell'atteggiamento decettivo dell'imputato sarebbe, d'altronde, anche la condotta volta a tranquillizzare il Cr.Fe., facendogli credere che della vicenda del terzo ricattatore fosse al corrente anche il Ca.. 3.4. Omessa motivazione quanto alla riqualificazione del fatto in truffa aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale. In conseguenza del rilevato travisamento probatorio, la sentenza non si è specificamente confrontata con i motivi di appello, trascurando completamente di verificare la presenza di artifizi o raggiri. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito specificate. 2. Inammissibile è il primo motivo di ricorso, trattandosi di giudizio in fatto -come tale non sindacabile in sede di legittimità, vieppiù in presenza di una motivazione compiuta e logica che desume la credibilità della persona offesa dal livello di dettaglio del suo narrato, dai plurimi riscontri esterni alle sue dichiarazioni (in conformità, quindi, con quanto statuito in Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214), oltre che dal fatto che il Cr.Fe., pur dopo un'iniziale, comprensibile esitazione, acconsentì a farsi intercettare, anche correndo il rischio - precisano in modo dirimente i Giudici dell'appello - che emergessero circostanze penalmente rilevanti ai suoi danni. Né tale coerenza è scalfita dai rilievi difensivi. Nella prospettiva del giudizio sulla credibilità della persona offesa - salvo, cioè, quel che si specificherà immediatamente di seguito - appare infatti logico il successivo passaggio della sentenza impugnata in cui si considera irrilevante: che il Cr.Fe. avesse o meno contezza della vicenda relativa agli anabolizzanti fasulli ai quali l'imputato aveva fatto riferimento nel chiedergli il denaro necessario a comprare il silenzio del denunciante rimasto ignoto; che il Cr.Fe. avesse o meno la "coscienza sporca"; che questi avesse accettato di pagare per timore di aver fatto qualcosa di male o solo nel dubbio di essere messo ingiustamente nei guai. 3. Diversamente deve invece dirsi di tale e di analoghi snodi argomentativi nell'ottica della qualificazione giuridica del fatto attribuito dall'imputato, sui quali vertono i restanti tre motivi di ricorso, che dunque saranno di seguito trattati in modo congiunto. 3.1. Va specificato che i Giudici dell'appello non si sono limitati alle affermazioni riportate nel punto 2. Nella prospettiva della riqualificazione del delitto - in primo grado individuato nella concussione (art. 317 cod. pen.) -, hanno ritenuto che Cr.Fe., lungi dall'esser stato davvero coartato dal Pa.Ar., si fosse inizialmente determinato a promettere a quest'ultimo la cifra richiestagli perché motivato dal timore che le parole del Pa.Ar. avevano in lui ingenerato: timore esplicitamente ricondotto al dubbio che qualcuno potesse davvero denunciarlo per la vendita di anabolizzanti fasulli, in un momento in cui già pendeva a suo carico un procedimento attinente a tali prodotti, posto in connessione con la morte di una persona. Hanno inoltre precisato che tale timore non era stato cagionato dall'uso di violenza o minaccia da parte del Pa.Ar., ma piuttosto dalla circostanza che un appartenente dell'Arma gli avesse fatto intendere di essere a conoscenza di circostanze che avrebbero potuto danneggiarlo. Per escludere, invece, la configurabilità della truffa, la Corte di secondo grado ha insistito sulla qualifica pubblicistica dell'imputato, da questi utilizzata per sapere che al Cr.Fe. era stato restituito il cellulare e, quindi, per indurre quest'ultimo a pagare, facendogli intendere che, proprio in ragione di tale qualifica, era in grado dì evitargli problemi. Senza altro aggiungere. 3.2. Ebbene, premesso che la (indiscussa) qualifica soggettiva pubblicistica dell'imputato non è dirimente ai fini dell'individuazione del titolo di reato (ben potendo l'eventuale diverso delitto essere aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 9, cod. pen.), la motivazione della sentenza impugnata appare lacunosa. 3.3. I reati di induzione indebita ex art. 319-quater cod. pen. e di truffa aggravata commessi da pubblico ufficiale, pur avendo in comune l'abuso da parte del pubblico ufficiale della pubblica funzione al fine di conseguire un indebito profitto, si differenziano per il fatto che, nel primo, colui che dà o promette non è vittima di errore e conclude volontariamente un negozio giuridico illecito in danno della pubblica amministrazione per conseguire un indebito vantaggio; nella truffa, invece, il pubblico ufficiale si procura un ingiusto profitto sorprendendo la buona fede del soggetto passivo mediante artifici o raggiri ai quali la qualità di pubblico ufficiale conferisce maggiore efficacia (Sez. 6, n. 44596 del 13/03/2019, Guidone, Rv. 277378). Tale massima è, sul piano logico, prim'ancora che giuridico, l'unico possibile criterio di distinzione tra le due fattispecie in casi analoghi a quello in oggetto. Non è infatti un mistero che il concetto di "induzione" di cui all'art. 319-quater cod. pen. sia, al di là di ogni sforzo definitorio compiuto dalla giurisprudenza (v., in particolare, Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, cit.) e dalla dottrina, poco determinato. Ciò è dimostrato anche dalla motivazione della sentenza impugnata nel caso di specie, ove i Giudici di merito riconoscono espressamente che le prospettazioni del Pa.Ar. oscillarono tra l'intimidazione e la rassicurazione, restando nei contenuti vaghe, oltre che mutevoli. Il che ne impone una lettura "contestualizzata", essendo possibile specificare e disambiguare il concetto di induzione soltanto nel confronto con le concrete note del fatto (come d'altronde avvisato in Sez. U Maldera cit.). L'induzione" di cui all'art. 319-quater cod. pen. ripete, infatti, la propria configurabilità dalla motivazione che spinge la controparte ad agire e, in generale, dall'atteggiamento soggettivo dell'interlocutore il quale, ove indotto in errore dall'altrui inganno, sarebbe infatti vittima della truffa e se, per contro, già determinato al pagamento a prescindere dalle suggestioni esercitate dall'agente, risponderebbe a titolo di corruzione. Va quindi da sé che la delicata indagine sull'atteggiamento soggettivo dell'interlocutore - a meno di ripiegare su argomentazioni soggettive e/o congetturali, quando non su mere apodissi -richiede una scrupolosa ricostruzione della vicenda fattuale da parte del giudice del merito. Tale ricostruzione, nel caso di specie, è largamente mancata. 3.4. A titolo di esempio, per verificare se il comportamento del Pa.Ar. integrasse, nel caso di specie, rispettivamente un'induzione indebita oppure una truffa (aggravata ai sensi dell'art. 640, comma 2, n. 2, cod. peri., oltre che dell'art. 61, n. 9 cod. pen.), sarebbe stato utile (in mancanza di altri elementi, necessario) verificare, a monte, se il "ricattatore" la cui azione il Pa.Ar. si offrì di assecondare o neutralizzare (a seconda delle sue variabili prospettazioni verbali), esistesse davvero o fosse il frutto della sua invenzione, finalizzata a lucrare l'ingiusto profitto. 3.5. La mancanza di un completo accertamento fattuale si riflette, dunque, sulla illogicità/incompletezza della motivazione quanto alla qualificazione giuridica del fatto contestato, imponendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata. 4. Ai fini del giudizio di rinvio, si rendono peraltro necessarie altre due precisazioni, tra loro correlate. 4.1. Una volta svolto l'accertamento di cui si è detto, la qualificazione giuridica del fatto in termini di induzione indebita oppure di truffa presupporrà una valutazione complessiva della vicenda per come ricostruita in sede di rinvio. Il nuovo Giudice dovrà cioè evitarne l'artificiosa parcellizzazione operata nella sentenza impugnata. Questa, infatti, ha insistito soltanto sul primo segmento fattuale - il Cr.Fe. aveva dichiarato di aver dapprincipio pensato di pagare, nel timore di ripercussioni sul procedimento già instaurato -, concentrando l'attenzione esclusivamente su di esso e trascurando l'ulteriore sviluppo della vicenda, comunque unica. Cosi, ha operato una sovra-interpretazione formalistica delle parole della persona offesa, determinandone, di fatto, una "perdita di senso", oltre ad incorrere in una incostituzionale - per contrasto con l'art. 21 Cost. - "penalizzazione" del mero (e solo iniziale) atteggiamento interiore. Tanto è dimostrato dall'effetto pratico prodotto - solo in apparenza consequenziale, ma nella sostanza un paradosso -, consistito nella trasmissione degli atti dalla Corte d'appello alla Procura della Repubblica, sulla base della postulata rilevanza penale, ai sensi dell'art. 319-quater, ult. comma, cod. pen., anche del "contegno" del Cr.Fe.: nonostante gli stessi Giudici di appello abbiano riferito che questi, pur versando in una delicata situazione processuale ed essendosi rappresentato il rischio del suo aggravamento, aveva presto denunciato il fatto ed acconsentito all'istallazione, sulla sua persona, dei microfoni che captarono le conversazioni con l'imputato. Sul punto è il caso di aggiungere che la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica non era affatto un atto dovuto nemmeno nell'ottica della qualificazione del fatto in termini di induzione indebita. Va infatti premesso che l'art. 319-quater cod. pen., pur prevedendo la punibilità sia di chi induce sia di chi è indotto, non è un reato a struttura bilaterale, in quanto le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in tempi diversi (in tal senso, ex multis, Sez. 6, n. 35271 del 22/06/2016, Mercadante, Rv. 267986; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina, Rv. 265901; Cass. pen., Sez. 6, n. 17285 del 11/01/2013, Vaccaro, Rv. 254620). Nell'ottica di una necessitata lettura "costituzionalmente conforme" della disposizione in oggetto, va quindi ribadito che l'extraneus, ove "si sia determinato a dare o a promettere l'utilità al pubblico ufficiale, pur disponendo, a differenza del concusso, di ampi margini discrezionali, è punibile per aver prestato acquiescenza alla richiesta di prestazione non dovuta in quanto motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale: ciò che lo pone in una posizione di complicità con il pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione. Quando invece (...) il privato non dia o non prometta denaro o altra utilità al pubblico ufficiale, resistendo alle illecite richieste di quest'ultimo, viene meno la ratio che si colloca a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del destinatario della condotta induttiva, che pertanto esula dal paradigma delineato dalla norma incriminatrice" (Sez. 6, n. 35271 del 22/06/2016, Mercadante, cit.). Come, appunto, nel caso del Cr.Fe.. 4.2. La seconda precisazione utile ai fini del corretto svolgimento del giudizio di rinvio discende da tali considerazioni, nella misura in cui ha a che fare con il ruolo giocato dalla "riserva mentale" della persona offesa, e concerne la configurabilità dei reati in forma meramente tentata o consumata, in ragione della differente struttura delle fattispecie ipotizzate. 4.2.1. Ove, infatti, a seguito dell'accertamento sull'effettiva motivazione per cui agì il Cr.Fe., il giudice del rinvio ritenga che il fatto resti attratto all'area dell'art. 319-quater cod. pen., premesso che nella tipicità di tale reato rientra anche la mera "promessa" di danaro o altra utilità, è utile ricordare che, in casi analoghi a quelli oggetto del presente giudizio, la stessa giurisprudenza poc'anzi richiamata ha ritenuto la configurabilità del delitto in forma meramente tentata (Sez. 6, n. 35271 del 22/06/2016, Mercadante, cit.; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Farina, cit.). La ratio decidendi consiste nel fatto che, alla luce di quanto rilevato in precedenza, non si può ritenere che un soggetto sia indotto ove questi abbia una riserva mentale, e cioè abbia fatto una promessa meramente verbale, ma in sostanza inesistente, perché non assistita dalla reale intenzione di adempiervi. 4.2.2. Nel caso, invece, si verifichi che il ricorrente aveva prospettato un pericolo inesistente (nel qual caso il Cr.Fe. sarebbe stato vittima di inganno), andrebbe considerato che dalla sentenza di primo grado la quale - come ricordato dal ricorrente - forma con quella impugnata un unico corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218), emerge che la polizia intervenne dopo la consegna del denaro da parte del Cr.Fe., quando il Pa.Ar. si era già allontanato dal luogo dell'incontro, il che consente di ritenere inverata la produzione del vantaggio (per l'imputato), con correlato danno (per la persona offesa), eventi richiesti dal tipo dell'art. 640 cod. pen. Con la conseguenza che il delitto di truffa sarebbe consumato. 5. In conclusione, la sentenza va annullata affinchè il giudice del rinvio ricostruisca lo sfondo fattuale nel quale sono state avanzate le richieste del Pa.Ar. - accertando, ove necessario, la reale esistenza della persona intenzionata a denunciare il Cr.Fe. - e proceda, se del caso, ad una diversa qualificazione del fatto, sulla base del principio di diritto enunciato nel punto 3.3. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Reggio Calabria. Così deciso il 18 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.
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