RITENUTO IN FATTO
1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria con ordinanza in data 3 febbraio 2020 applicava nei confronti di M.V. la misura della custodia cautelare in carcere, per la partecipazione al gruppo di ‘ndrangheta calabrese, A., in relazione al locale di (OMISSIS).
L'adito Tribunale del riesame confermava il provvedimento applicativo, sia per il profilo afferente la gravità degli indizi di colpevolezza, sia per quello che si collegava alle esigenze cautelari.
Dava conto della complessa attività d'indagine che aveva permesso di acquisire una serie di informazioni, confluite nell'operazione cd (OMISSIS), che aveva indotto a ricostruire la complessa organizzazione di ndrangheta legata al territorio di (OMISSIS) e propriamente alla più articolata famiglia " A.".
Attraverso le intercettazioni eseguite nei confronti di L.D. si registravano particolari importanti sul collegamento del gruppo anzidetto con lo storico clan indicato e si conosceva della relazione gerarchico-mafiosa che caratterizzava i rapporti tra i due nuclei criminali, oltre che il canale informativo verso gli A. stessi, da parte delle diverse articolazioni territoriali individuate sulle zone di competenza.
Il Tribunale di Reggio Calabria richiamava i risultati del procedimento crimine e quelli del processo cd. Infinito che davano conto della storia della cosca associativa, della sua organizzazione in un direttorio centrale (la Provincia o il cd Crimine) e della divisione nei tre mandamenti del Tirreno, dello Ionio e del centro della città di Reggio Calabria. All'interno di ciascuno di essi vi erano, poi, le cdd. locali con capillare funzione del controllo delle aree affidate. Le funzioni di vigilanza sui rapporti tra locali, di natura orizzontale, erano affidate alla Provincia.
La conoscenza sull'organizzazione del territorio di Sinopoli e sulle aree limitrofe era assicurata da diversi procedimenti le cui sentenze erano in cosa giudicata.
I titoli giudiziari avevano acclarato l'esistenza della cosca A. e dei diversi sottogruppi familiari, tra loro strettamente coesi.
Nell'accertamento del procedimento "prima" si era attestata l'esistenza della cosca A. e dei ceppi familiari "carni i cani; paiechi; merri pallunari testazza; cudalunga".
Nei richiami ai giudizi arca e cent'anni di storia si era evidenziato come la cosca A. avesse continuato a operare nonostante le iniziative giudiziarie e come la forza di intimidazione si fosse rivelata e manifestata, ancora, nel concorso dell'esecuzione dei lavori di rifacimento della rete autostradale Salerno-Reggio Calabria, oltre che della piattaforma relativa al centro di siderurgia di Gioia Tauro, anche attraverso intese con i P..
La cosca " A." era stata, poi, interessata da altri procedimenti e tra questi quello noto giudiziariamente come virus, oltre ai procedimenti (OMISSIS) e (OMISSIS). Nel giudizio "(OMISSIS)" si era accertato che il settore estorsivo nella zona di Sinopoli era appannaggio, appunto, del gruppo anzidetto.
Il procedimento (OMISSIS) aveva contribuito a delineare i nuovi assetti e i luoghi in cui avvenivano gli incontri per deliberare sui delitti e sui temi e le questioni associative rilevanti.
Così era emerso nel presente procedimento che il clan A. era insediato in (OMISSIS) e che il reggente, per loro conto, era, appunto, L.D..
La vicenda centrale su cui si concentrava l'attenzione degli inquirenti era, a
giudizio del Tribunale del riesame, l'avvenuta "affiliazione" di alcuni giovani da parte di I.C. ((OMISSIS)) all'insaputa dei vertici della struttura, con una serie di contrasti e malumori all'interno della frangia diretta da L., per essere intervenuta la validazione di quelle iniziative da parte di Lu.An. e C.F., figure storiche della criminalità di tipo ‘ndranghetista locale. L.D. si era opposto con fermezza alla scelta e, ciò nonostante si era giunti, alla determinazione dell'indicata ratifica delle affiliazioni già eseguite, pur imponendosi il divieto di effettuarne altre, sancendo, peraltro, un periodo di sospensione rispetto a nuovi ingressi.
Si registrava, così, la reazione di L.D., sostenuto dai suoi sodali più fidati ( G.A., C.A., Ca.Vi. e N.S.). L. non solo officiava nuove affiliazioni, ma ne programmava altre, al fine di stabilire un riequilibrio tra le due frange createsi, dopo le nuove investiture, e ottenere l'avallo del Crimine di Polsi.
In questo scenario si inseriva la questione della mancata investitura di C.E., figlio di C.G. che aveva insistito con L.D. per conoscere le ragioni per le quali il figlio, "era rimasto fuori" dall'affiliazione. Ciò a fronte dell'investitura dei figli di M.. A C.G. era stato detto, invero, che la mancata nomina del figlio, era derivata da una semplice dimenticanza nella convocazione da parte di F. (detto o peones) che anche aveva officiato il rito di investitura.
C.G. non era persuaso dalla giustificazione offerta e lamentava che il figlio era stato ingiustamente pretermesso, chiedendo spiegazioni a L.D. che gli garantiva che sarebbe andato in fondo alla questione rientrando le affiliazioni tra le sue prerogative principali.
Il Tribunale della libertà si soffermava sulla posizione di M.V., chiamato anche (OMISSIS).
Ne confermava il ruolo di associato convalidando la tesi che M. fosse intraneo alla cosorteria ai ‘ndrangheta, ritenendo che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, anche conversazioni intercettate tra terzi potessero integrare la gravita indiziaria, senza necessità di riscontri esterni.
Si era appreso che proprio M. aveva sponsorizzato alcune affiliazioni.
La circostanza che costui, poi, fosse presente ai riti d'investitura e proponesse anche soggetti da inserire nel clan era, a giudizio del Tribunale del riesame, un forte indicatore d'intraneità, essendo impensabile che il rito stesso potesse essere proposto o presenziato da soggetti estranei.
C.G., invero; aveva spiegato di non essere in possesso di un titolo per affiliare, tanto che si era affidato a M., che assumeva anche ruolo direttivo a (OMISSIS), in assenza di L.D..
Costui spiegava che si sarebbe occupato personalmente dell'affiliazione di C.E. e che non occorreva che il suo interlocutore si rivolgesse nè a F., nè a M.; esprimeva fermo rammarico per non essere stato informato e coinvolto in un cerimoniale di affiliazione. Collegava, tuttavia, l'evento al suo temporaneo allontanamento dal paese.
La disponibilità di L. a seguire l'affiliazione di C.E. induceva il genitore a raccomandare anche il nipote B.A., del quale rappresentava l'ammirazione verso L..
Sulla scorta di quanto premesso il Tribunale del riesame riteneva esistente il quadro di gravità indiziaria circa la partecipazione di M. all'associazione e ciò sulla scorta di intercettazione tra presenti che coinvolgeva, tuttavia, terzi.
Il Tribunale chiariva le ragioni per le quali non si sarebbe potuta richiedere l'esistenza di un riscontro alla conversazione, secondo la tesi difensiva. I dati evidenziati avevano indotto a ritenere la partecipazione proprio in ragione del ruolo di soggetto nella condizione di sponsorizzare affiliazioni e di presenziare a nuove affiliazioni. Lo stesso C. nella discussione con L. aveva spiegato di non avere titolo per presentarsi e, cioè, che non era un soggetto intraneo. Questa era stata la ragione che lo aveva indotto a rivolgersi a M. chiedendone l'intervento che, al contrario, avrebbe potuto porre in essere.
Da ciò si inferiva urta posizione di associato ed erano ritenute esistenti le esigenze cautelari.
Proprio in ragione del ruolo ascritto a M. e della possibilità di reclutare nuovi aderenti, presenziando ai riti di affiliazione si è inferito il pericolo di recidiva.
Nè a favore era stato offerto un quadro che potesse indurre a ritenere lo scioglimento del clan o la recisione del vincolo in capo al M. stesso, con conseguente piena sussistenza del quadro cautelare a suo carico.
2. Ricorre per cassazione M.V., a mezzo dei suoi difensori avvocato Luca Cianferoni e Pasquale Condello, e lamenta quanto segue.
Il ruolo era stato ricostruito attraverso conversazioni captate con lo strumento informatico inoculando un virus nello smartprohone di L.D. e captando i rispettivi dialoghi che, in gran parte dei casi, erano intrattenuti tra terzi colloquianti.
L'identificazione era, tuttavia, già dubbia e si sarebbe dovuto verificare a chi si riferissero effettivamente i soggetti intervenuti nelle conversazioni.
2.1. Con il primo motivo si lamenta il vizio di violazione di legge e degli artt. 335, 266 e 267 c.p.p.. La tipologia di strumento impiegato per l'intercettazione aveva dato luogo ad aspre critiche evidenziando che, essendo "trasportabile" lo strumento di captazione, non sarebbe stato possibile individuare preventivamente il luogo e l'eventuale domicilio ove i colloqui si sarebbero intrattenuti, con la conseguenza che vi sarebbe stata violazione delle regole costituzionali. E' stata richiamata la giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sul punto e lo statuto di utilizzabilità delle conversazioni per i procedimenti di criminalità organizzata, con divieto di controllo postumo.
Nella specie, osserva il ricorrente, la captazione di cui al rit. n. 1603/2017 costituisce l'unico elemento fondante la misura nei confronti del ricorrente. Essa era stata posta in essere nel proc. 2867/2017; in questo procedimento erano iscritte circa nove persone, ma non figurava L.D., poi destinatario del virus informatico.
Lasciava perplessi, dunque, ammettere la possibilità di un soggetto che potesse essere bersaglio delle captazioni informatiche, senza essere iscritto nel registro di cui all'art. 335 c.p.p.. La discrezionalità del Pubblico Ministero nell'iscrizione non poteva spingersi a far ritenere libera quell'attività.
L'iscrizione della notizia di reato è, invero, orientata in funzione dell'obbligatorietà dell'azione penale, mentre quella che inerisce all'indagato è funzionale al giusto processo che garantisce l'art. 111 Cost.
Nè varrebbe opporre la mancanza di elementi idonei a supportare un quadro materiale per l'iscrizione, poichè alla data di emissione del decreto d'urgenza del 14/10/2017 risultavano già presenti relazioni di polizia sulla cui scorta si era motivato il provvedimento urgente.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 416-bis c.p. e art. 273 c.p.p., comma 2.
La prima questione era attinente alla possibilità di abbinare effettivamente l'identità del Ruggiatu a M.. Costui vedeva elevata nei suoi confronti la contestazione ascritta sulla scorta di un colloquio tra L. e C.G.. Pur riportandosi interamente il testo della conversazione si era omesso di valutare il nucleo centrale della questione e, cioè, la possibilità di utilizzare una conversazione tra terzi come prova della responsabilità.
La mancanza della necessità di riscontri esterni non esonerava il giudice da una rigorosa valutazione per ricondurre la conversazione stessa a una piattaforma valida per ritenere i gravi indizi di colpevolezza.
Illegittimo, dunque, era il ragionamento svolto, secondo cui un indizio riscontrava se stesso, a mezzo di una ripartizione del tutto arbitraria. Si era realizzata una circolarità dimostrativa: medesimo era il giorno e medesimi gli interlocutori. Mancava una motivazione adeguata tale da dare conto dell'intraneità sia pur in chiave di gravità indiziaria.
D'altro canto, quando L. e C. parlavano di R. non era certo che si riferissero al ricorrente.
Anche i riferimenti a C.V. erano comparativi e ipotetici e non davano conto della sua presenza in un contesto associativo.
Da ciò in sintesi si è ritenuto che:
L'intercettazione era avvenuta tra soggetti terzi rispetto al ricorrente; durante la conversazione non era intervenuta alcuna condotta concreta idonea ad integrare il delitto associativo;
quanto riferito da C. a L. era stato appreso da terzi e, pertanto, era una fonte de relato;
- le affermazioni di C. erano sconosciute al suo interlocutore soggetto qualificato;
- lo stesso L. nella conversazione del 5/4/2018, progressivo n. 199210 comunicava che R. non aveva detto niente a nessuno, riferendosi a chi avrebbe dovuto officiare il battesimo, aspetto sul quale nonostante la discussione in udienza non vi era stata motivazione;
2.3. Nell'interesse di M.V. sono stati presentati motivi nuovi ex art. 311 c.p.p., comma 4.
Collegandosi al secondo motivo di ricorso principale si ritengono insussistenti i gravi indizi di colpevolezza e si ribadisce la violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2, emergendo un quadro non assistito da gravità e inidoneo a fondare la tipicità del delitto di cui all'art. 416-bis c.p..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Al primo motivo si premette che l'unico elemento a carico di M. risulta dalla conversazione intercettata, con virus informatico, sul telefono di L.D.. Ciò è avvenuto in forza del R.I.T. 1603/17, in data 12/1/2017, nel procedimento n. 2867/17 a carico di C. e altri. La conversazione è stata intercettata presso il domicilio di L.D., avvalendosi del captatore informatico, il 2 aprile 2018 ed è stata intrattenuta con C.G..
All'epoca pendeva, nei confronti di L.D., una richiesta di archiviazione nel separato giudizio (OMISSIS).
Il procedimento "madre" ha visto, dunque, iscritti diversi soggetti tra i quali C..
Non è stato, tuttavia, iscritto nel registro degli indagati L.D., con la conseguenza che le captazioni nei suoi confronti sarebbero state inutilizzabili.
Sulle intercettazioni eseguite attraverso il virus informatico si deve osservare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affrontato la questione (S.U. 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato, Rv. 266905, 266906) e si sono soffermate sulla possibilità di impiegare, per lo svolgimento delle captazioni tra presenti, programmi informatici inseriti a distanza in apparecchi elettronici (smartphone, computer o tablet).
Il nucleo centrale della questione e l'aspetto di maggiore rilevanza si incentra sul carattere dei dispositivi anzidetti. Essi seguono ordinariamente l'utilizzatore e ne permettono l'impiego come "microspie". A ciò si aggiunge la possibilità di sfruttarne il carattere itinerante, con la conseguenza di un agevole impiego anche per effettuare intercettazioni all'interno di domicili e con il rischio di possibili elusioni dei divieti oltre che dei limiti normativamente fissati (attività delittuosa in itinere), senza possibilità di indicazione, ex ante, nel decreto di autorizzazione, dei luoghi in cui acquisire le informazioni, attraverso la captazione delle conversazioni.
La decisione anzidetta delle Sezioni Unite, dopo una completa ricostruzione degli orientamenti susseguitisi, ha ammesso l'uso del particolare strumento informatico nei soli casi d, delitti di criminalità organizzata (art. 51 c.p.p., commi 3-bis e 3-quater), casi in cui trova applicazione la disposizione speciale di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 13, conv. con mod. nella L. 12 luglio 1991, n. 203, che, in deroga all'art. 266 c.p.p., comma 2, ammette le intercettazioni nel domicilio, anche in difetto di attività delittuosa in corso. Negli altri casi, e de iure condito, avuto riguardo al quadro normativo vigente, anteriormente ai recenti interventi normativi, per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, le intercettazioni, attraverso l'impiego di strumenti portatili e captatori informatici, non risultano ammissibili.
1.1.1. Occorre, a fini ai chiarezza e per quanto qui rileva, chiarire che il Tribunale del riesame ha fatto corretta applicazione dei principi in esame e della consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Il ricorrente, oltre a richiamare le modalità dell'intercettazione attraverso virus, si duole del fatto che le captazioni si siano svolte nei confronti anche di L.D., soggetto che non risultava iscritto nel registro degli indagati nei cui confronti emergevano una serie di elementi a carico che l'avrebbero imposta.
Quanto al primo aspetto, il primo procedimento, precisa lo stesso ricorrente, era pendente a carico di C. e altri e risultava a carico anche l'iscrizione di cui all'art. 416-bis c.p. Da ciò discende che si trattava di una materia, per definizione, afferente la "criminalità organizzata", che autorizzava l'intercettazione con il captatore informatico secondo quanto indicato.
1.1.2. Il secondo aspetto è egualmente infondato. Non è rilevante l'argomento sviluppato, relativo alla mancata iscrizione di L.D. e la sua sottoposizione a intercettazione con il captatore informatico.
Lo strumento telematico, del resto, si presenta essenzialmente come un meccanismo "tecnico" di acquisizione dei dati relativi a comunicazioni (anche tra presenti). Indiscutibile la sua invasività, la giurisprudenza ha, tuttavia, delineato il perimetro di applicabilità, enucleando i reati per i quali esso è possibile e le materie in cui si può intervenire acquisendo informazioni e comunicazioni attraverso il suo impiego.
Una volta ammessa la sussistenza dei requisiti di natura obiettiva e il perimetro di operatività delle intercettazioni con il cd. virus informatico non vi sono ragioni per derogare ai principi che sono stati fissati da questa Corte e ritenere che esso richieda la necessaria e preventiva iscrizione nel registro degli indagati del soggetto che subisce l'intercettazione, per inferirne la relativa utilizzabilità. Ciò neppure nei casi in cui egli non sia neppure indagato.
Ai sensi dell'art. 267 c.p.p., costituisce presupposto per l'autorizzazione delle intercettazioni la sussistenza di "gravi indizi di reato", i quali attengono all'illecito penale e non alla colpevolezza di un determinato soggetto, di tal chè non è necessario che tali indizi siano a carico di persona individuata o del soggetto le cui comunicazioni debbano essere captate ai fini di indagine.
La motivazione dell'autorizzazione alle intercettazioni, pertanto, implica la valutazione degli elementi sintomatici dell'esistenza di un fatto penalmente sanzionato, compreso tra quelli indicati nell'art. 266 c.p.p., comma 1, non di elementi relativi alla riferibilità soggettiva del medesimo (in tal senso Sez. V, 8 ottobre 2003, Liscai, RV. 227053; Cass. Sez. 4, 16 novembre 2005, Bruzzese, Rv. 233184).
Resta, pertanto, aspetto irrilevante che, nella specie, al momento dell'autorizzazione, non sussistessero gravi indizi di colpevolezza a carico di L.D. o che costui non fosse stato formalmente iscritto nel registro di cui all'art. 335 c.p.p., per i reati poi contestatigli, non essendo ciò richiesto per l'autorizzazione delle intercettazioni.
Sicchè per procedere legittimamente a captazione non è necessario che gli indizi di reato siano già consolidati a carico di persona individuata o del soggetto le cui comunicazioni debbano essere ascoltate (Sez. 4, n. 8076 del 12/11/2013 Ud. (dep. 20/02/2014), D'Agostino e altro, Rv. 258613; Sez. 4, n. 42017 del 17/10/2006, Capitano e altro, Rv. 235536).
Il tema connesso del ritardo nell'iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. non determina la dedotta inutilizzabilità.
Sovvengono due argomenti a confutazione del motivo di ricorso.
Il primo è che l'omessa annotazione della "notitia criminis" nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p., a carico del soggetto poi indagato, non determina l'inutilizzabilità degli atta di indagine compiuti sino al momento dell'effettiva iscrizione nel registro stesso. Ad eccezione di quanto previsto dall'art. 407 c.p.p., secondo cui il termine massimo delle indagini preliminari -al cui scadere consegue l'inutilizzabilità degli atti di indagine successivi- decorre per l'indagato dalla data in cu il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, la formale iscrizione del nominativo dell'indagato, in generale, per gli effetti di carattere processuale (esercizio di diritti, poteri azioni, decadenze e così via) costituisce un principio d'ordine del sistema, legato ad una regola di non dispersione irragionevole del materiale di conoscenza, in ragione di adempimenti puramente formali. Discende che l'apprezzamento sulla tempestività dell'iscrizione, il cui obbligo nasce solo ove a carico di una persona emerga l'esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti, rientra nell'esclusiva valutazione discrezionale del Pubblico Ministero ed è sottratto, in ordine all'"an" e al "quando", al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinare o addirittura penale nei confronti del P.M. negligente (Sez. 6, n. 40791 del 10/10/2007; Rv. 238039; sul sindacato del giudice sulla data di iscrizione: Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244376).
Il secondo è che le cause di inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.) sono previste espressamente dalle norme di legge e di esse non può operarsi una interpretazione di tipo analogico.
Devono, pertanto, ritenersi pienamente utilizzabili i risultati delle intercettazioni e si deve, in ultima analisi, annotare che il ricorso in parte qua, per il distinto rilievo mosso, non è conforme neppure la regola di specificità del ricorso, non risultando decisivi i rilievi svolti sull'esistenza eventuale di informative di polizia giudiziaria che davano già conto del quadro indiziario a carico di L., al momento dell'attivazione dell'intercettazione, elementi che ne avrebbero imposto l'iscrizione.
Infine, i rilievi dedotti nel presente motivo e nella relativa premessa, sull'esatta identificazione del ricorrente, sono egualmente infondati.
M.V., alias (OMISSIS) è, infatti, conosciuto con quel soprannome dalla polizia giudiziaria e non v'è dubbio che si tratti proprio dell'impugnante, anche alla luce, si legge nel provvedimento oggetto di ricorso (cfr fl. 8), del contenuto dell'intercettazione. Da essa emerge, poi, l'altro elemento individualizzante che si collega al rapporto di parentela con C.G. (primo cugino) e una serie di riferimenti ai due figli dei ricorrente stesso ( F. e D. -1992 e 1994-).
1.2. Il secondo motivo è inammissibile. Esso assume carattere di pura rivalutazione di merito e risulta finalizzato alla nuova ponderazione del contenuto dell'intercettazione su cui si fonda la piattaforma indiziaria a carico di M..
In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. Sez. U, n. 22741 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
Ebbene si lamenta che la conversazione in esame sarebbe l'unico elemento a carico del M. e non integrerebbe una solida base per l'emissione del titolo cautelare.
Pur non essendo necessari risconti ex art. 192 c.p.p., comma 3 sul colloquio si sarebbe dovuta operare, afferma il ricorrente, un'attenta e rigorosa valutazione, operazione che, nella specie, il Tribunale non aveva compiuto, pur risultando il dato l'unico indizio, ex se insufficiente ai sensi dell'art. 192 c.p.p., per l'emissione della misura cautelare.
Il Tribunale del riesame ha, al contrario, esaminato correttamente il contenuto del colloquio e il signifcato che esso aveva nel contesto locale di ‘ndrangheta oggetto di investigazione.
Il ruolo di M. è stato inferito non dalla generica lettura di esso, ma valutando una serie di elementi importanti per ritenere indiziariamente che costui fosse un partecipe della struttura in questione.
Non coglie nel segno, allora, nè il fatto che a carico del ricorrente si disponga di una sola intercettazione, nè il rilievo che il risultato di essa sia inidoneo a fondare gli indizi necessari per l'emissione del titolo cautelare.
Deve annotarsi, sul primo punto, che l'intercettazione è un mezzo di ricerca della prova e, legittimamente attivato, ben può fondare, ex se, una prova di colpevolezza o integrare la Piattaforma dei gravi indizi di colpevolezza che sorreggono l'applicazione della misura cautelare. Non occorrono, dunque, indicatori che attraverso una sommatoria algebrica creino la combinazione degli indizi gravi, precisi e concordanti, neppure quando i colloquianti interloquiscano riferendo fatti appresi da terzi.
Il secondo aspetto sul contenuto della captazione non tiene presente che il parallelismo con la prova cd indiretta non risulta congruente.
Da un lato, perchè non rientra nel perimetro delle intercettazioni e, dall'altro, perchè i due colloquianti non riferiscono solo fatti appresi de relato.
Il nucleo centrale del contenuto della conversazione risulta incentrato su conoscenze dirette sia di L. che di C..
Entrambi sono al corrente della posizione di M. e lo stesso L. spiega che in sua assenza egli non si sarebbe dovuto attivare eseguendo nuove affiliazioni.
Quanto premesso, pertanto, fa comprendere come tutti gli elementi sopra analiticamente indicati, segnano aspetti rilevanti e integrano indicatori importanti da cui inferire il ruolo di soggetto vicino a M. che addirittura in sua assenza assumeva il controllo della cosca localmente insediata. Da ciò era derivata l'iniziativa di affiliare nuovi soggetti, pretermettendo C.E. e generando la dura reazione del padre, C.G.. Egli era a conoscenza diretta del ruolo di M. e pretendeva spiegazioni sul mancato inserimento del figlio, specie e a maggior ragione alla luce delle nomine contrariamente eseguite.
Si comprende, allora, come siano quelle dedotte anche questioni di rivalutazione del contenuto della conversazione e dei fatti ritenuti dal Tribunale del riesame secondo un giudizio immune da censure.
Nè muta la valutazione approfondendo i motivi nuovi con cui si riprendono i motivi principali senza indurre, nonostante lo sviluppo ulteriore, una conclusione diversa.
Alla luce di quanto premesso il ricorso va respinto. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. La cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021