RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il GIP del Tribunale di Livorno ha applicato a O.D. la pena concordata fra le parti, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., in relazione al reato di omicidio colposo stradale di cui all'art. 589-bis c.p., disponendo altresì, ai sensi dell'art. 222 C.d.S., la revoca della patente di guida nei confronti dell'imputato.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso il difensore dell'imputato, articolando un unico motivo con il quale solleva eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 222 C.d.S., comma 2, quarto periodo, (come sostituito dalla L. n. 41 del 2016, art. 1, comma 6, lett. b, n. 1) - per violazione dell'art. 3 Cost., art. 27 Cost., comma 3 -, nella parte in cui rende obbligatoria la revoca della patente quale effetto della condanna ovvero dell'applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 c.p.p., per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis c.p..
Deduce che tale norma non soltanto si pone in palese contraddizione con i precedenti periodi del medesimo comma, che prevedono per le stesse fattispecie criminose la sospensione della patente, ma evidenzia che la previsione automatica della revoca della patente costituisce una violazione dei principi costituzionali di proporzionalità e di ragionevolezza. La norma, infatti, pone sotto il medesimo trattamento fattispecie di reato diverse sia quanto all'evento sia quanto alla condotta, avuto riguardo alla eterogeneità delle ipotesi criminose previste nei vari commi degli artt. 589-bis e 590-bis c.p..
3. Con memoria depositata il 28.6.2018 le parti civili costituite, assistite dall'avv. Guglielmo Mossuto del foro di Firenze, si sono opposte all'accoglimento del ricorso presentato da controparte, insistendo per la conferma in ogni sua parte della sentenza impugnata.
4. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
2. La dedotta questione di illegittimità costituzionale dell'art. 22C.d.S.2, comma 2, quarto periodo, nella parte in cui rende obbligatoria la revoca della patente di guida quale effetto dell'accertamento del reato ascritto all'imputato (art. 589-bis c.p.) è manifestamente infondata.
2.1. Il richiamo del ricorrente alla sentenza della Corte costituzionale n. 185/2015 ed ai principi costituzionali di proporzionalità e di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 27 Cost., che in quella sentenza avevano costituito il parametro di costituzionalità adottato al fine valutare la legittimità costituzionale di una norma penale (dell'art. 99 c.p., il comma 5 in tema di recidiva obbligatoria), rende palese l'erroneità del presupposto (implicito) da cui muove la censura dianzi illustrata: e cioè che la revoca della patente di guida, in tali casi, costituisca una sanzione avente rilievo sostanzialmente penale, in quanto tale soggetta ai principi costituzionali applicabili nella materia penale. In questa prospettiva si tratterebbe non già di una sanzione amministrativa, bensì di una vera e propria "pena", nella declinazione "sostanzialistica" fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte EDU 4/03/2014 Grande Stevens c. Italia), indipendentemente dal nomen iuris, in quanto applicata sul presupposto della commissione di un reato, a conclusione di un procedimento penale e irrogata contestualmente alla condanna penale ovvero all'applicazione della pena concordata dalle parti.
2.2. Tale tesi, tuttavia, non regge ai fini che qui rilevano. Il concetto di matiere penale inteso in senso sostanzialistico è stato elaborato dalla Corte di Strasburgo al precipuo fine di estendere l'applicazione del divieto di bis in idem in conformità all'art. 4 prot. n. 7 CEDU, in relazione alla libertà accordata alla Corte EDU di applicare il regime garantistico della CEDU, mentre non può risolversi nell'attribuzione di un potere in grado di annullare le differenze tra le nozioni europea ed interna di sanzione penale. In proposito, la Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 49 del 14 gennaio 2015) ha chiarito che, in relazione al diritto interno, l'autonomia dell'illecito amministrativo dal diritto penale attiene al più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti migliori per perseguire l'effettività dell'imposizione di obblighi e doveri. La Consulta ha, altresì, sottolineato come la giurisprudenza della Corte EDU abbia elaborato suoi peculiari indici per qualificare una sanzione come pena ai sensi dell'art. 7 CEDU al fine di scongiurare che vasti processi di decriminalizzazione possano avere l'effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della Convenzione EDU senza voler porre in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali nell'adottare strumenti sanzionatori ritenuti più adeguati dell'illecito penale.
2.3. Tale interpretazione della materia penale in senso sostanzialistico non può essere sic et simpliciter trasposta per regolare il presente caso al fine di affermare la contrarietà della norma che impone la sanzione amministrativa accessoria rispetto ai principi sanciti dagli artt. 3 e 27 Cost.; qui non si discute della violazione del principio del ne bis in idem, posto che l'irrogazione di una sanzione amministrativa accessoria in un processo definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p. non equivale a dire che l'imputato sia sottoposto ad un procedimento amministrativo e ad un procedimento penale per il medesimo fatto, godendo egli delle garanzie del giusto processo all'interno del quale viene irrogata la stessa sanzione amministrativa.
2.4. Non è, dunque, possibile affermare che dalla giurisprudenza della Corte EDU possa trarsi in termini assoluti ed astratti un principio di tendenziale equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale, scardinando principi come la riserva assoluta di legge per le norme penali (art. 25 Cost.) ovvero la presunzione di non colpevolezza (pure affermata in Corte EDU 23/09/2008, Grayson e Barnham c. Regno Unito) che, interpretata in tutta la sua estensione, renderebbe illegittima la provvisoria esecutività di condanne pecuniarie anche in materia extrapenale, od anche il divieto assoluto di retroattività della sanzione amministrativa.
2.5. Nella fattispecie qui in esame, la previsione di una sanzione amministrativa irrogata all'esito di un giudizio penale, ancorchè definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p. con riguardo alla pena principale, vanifica la stessa preoccupazione, rinvenibile in alcune enunciazioni teoriche della giurisprudenza CEDU, di una configurazione amministrativa dell'illecito al fine precipuo, se non esclusivo, di eludere le garanzie proprie del processo penale (c.d. "truffa delle etichette").
2.6. In sostanza, la ricorrenza di alcuni caratteri comuni non comporta, di necessità, l'equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale a tutti gli effetti. Anche ove, in ipotesi, si volesse estendere la portata applicativa dei criteri interpretativi posti dalla Corte EDU, quanto sopra va letto, in ogni caso, nell'ambito sanzionatorio penale entro il quale si configura la sanzione amministrativa di cui si tratta.
2.7. L'obbligatorietà dell'irrogazione della sanzione amministrativa, dunque, si ritiene derivi da una scelta legislativa rientrante nei limiti dell'esercizio ragionevole del potere legislativo, più volte considerata dal giudice delle leggi non sindacabile sotto il profilo della pretesa irragionevolezza, in quanto fondata su differenti natura e finalità rispetto alle sanzioni penali (Sez. 4, n. 42346 del 16/05/2017, Tosolini, Rv. 27081901). Giova richiamare, in proposito, i casi nei quali la Consulta ha ritenuto trattarsi di sanzione con chiara finalità preventiva, piuttosto che sanzionatoria (Corte Cost. n. 196 del 12 maggio 2010 in cui il criterio dello scopo è stato adoperato in una questione di legittimità costituzionale che riguardava la possibilità di applicare retroattivamente la normativa in materia di confisca obbligatoria del veicolo per guida in stato di ebbrezza). In questa prospettiva, è evidente che la modifica delle sanzioni amministrative introdotta ad opera della L. n. 41 del 2016, in relazione all'accertamento delle due nuove fattispecie autonome di reato di omicidio colposo stradale (589-bis c.p.) e di lesioni personali stradali gravi o gravissime (590-bis c.p.), abbia inteso inasprire le conseguenze di carattere amministrativo in relazione a condotte di guida accomunate da particolare gravità sia sotto il profilo della condotta che dell'evento, in quanto lesive dei beni primari della vita e della integrità fisica.
3. La denunciata contraddittorietà fra i primi tre periodi dell'art. 222 C.d.S., comma 2, - che prevedono la sospensione della patente in caso di lesioni personali o omicidio colposi conseguenti a condotte commesse in violazione del codice della strada -, ed il quarto periodo - che prevede la revoca della patente per le due nuove figure di reato dianzi menzionate -, oltre a non rilevare ai fini della eccepita questione di illegittimità costituzionale, appare facilmente superabile in via interpretativa alla stregua del principio fissato dall'art. 15 delle c.d. preleggi, secondo cui, in presenza di norme successive fra loro incompatibili, devono ritenersi implicitamente abrogate le norme precedenti, con la conseguenza che per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis c.p. troverà sempre e solo applicazione la sanzione amministrativa della revoca della patente (e non quella della sospensione della patente, chiaramente incompatibile con la revoca).
4. In definitiva, una lettura sistematica della disposizione che impone la revoca della patente di guida consente di ribadirne la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto ai procedimento penale, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che resta eseguibile ad opera del Prefetto, ai sensi dell'art. 224 C.d.S., comma 3, anche in caso di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell'imputato.
5. Stante l'inammissibilità del ricorso, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, nella misura indicata in dispositivo.
Le parti civili non hanno diritto alla liquidazione delle spese in quanto sono intervenute su questioni aventi esclusivo rilievo penalistico.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018