RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 17 gennaio 2022, la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Lecce che, all'esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato la penale responsabilità di G.L. per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, in riferimento agli anni 2011 e 2012, e, unificati i fatti sotto il vincolo della continuazione nonché operata la riduzione di pena per il rito, lo aveva condannato alla pena di un anno di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, G.L., in qualità di legale rappresentante della società "Costruzioni Gallo s.r.l.", al fine di evadere le imposte sui redditi, aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali dovute per l'anno 2011, con evasione di IRES per Euro 125.439,00, nonché per l'anno 2012, con evasione di IRES per Euro 63.344,00.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe G.L., con atto sottoscritto dall'avvocato Pantaleo Cannoletta, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 e vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla ritenuta sussistenza del reato.
Si deduce che illegittimamente si sono addotte a base dell'affermazione di penale responsabilità le risultanze degli avvisi di accertamento dell'Agenzia delle Entrate, i quali, però, per l'anno 2011, valorizzano l'omessa documentazione dei costi sostenuti, salvo che per la somma di 70.252,00 Euro e, per l'anno 2012, riconoscono costi pari al 10 % dei ricavi conseguiti. Si rappresenta che un così ridotto ammontare dei costi è inverosimile e che, anche ai fini civilistici, l'amministrazione finanziaria è tenuta ad accertare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati (si cita Sez. 5 civ., n. 1506 del 2017). Si rileva che non incombe sulla difesa l'onere di provare l'entità dei costi, e che, nella specie, il superamento delle soglie di punibilità è ritenuto per un ammontare molto modesto.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), avendo riguardo ancora alla ritenuta sussistenza del reato.
Si deduce che la sentenza impugnata non contiene alcun accertamento autonomo rispetto a quanto emerge dagli avvisi di accertamento dell'Amministrazione finanziaria, e che il margine operativo lordo delle imprese operanti nel settore di interesse della società "Costruzioni Gallo s.r.l.", l'edilizia, negli anni 2011 e 2012 non ha superato il 15%, mentre, nella specie, il margine operativo lordo ritenuto è pari al 700%.
3. In data 13 febbraio 2023, nell'interesse del ricorrente, il difensore, allegando procura speciale, ha chiesto la sospensione del processo con messa alla prova, a norma del D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 90.
Si deduce che l'art. 90 cit. ha riaperto la possibilità della messa alla prova per i "nuovi" reati di cui all'art. 550 c.p.p., comma 2, tra i quali il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 e che è irragionevole non aver previsto questa facoltà per i reati pendenti in cassazione, tanto più in considerazione del possibile annullamento con rinvio al giudice di appello per nuovo giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è nel complesso infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Infondate sono le censure esposte nei due motivi del ricorso, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, le quali contestano l'affermazione di responsabilità per il reato di omessa dichiarazione, deducendo che l'ammontare delle imposte evase è stato determinato riconoscendo costi di entità irrisoria rispetto ai maggiori ricavi accertati e che il superamento della soglia di punibilità è per importi minimi nonostante l'irragionevole esiguità dei costi riconosciuti.
3. Per un corretto esame delle censure sopra sintetizzate, è opportuno muovere dai dati fattuali ritenuti accertati dai giudici di merito.
La sentenza impugnata ha condiviso le conclusioni della sentenza di primo grado, osservando che le critiche della difesa sulla quantificazione dei costi da parte del giudice di primo grado sono assolutamente generiche perché formulate senza alcuna allegazione di elementi di prova e senza nemmeno una indicazione delle voci relative a detti costi.
La sentenza di primo grado, a sua volta, ha ritenuto accertato che l'imputato, quale legale rappresentante della società "Costruzioni Gallo s.r.l.", al fine di evadere le imposte, ha omesso di presentare le dichiarazioni fiscali dovute per l'anno 2011, con evasione di IRES per Euro 125.439,00 ed evasione di IVA pari a 52.640,00 Euro, nonché per l'anno 2012, con evasione di IRES per Euro 63.344,00 ed evasione di IVA sotto soglia di punibilità, quantificando l'imposta dovuta sulla base di ricavi registrati e, in modesta parte, di bonifici in entrata sui conti correnti riferibili all'impresa.
Precisamente, il Tribunale ha evidenziato che: -) per l'anno 2011, sono emersi ricavi regolarmente registrati per circa 426.000, nonché ulteriori entrate tramite bonifici per 110.000,00 Euro, di cui 10.000,00 per IVA, non registrati in contabilità, dai quali occorreva decurtare il 10 % a titolo di IVA, con conseguente determinazione dell'IRES non dichiarata nella somma di 125.439,00 Euro e dell'IVA non dichiarata nella somma di 52.640,000 Euro; -) per l'anno 2012, emergevano ricavi regolarmente registrati per circa 255.000,00 Euro, dai quali occorreva decurtare il 10% a titolo d'IVA, con conseguente determinazione dell'IRES non dichiarata nella somma di 63.344,00 Euro.
4. La questione da esaminare, quindi, attiene alla individuazione dei criteri di determinazione dei costi in presenza di ricavi documentalmente accertati sulla base delle risultanze delle registrazioni contabili e dei bonifici in entrata.
4.1. Secondo la convergente giurisprudenza penale di legittimità, in tema di reati tributari, al fine di determinare l'ammontare della imposta evasa, il giudice deve operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell'imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, subisce le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell'accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che i costi deducibili non contabilizzati vanno considerati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 40412de1 13/06/2019, Tirozzi, Rv. 27712001, e Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015, Granata, Rv. 265160-01).
4.2. In linea di principio, questo indirizzo ermeneutico può sembrare non del tutto convergente con quello elaborato dalla giurisprudenza civile di legittimità, come segnalato espressamente nel ricorso.
Più decisioni delle Sezioni civili della Corte di cassazione, infatti, hanno affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l'Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell'art. 38 (accertamento sintetico) o nell'art. 39 (accertamento induttivo), bensì nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (cd. accertamento d'ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, senza che possano operare le limitazioni previste dall'art. 75 (ora 109) del D.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (cfr. per tutte, Sez. 5 civ., n. 2581 del 04/02/2021, Rv. 660477-01, e Sez. 5 civ., n. 1506 del 20/01/2017, Rv. 642453-01).
4.3. Le decisioni della giurisprudenza civile di legittimità, però, come emerge dalle relative motivazioni, riguardano l'accertamento di ricavi determinati induttivamente o presuntivamente ricostruiti sulla base dei prelievi effettuati dal conto corrente del contribuente, e si fondano sulle considerazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2005.
La decisione del Giudice delle leggi appena citata ha avuto specificamente ad oggetto la questione della "legittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2) (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell'ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell'amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili". Nel ritenere la questione non fondata, inoltre, la Corte costituzionale ha precisato che detta presunzione non risulta "lesiva del canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all'esercizio dell'attività d'impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile".
Incidentalmente, può essere utile aggiungere che le argomentazioni indicate sono state espressamente e puntualmente riprese dalla recentissima sentenza, Corte Cost. n. 10 del 2023.
4.4. Da quanto esposto, sembra ragionevole desumere che la eventuale dissonanza tra indirizzo ermeneutico della giurisprudenza penale e indirizzo ermeneutico della giurisprudenza civile di legittimità concerne la specifica ipotesi dei ricavi accertati induttivamente sulla base dei prelievi ingiustificati che un imprenditore effettua dai conti correnti bancari.
Ben diversa, però, è la situazione in cui i ricavi sono accertati sulla base delle registrazioni regolarmente operate nelle scritture contabili o, comunque, di entrate registrate nei conti correnti, ma non anche nella contabilità.
In questi casi, infatti, l'entità dei ricavi è certa e documentalmente provata.
Al contrario, la presunzione della produzione di ricavi da prelevamenti effettuati da rapporti bancari, quando tali prelevamenti non risultano dalle scritture contabili e di essi il contribuente non indica il soggetto beneficiario, attiene a somme erogate per fronteggiare costi, dai quali si inferisce la generazione di ricavi. Come efficacemente precisato dalla Corte costituzionale, la presunzione in questione costituisce "una presunzione che, quanto all'equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch'essi, dalla contabilità dell'imprenditore" (così Corte Cost., n. 10 del 2023, p. 8).
Si può quindi ribadire che, almeno quando i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie sono individuati sulla base di entrate registrate puntualmente nelle scritture contabili o nei conti correnti bancari, e, quindi, sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza.
5. Nella vicenda in esame, poste le risultanze fattuali indicate nel p. 3, ed il principio di diritto esposto nel p. 4.4, deve ritenersi che le conclusioni della sentenza di merito in ordine all'affermazione di responsabilità penale dell'imputato sono immuni da vizi.
Si è detto infatti che, quando i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie sono individuati sulla base di entrate registrate puntualmente nelle scritture contabili o nei conti correnti bancari, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza.
Si è evidenziato, inoltre, che, nella specie, gli imponibili non dichiarati e le imposte evase sono stati determinati sulla base di entrate registrate puntualmente nelle scritture contabili o nei conti correnti bancari.
Risulta, quindi, incensurabile la conclusione secondo cui, nella specie, non possono essere riconosciuti costi superiori a quelli individuati, stante l'assoluta mancanza di allegazione di pertinenti elementi di prova e, addirittura, di indicazione delle voci relative a detti costi.
6. Infondata è anche la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, prospettata sulla premessa della irragionevolezza della esclusione dell'applicabilità della disciplina prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2022 art. 90 ai soli processi pendenti in cassazione.
6.1. Chiaro risulta il dato testuale delle disposizioni applicabili.
Va premesso che D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 32, comma 1, lett. a), ha ampliato l'applicazione dell'istituto della messa alla prova a vari reati, tra cui quello di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 inserendolo nel catalogo dei reati indicati dall'art. 550 c.p.p., comma 2.
Va poi evidenziato che D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 90 ha dettato una disciplina transitoria per i reati previsti dall'art. 32, comma 1, lett. a), D.Lgs. cit., estendendo, in relazione ad essi, la possibilità di accesso all'istituto della messa alla prova "anche ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in grado di appello alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo".
Ora, la previsione testuale del D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 90, siccome specificamente relativa "anche ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in grado di appello alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo", induce ad escludere che la possibilità di accesso alla messa alla prova per i reati per i quali non era prevista l'applicazione di tale istituto prima dell'entrata in vigore dell'art. 32, comma 1, lett. a), D.Lgs. cit. si estenda pure ai processi già pendenti davanti alla Corte di cassazione.
6.2. Ne' questa soluzione appare manifestamente irragionevole.
Si può richiamare, in proposito, l'elaborazione della giurisprudenza per i processi già pendenti all'epoca dell'introduzione nel sistema penale dell'istituto della messa alla prova. In particolare, si era osservato che la nuova disciplina è inapplicabile nel giudizio di cassazione perché presuppone un iter alternativo alla celebrazione del processo, perché richiede una specifica disposizione transitoria, e perché, per la sua natura mista, processuale e sostanziale, non è regolata dal principio di retroattività della lex mitior di cui all'art. 2 c.p. (così, in particolare, Sez. F, n. 35717 del 31/07/2014, Ceccaroni, Rv. 259935-01, e Sez. F, n. 42318 del 09/09/2014, Valmaggi, Rv. 261096-01).
Si può rilevare, inoltre, che la Corte costituzionale ha ritenuto infondate anche le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis c.p.p., comma 2, impugnato, in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova - introdotto dalla L. n. 67 del 2014 - ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della nuova norma (Corte Cost., sent. n. 240 del 2015).
E, in particolare, sembra importante evidenziare che, secondo la Corte costituzionale, "(I)'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, è connotato comunque da un'intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Il legislatore, infatti, gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina di nuovi istituti processuali, a condizione che ciò non sia manifestamente irragionevole. La disposizione impugnata, inoltre, attesa la sua prospettiva processuale, è regolata dal principio tempus regit actum, e non già dal principio di retroattività della lex mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena. Sono prive di fondamento, infine, le asserite violazioni del diritto di difesa e del giusto processo, giacché sollevate nell'erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell'entrata in vigore della norma censurata dovrebbe riconoscersi all'imputato la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, è stata legittimamente esclusa l'applicabilità da parte del legislatore" (così la massima ufficiale di Corte Cost. n. 240 del 2015).
7. In conclusione, la complessiva infondatezza delle censure determina il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Appare opportuno precisare che non sono decorsi i termini di prescrizione neppure per il reato di omessa dichiarazione per l'anno 2011, perché, in disparte da ogni altra considerazione, il processo, durante la fase di primo grado, è stato rinviato dall'udienza del 21 marzo 2017 all'udienza del 26 settembre 2017, per l'adesione del difensore dell'imputato all'astensione proclamata dalle Camere Penali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2023