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Omessa dichiarazione: responsabilità principale dell'amministratore di fatto e concorso del prestanome

Omessa dichiarazione

Cassazione penale sez. II, 22/12/2020, n.8632

Del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale del riesame dei provvedimenti cautelari reali di Sassari, con ordinanza in data 6 luglio 2020, ha accolto il riesame proposto dagli indagati P.Q. e M.P.L.P. avverso il decreto di sequestro preventivo disposto dal G.i.p. presso il Tribunale di Tempio Pausania in data 26 maggio 2020, finalizzato alla confisca del profitto tratto dagli indagati dai delitti di cui all'art. 640 bis c.p. e L. n. 74 del 2000, art. 5 revocando la misura cautelare. 2. Propone ricorso per cassazione il Pubblico ministero presso il Tribunale di Tempio Pausania deducendo, con il primo motivo, violazione di legge in riferimento alla L.R. Sardegna n. 21 del 1994, artt. 7 e 8 in relazione al contestato reato di cui all'art. 640 bis c.p.; il Tribunale aveva escluso l'esistenza di adeguati elementi per ritenere sussistente la fattispecie incriminatrice, astrattamente ipotizzata in relazione all'art. 640 c.p., comma 2, ritenendo che la mancata produzione dei bandi di gara relativi all'affidamento dei servizi per la cura e la custodia dei cani randagi fosse di ostacolo nel verificare che tra i requisiti di ammissione vi fosse quello della natura associativa dei soggetti offerenti, natura assunta fittiziamente dagli indagati con la costituzione di un'associazione di volontariato che, di fatto, presentava requisiti e connotati di un ente commerciale; in tal modo il Tribunale aveva pretermesso la normativa regionale, di rango superiore alle disposizioni dei bandi di gara, che impone l'affidamento in gestione dei servizi indicati esclusivamente in favore di organizzazioni protezionistiche iscritte nel registro generale del volontariato. 2.1. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge, in riferimento al D.L. n. 83 del 2012, art. 32 bis, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, e L. n. 74 del 2000, art. 5 nonché vizio di motivazione; il provvedimento impugnato aveva escluso la sussistenza dell'ipotesi di reato dell'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, per il mancato superamento delle soglie di punibilità indicate nella norma della L. n. 74 del 2000, art. 5 applicando erroneamente il principio di cassa, quanto all'imputazione dei ricavi conseguiti dalla società commerciale, che il D.L. n. 83 del 2012, art. 32 bis limita all'ambito di applicazione dell'iva, dovendosi invece applicare il principio di competenza previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 per la determinazione dei ricavi; il Tribunale aveva travisato il contenuto del processo verbale di constatazione, quanto all'affermata duplicazione di imposte che invece erano state correttamente determinate; inoltre, con motivazione illogica il Tribunale aveva escluso l'attribuibilità del reato all'indagato P., ritenendo che l'obbligo della dichiarazione gravava sul legale rappresentante della fittizia associazione, mentre l'accertamento operato circa l'esistenza di un'attività a carattere commerciale svolta dalla fittizia associazione imponeva l'obbligo dichiarativo al gestore di fatto della società, correttamente individuato nel P.. 3. La Corte ha proceduto all'esame del ricorso con le forme previste dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 37, art. 23, comma 8. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. In via preliminare occorre esaminare l'istanza, formulata in termini identici con le memorie depositate dai difensori degli indagati, istanza volta alla "rimessione in termini" per la trattazione partecipata all'odierna udienza ovvero per il suo rinvio. Rappresentano i difensori di aver effettuato richiesta di trattazione orale ai sensi del D.L. n. 135 del 2020, art. 23, comma 8, (l'Avv. Di Benedetto in data 3 dicembre 2020 e l'Avv. Ponsano in data 7 dicembre 2020), istanze che venivano rigettate dalla Presidente della Sezione; di non aver mai ricevuto la notifica del ricorso proposto dalla parte pubblica; di aver appreso della pendenza dl ricorso solo per effetto della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale, avvenuta il 19 novembre 2020, con evidente compressione delle prerogative difensive circa la scelta di discutere oralmente l'oggetto del ricorso, in difetto di conoscenza del contenuto dell'impugnazione; concludevano formulando richiesta di rimessione nel termine per partecipare all'udienza, da rinviarsi a data successiva al 22 dicembre 2020 per consentire alle difese di prender parte alla discussione orale. 1.1. Le istanze devono essere rigettate. Osserva la Corte che nessuna disposizione prevede l'obbligo di notificazione del ricorso in cassazione proposto dal P.m. in materia cautelare ai sensi dell'art. 311 c.p.p., poiché la norma dettata dall'art. 584 c.p.p., funzionale alla proposizione dell'appello incidentale, non ha ragion d'essere in relazione al sistema delle impugnazioni in materia cautelare ove non opera quell'istituto (Sez. Unite, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248868). Sotto altro profilo, dal giorno della notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale le parti avevano un termine certamente congruo (che scadeva il 26 novembre 2020) per formulare tempestivamente la richiesta di trattazione orale, come precisato nei provvedimenti della Presidente della Sezione (in data 4 dicembre e 9 dicembre 2020) che hanno rigettato, perché tardive, le richieste di trattazione orale. 2. Il ricorso é nel suo complesso fondato. 2.1. L'esame del primo motivo di ricorso rende necessaria la ricostruzione del quadro normativo che, a livello statale e regionale, disciplina le attività amministrative affidate ai comuni per la gestione, mediante convenzioni, dei servizi per l'erogazione di prestazioni di ricovero, cura e custodia degli animali abbandonati o randagi. 2.1.1. La legge nazionale (I. 14 agosto 1991, n. 281, legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo) prevede che "I comuni, singoli o associati, e le comunità montane provvedono a gestire i canili e gattili sanitari direttamente o tramite convenzioni con le associazioni animaliste e zoofile o con soggetti privati che garantiscano la presenza nella struttura di volontari delle associazioni animaliste e zoofile preposti alla gestione delle adozioni e degli affidamenti dei cani e dei gatti" (art. 4, comma 1, come modificato dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 371). In attuazione delle competenze affidate dal legislatore nazionale alle regioni nella materia indicata (L. n. 281 del 1991, artt. 3 e 8), la regione Sardegna ha emanato la L.R. 18 maggio 1994, n. 21 (norme per la protezione degli animali e istituzione dell'anagrafe canina) prevedendo la possibilità di affidare, mediante convenzioni, sia l'erogazione di prestazioni di ricovero, cura e custodia degli animali abbandonati o randagi, in strutture private, sia la gestione di strutture pubbliche di ricovero da parte di privati (L.R. 18 maggio 1994, n. 21, art. 7). I soggetti con cui é consentita la stipula delle convenzioni, in origine individuati nelle "organizzazioni protezionistiche iscritte nel registro regionale del volontariato" (così il testo dell'art. 7, comma 1), sono attualmente "i privati di cui all'art. 6 e (...) le associazioni di volontariato iscritte all'albo regionale" (per effetto della modifica alla norma su indicata, introdotta dalla L.R. Sardegna 5 marzo 2008, n. 3, art. 8, comma 19, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 2008). Il richiamo alla L.R. 18 maggio 1994, n. 21, art. 6 mette in luce un evidente difetto di coordinamento, poiché in quella norma non risulta alcuna espressa descrizione della categoria dei soggetti che sono indicati dall'art. 7; l'unico riferimento rinvenibile nella disposizione dell'art. 6 é quello contenuto nell'espressione ove si prevede che "la Regione agevola e finanzia, altresì, la costruzione e la ristrutturazione dei canili privati". Nello stesso senso, va rilevato che, pur avendo compreso tra i soggetti che possono stipulare le convenzioni anche "i privati di cui all'art. 6", il legislatore regionale ha lasciato immutato il tenore dell'art. 7 che individua, come soggetti che assumono gli obblighi discendenti dalle convenzioni, le organizzazioni protezionistiche (poiché , quanto al contenuto delle convenzioni, l'art. 7 al comma 1 continua a prevedere che esse hanno "ad oggetto: a) l'erogazione di prestazioni di ricovero, cura e custodia degli animali abbandonati o randagi, in strutture proprie dell'organizzazione protezionistica; b) la gestione di strutture pubbliche di ricovero da parte dell'organizzazione protezionistica"). 2.1.2. Alla stregua dei criteri stabiliti dal legislatore nazionale (L. n. 281 del 1991 cit., art. 4, comma 1), deve ritenersi che l'estensione ai privati, diversi dalle associazioni di volontariato, della possibilità di concludere le convenzioni su indicate per la gestione dei canili é pur sempre condizionata alla concreta garanzia che i privati assicurino nello svolgimento del servizio la presenza di volontari delle associazioni animaliste e zoofile (Corte Cost. n. 285 del 18710/2016). 2.1.3. Così definito il contesto normativo, peraltro richiamato dalla stessa ordinanza impugnata (pag. 15, nota 9), e considerata la pacifica simulazione del carattere volontaristico dell'associazione costituita dagli indagati per la partecipazione ai bandi di gara, destinati all'assegnazione delle convenzioni in diversi comuni della regione Sardegna, risulta distonico il rilievo formulato dal Tribunale del riesame circa l'assenza della documentazione concernente le singole procedure di affidamento dei servizi, che impedirebbe di apprezzare l'incidenza degli artifici e raggiri posti in essere dagli indagati rispetto alla conclusione e all'esecuzione delle convenzioni con gli enti pubblici. L'accertata condotta diretta a dissimulare la natura commerciale dell'attività svolta, dietro lo schermo dell'associazione di volontariato, appare rivolta ad eludere i limiti che la disciplina delle attività di volontariato impone ai soggetti che intendano accedere allo speciale regime previsto per quelle associazioni. Come risulta dalla disciplina regionale (L.R. 13 settembre 1993, n. 39, disciplina dell'attività di volontariato e modifiche alle leggi regionali L.R. 25 gennaio 1988, n. 4, e L.R. 17 gennaio 1989, n. 3), che richiamava espressamente i requisiti previsti dalla L. 11 agosto 1991, n. 266, art. 3, (legge quadro sul volontariato, applicabile all'associazione costituita il 20 gennaio 1999, ora sostituita dal D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, Codice del terzo settore, che disciplina le organizzazioni di volontariato all'art. 32), sono considerati organizzazioni di volontariato tutti gli organismi, liberamente costituiti al fine di svolgere le attività prestate "in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà" (L. n. 266 del 1991, art. 2) che si avvalgono in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti (comma 1) e che possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro fini, salvo il limite di compatibilità con lo scopo solidaristico (comma 2), con espresse previsioni nei patti costitutivi ovvero negli statuti, dell'assenza di fini di lucro, della democraticità della struttura, dell'elettività e della gratuità delle cariche associative nonché della gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti (comma 3). Si tratta di caratteristiche e requisiti che la stessa ordinanza ha escluso ricorrano nell'assetto e nell'organizzazione dell'associazione costituita dagli indagati; la valenza degli artifici volti a far apparire sussistenti le condizioni per riconoscere la qualifica di associazione di volontariato é confermata, quantomeno a livello interpretativo, dalla circolare del Ministero della Sanità del 14 maggio 2001, n. 5, relativa all'attuazione della L. 14 agosto 1991, n. 281, ove si affermava che "la L. n. 281, art. 2, comma 11 e art. 4, comma 1, devono essere intesi nel senso che le convenzioni per la gestione dei canili e dei rifugi devono essere concesse prioritariamente alle associazioni o agli enti aventi finalità di protezione degli animali". In ogni caso, spettava al Tribunale verificare, sulla scorta degli elementi di fatto acquisiti, se il soggetto giuridico risultato aggiudicatario dei servizi in regime di convenzione potesse quantomeno garantire, al pari di altri soggetti privati diversi dalle organizzazioni di volontariato, la presenza di volontari delle associazioni animaliste e zoofile nello svolgimento del servizio. Per entrambi i profili, infatti, si tratta di requisiti in grado di incidere sulla scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione. L'errata applicazione del dato normativo comporta la necessità di un nuovo giudizio da parte del Tribunale del riesame sul punto, alla stregua dei criteri indicati, al fine di accertare la sussistenza del fumus delicti. procedendo all'esatta qualificazione del fatto storico contestato. 2.2. Il secondo motivo di ricorso é fondato. Il preliminare profilo dell'individuazione del soggetto obbligato alla presentazione della dichiarazione, ai sensi della L. n. 74 del 2000, art. 5 censurato dal P.M. ricorrente, é stato erroneamente affrontato dall'ordinanza impugnata. Gli accertamenti eseguiti in sede tributaria, di cui dà conto lo stesso provvedimento, hanno pacificamente condotto a rilevare che l'associazione di volontariato presieduta dalla indagata M. (ma di cui sarebbe stato legale rappresentante il P., per come si legge nell'imputazione cautelare) in realtà simulava una società di fatto costituita tra gli indagati, avente natura commerciale, riconducibile alla categoria della società in nome collettivo. Posta questa premessa logica, l'adempimento dell'obbligo dichiarativo in relazione all'imposta sul valore aggiunto, nella misura accertata dagli organi investigativi, faceva carico - in primo luogo - al soggetto che di fatto amministrava la società e, cioé , all'odierno indagato P.M.. E' infatti principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello a mente del quale il reato di omessa presentazione della dichiarazione, ai fini delle imposte dirette o IVA, previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5 é configurabile nei confronti dell'amministratore di fatto di una società mentre l'amministratore di diritto, ove risulti essere mero prestanome, risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2, e art. 2932 c.c., a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo, Rv. 250962, al contrario di quanto riportato nella massima; Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Biffi, Rv. 264971); in ogni caso, del reato risponde anche l'amministratore di fatto in quanto egli va equiparato a quello di diritto (Sez. 4, n. 24650 del 16/04/2015, Longoni, Rv. 263728; Sez. 3, n. 33385 del 05/07/2012, Gencarelli, Rv. 253269). Quanto, poi, alla concreta determinazione della base imponibile e delle imposte dovute, operazione rilevante ai fini della verifica del superamento delle soglie di punibilità, l'ordinanza non ha fornito una specifica indicazione sugli importi presi in esame e su cui si afferma essere stata fatta applicazione non corretta del principio di cassa, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 32 bis; e ciò soprattutto in quanto nella motivazione del provvedimento impugnato sembrano confondersi i profili dell'accertamento della base imponibile dei ricavi, per i quali come correttamente denunciato dal P.m. ricorrente - va applicato il principio di competenza fissato dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109 e della determinazione dell'1.v.a. dovuta, calcolata secondo il principio di cassa indicato. 3. All'accoglimento del ricorso, consegue, dunque l'annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Sassari, che dovrà procedere a nuovo esame volto alla verifica della sussistenza dei presupposti dei reati indicati, facendo applicazione dei principi di diritto su enunciati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Sassari - sezione per il riesame delle misure cautelari - per nuovo esame Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2020. Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021
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