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Appropriazione indebita e gestione autonoma delle risorse aziendali: reati plurimi e continuità criminosa

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Tribunale , Terni , sez. I , 03/01/2024 , n. 3512

Nell’ambito di reati di appropriazione indebita commessi da un dipendente con disponibilità di risorse aziendali, la pluralità di condotte illecite, ciascuna riconducibile a specifici episodi di appropriazione, configura autonomi reati uniti dal vincolo della continuazione. La responsabilità penale può fondarsi su elementi probatori diretti e indiretti, nonché sulla dimostrata possibilità materiale dell’agente di operare in autonomia, anche oltre le proprie mansioni formali.

Appropriazione indebita e abuso di relazione d’opera: indebita ritenzione di somme altrui in violazione di obblighi contrattuali (Giudice Elena di Tommaso)

Appropriazione indebita da parte di un amministratore condominiale: mancata restituzione di somme destinate a lavori straordinari (Giudice Raffaele Muzzica)

La certezza della prova è indispensabile per configurare il reato di appropriazione indebita

L'appropriazione indebita richiede il dolo specifico di profitto ingiusto e l'assenza di un diritto soggettivo all'uso della res.

Assegni familiari e responsabilità penale per appropriazione indebita

Appropriazione indebita e tempestività della querela (Giudice Raffaele Muzzica)

Appropriazione indebita e accesso abusivo: responsabilità penale e subordinazione della sospensione condizionale al risarcimento (Giudice Martino Aurigemma)

La piena cognizione della condotta illecita determina la decorrenza del termine per proporre querela in caso di appropriazione indebita

Appropriazione indebita: remissione tacita di querela e criteri di accertamento del dolo specifico

Ruolo formale dell'amministratore e responsabilità per appropriazione indebita

La sentenza integrale

Svolgimento del processo
- Con sentenza del 7.3.2022 il Tribunale di Terni dichiarava Pa.An. responsabile dei reati meglio indicati nei due capi della rubrica (riuniti nel medesimo procedimento per connessione), relativi a plurimi episodi di appropriazione indebita aggravata di rilevanti fondi della "Az.Ca. s.p.a.", da lei commessi in qualità di unica addetta all'ufficio amministrativo di detta società, mediante molteplici operazioni illecite, consistite tra l'altro nel pagamento a terze ditte (Ti. s.a.s. ed altre) di prestazioni non afferenti la società, oppure nell'appropriazione di contanti dalla cassa o di pagamenti pervenuti alla società o ancora di contanti solo "apparentemente" consegnati a terzi creditori della società; con la recidiva reiterata. Il giudicante riteneva provata la penale responsabilità dell'imputata sulla base delle risultanze processuali, in specie delle testimonianze assunte e della documentazione anche bancaria acquisita. Riepilogate le prove agli atti, il giudice dava conto di come la Pa., proprio approfittando del fatto di essere addetta alla gestione contabile dell'impresa in via pressoché esclusiva, dal 2009 al 2013, con ampie facoltà di tenuta della cassa, di occuparsi dei pagamenti da fare o da ricevere, di operare con le banche sia online che con assegni, avesse nel tempo effettuato tutta una serie di operazioni che avevano causato consistenti ammanchi alle finanze della società, a vantaggio proprio o di propri congiunti.

In particolare la sentenza traeva prova dalla deposizione di No.Pa., legale rappresentante della soc. agricola - costituitasi parte civile -, che aveva riferito di come nel tempo fosse emersa tutta una serie di operazioni sospette, poi rivelatesi illecite in seguito ai controlli effettuati su più fronti, dei fornitori, dei clienti, dei dipendenti, della contabilità.

Gli ulteriori testi, nel rispettivo ruolo e/o veste di ognuno, avevano confermato nella sostanza, direttamente o indirettamente, le operazioni illecite compiute dalla Pa., dalle quali erano derivati importanti poste di ammanchi.

Tra le molteplici vicende illecite vi era anche quella in cui la Pa. aveva, tra l'altro, falsificato le sottoscrizioni di altro dipendente, Bo.Gi., che costui aveva disconosciuto e per le quali aveva querelato la Pa..

Dalle testimonianze di altri dipendenti della società agricola si evinceva, inoltre, che dopo l'emersione di detti variegati ammanchi vi erano stati incontri con la Pa. che in lacrime aveva ammesso le proprie responsabilità. Successivamente nel corso del procedimento penale vi erano state trattative (per le quali il procedimento era stato lungamente rinviato) conclusesi con l'impegno anche cambiario della Pa. a risarcire la società, senza che i pattuiti pagamenti siano poi stati portati a termine. Il giudice riteneva pertanto integrati i reati di appropriazione indebita contestati.

Nel calcolo della pena, riconosciuto il vincolo della continuazione tra tutti gli episodi illeciti, muoveva dalla pena base di un anno di reclusione e 300 Euro di multa, che aumentava della metà per la sussistente recidiva reiterata (1 anno 6 mesi e 450 Euro), di 3 mesi e 150 Euro per l'aggravante della rilevante gravità del danno e di 2 mesi e 150 Euro per l'aggravante dell'abuso delle relazioni d'ufficio (1 anno 11 mesi 750 Euro), di 1 mese e 50 Euro per ciascuno degli ulteriori 25 reati satelliti, per la pena finale di 4 anni di reclusione e 2.000 Euro di multa.

Condannava, altresì, l'imputata al risarcimento dei danni in favore della società costituitasi parte civile, da liquidarsi in sede civile, con concessione in favore della stessa di una provvisionale di 80.000 Euro.

- Avverso detta sentenza proponeva appello l'imputata.

Con primo motivo sosteneva che il giudice di primo grado avesse valorizzato l'aspetto accusatorio delle deposizioni testimoniali, senza tener conto dei plurimi profili invece di senso contrario. In particolare deduceva, sotto plurimi e ribaditi profili, che la Pa. non poteva operare indisturbata (come ritenuto in sentenza), necessitando invece per i vari pagamenti da effettuare il preventivo benestare del legale rappresentante No. (testi Ro., Tr. e On.). Osservava come peraltro fosse inverosimile che "la gestione di una S.p.a. fosse demandata, per più di 3 anni, ad una segretaria", tanto più considerato l'elevato fatturato annuo della stessa. Deduceva inoltre che vari aspetti della vicenda non erano stati approfonditi a dovere, quali quelli della verifica delle operazioni in contanti, della ricerca dei "giustificativi" firmati dal No. - a dimostrazione della sua ingerenza nei pagamenti -, dell'accertamento dei rapporti di dare/avere tra la Pa. ed il legale rappresentante della società, di eventuali anticipi di denaro da parte della Pa., che poi ne sarebbe stata rimborsata.

In merito alla sussistenza oggettiva dei reati, si richiamava, seppur genericamente, alle dichiarazioni dei testi Pa., Tr. e Ro..

Con secondo motivo l'appellante contestava la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Sosteneva mancare prova del dolo specifico, richiamando anche al riguardo profili di inverosimiglianza del fatto che la Pa., semplice segretaria, fosse preposta alla gestione di tutta la società e che i creditori della società non fossero insorti nei 60/90 giorni dalla scadenza dei pagamenti.

Comunque ipotizzava che l'eventuale condotta illecita fosse stata una "manifestazione di errore", piuttosto che frutto di un atteggiamento intenzionale.

Con terzo motivo disquisiva sulla necessità di pervenire a condanna soltanto in difetto di ogni ragionevole dubbio in contrario.

Con quarto motivo chiedeva in subordine concedersi le attenuanti generiche in ragione della sua condotta extra processuale, tesa a trovare un bonario accordo transattivo, pure in parte da lei onorato per l'importo complessivo di 12.000 Euro da lei corrisposto a titolo risarcitorio.

Con quinto motivo chiedeva ridursi la pena inflitta, estremamente eccessiva.

Sosteneva pure essersi trattato di un reato unitario di appropriazione indebita, non già di plurimi reati da porre in continuazione, come del resto formalmente contestato nella imputazione.

Con ultimo motivo reiterava l'eccezione di nullità della citazione a giudizio relativamente al capo II)

di imputazione, estremamente generico.

- In esito all'udienza del 5.3.2024, le parti concludevano come in atti.

Motivi della decisione
- La sentenza di primo grado, correttamente e logicamente motivata, merita di essere confermata, salvo che in punto di trattamento sanzionatorio.

- Per cominciare dalla critica di fondo mossa nell'atto di appello -circa la non totale autonomia contabile-amministrativa in capo alla Pa. - si osserva che, ovviamente, non all'intera gestione della società era preposta l'imputata e che il legale rappresentante No. (verosimilmente unitamente ad altri organi direttivi della società) presiedeva alla gestione.

Ma ai fini del decidere rileva il ruolo che l'imputata di fatto aveva nella tenuta della contabilità e soprattutto la disponibilità che lei materialmente aveva nel maneggiare il contante e nel compiere o semplicemente annotare determinate operazioni di pagamento, in entrata o in uscita. Trattandosi di accertare eventuali ammanchi ed illeciti quel che conta non sono tanto le mansioni formali attribuite alla Pa. (che naturalmente non potevano ricomprendere attività illecite), ma la possibilità che lei, chiaramente di nascosto ed attraverso modalità fraudolente e non manifeste, potesse compiere quelle attività che sono poi risultate e che hanno da un lato pregiudicato la società e dall'altro giovato a lei o ai suoi congiunti.

Poco rileva allora disquisire delle mansioni formali della Pa., se non vi sono reali contestazioni in ordine alla concreta possibilità che lei aveva di volgere a suo favore la contabilità e la gestione monetaria della società (circostanza, questa, che anzi il suo difensore ha sostanzialmente ammesso nella sua discussione conclusiva).

A titolo di esempio non rileva che i pagamenti dovessero essere in teoria autorizzati da No., bensì il fatto che l'imputata - grazie alle sue deleghe ed all'autonoma possibilità di operare in banca o con gli assegni e nella compilazione delle fatture - fosse nella condizione pratica di poterli effettuare a proprio piacimento, magari indicandone un falso destinatario, annotandone una inveridica finalità, giovandosi di atti da lei falsificati, oppure non iscrivendo in contabilità il pervenimento di pagamenti da lei poi prontamente dirottati o ponendo in essere altri stratagemmi atti a coprine l'illecita condotta.

Tali evenienze fattuali sono proprio quelle verificatesi in concreto, secondo quanto emerso dalle plurime risultanze dibattimentali, per le quali si richiama l'analitica esposizione di cui alla sentenza di primo grado.

Del resto, a ben vedere, neppure l'atto di appello ha precisamente contestato che ciò potesse essere realmente accaduto, essendosi le osservazioni difensive appuntate sul fatto che, secondo norma e prassi, le cose sarebbero dovute andare diversamente; in questa sede devesi però accertare quanto accaduto, non quanto sarebbe dovuto accadere.

- Anche le ulteriori argomentazioni di merito contenute nell'atto di appello sono infondate. L'appellante si è lagnata del fatto che non vi siano stati sufficienti approfondimenti istruttori riguardo a verifiche degli asseriti pagamenti in contanti, ai possibili rapporti di dare/avere tra l'imputata e la società, ad eventuali anticipi di denaro da parte della Pa., che poi ne sarebbe stata rimborsata. Quanto al primo aspetto sono i testimoni che concordemente ed in maniera credibile hanno denegato di aver mai ricevuto quei pagamenti in contanti che la Pa. aveva (pacificamente) asserito e/o contabilizzato. Dunque in difetto di una qualsiasi diverso riscontro, testimoniale o documentale, vi è prova dell'utilizzo da parte dell'imputata del relativo contante per fini personali o comunque difformi da quelli dovuti. In ogni caso l'eventuale mancato tempismo dei creditori nell'avanzare le loro pretese, non esclude di per sé la veridicità dei mancati pagamenti da loro riferiti e dei conseguenti ammanchi ad opera della Pa..

Quanto al secondo aspetto, trattasi di un mero spunto difensivo del tutto ipotetico, che neppure è ben specificato nell'atto di appello, posto che neanche la stessa Pa. ha prospettato (tanto meno provato) sue precise ragioni creditorie in base alle quali sarebbero da ritenersi legittimi i numerosi ammanchi alle finanze societarie da lei causati, peraltro con modalità fraudolente e nascoste. Ciò si osserva anche riguardo ad 'anticipi' di denaro che la Pa. avrebbe forse fatto, laddove neanche l'imputata medesima lo ha mai affermato e, soprattutto, non ne ha dato minima prova. Sulla base di mere ipotesi, neanche convintamente formulate, non può certo imbastirsi una linea difensiva atta a ribaltare le risultanze processuali, di chiaro segno accusatorio.

- Neanche il richiamo, invero assai generico, fatto nell'atto di appello alle testimonianze di Pa., Tr. e Ro. vale a disarticolare la pronuncia di condanna.

Nessuno di tali testimoni ha infatti riferito di precise circostanze di fatto tali da contraddire recisamente l'ipotesi accusatoria o da escludere che l'imputata potesse aver operato fraudolentemente a suo vantaggio, a loro totale insaputa, ovviamente.

- Confermata allora la sussistenza dell'elemento oggettivo dei reati, ne risulta provata anche la sussistenza di quello soggettivo.

Richiamato quanto sopra osservato riguardo ai profili di verosimiglianza del fatto che la Pa., semplice segretaria, potesse aver perpetrato le contestate condotte illecite, ugualmente inconferente - si ribadisce - è il fatto che i creditori della società non fossero insorti nei 60/90 giorni dalla scadenza dei pagamenti loro dovuti. Il loro mancato tempismo non esclude infatti la veridicità degli ammanchi, di cui i creditori stessi hanno precisamente riferito e/o testimoniato per quanto li concerneva. A fronte di tali numerose condotte illecite riconducibili all'imputata, dall'evidente finalità del proprio arricchimento, neppure è dato ben comprendere come se ne possa sostenere la "involontarietà". Non meglio comprensibile, e soprattutto fondata, è la tesi difensiva secondo cui l'eventuale (in verità certa, per quanto sin qui detto) condotta illecita della Pa. potrebbe essere stata una "manifestazione di errore", piuttosto che frutto di un atteggiamento intenzionale. A fronte di condotte reiterate per anni, che hanno causato ammanchi di tale portata, anche mediante una apprensione diretta dei contanti da parte dell'imputata, non si comprende come dette condotte possano essere state frutto di un mero errore, peraltro per nulla provato, ma neppure precisamente spiegato nella sua ipotetica, possibile dinamica.

- Con terzo ed ultimo motivo nel merito l'appellante disquisiva del principio secondo cui può pervenirsi a pronuncia di condanna soltanto in difetto di ogni ragionevole dubbio in contrario.

Va in proposito ribadito che alla luce di tutto quanto sopra argomentato vi è a carico dell'imputata un solido quadro probatorio, non inficiato da reali dubbi ragionevoli.

Devono al riguardo pure considerarsi - ad ulteriore supporto dell'ipotesi accusatoria - le testimonianze secondo le quali l'imputata aveva all'epoca riconosciuto, senza riserve, le proprie responsabilità nei confronti degli organi della società e poi, coerentemente, ne aveva fatto seguire trattative, all'esito delle quali aveva pure assunto precisi obblighi risarcitori, seppure poi da lei per gran parte disattesi. Sostenere a fronte di tale contesto probatorio l'esistenza di un ragionevole dubbio, non costituisce altro che l'estremo inutile tentativo di ribaltare le assai solide risultanze processuali.

- È pure infondato l'ultimo motivo d'appello, con cui si è reiterata l'eccezione di nullità della citazione a giudizio relativamente al secondo capo di imputazione, asseritamente estremamente generico.

La contestazione del reato sub capo II) è invece molto, o almeno sufficientemente, circostanziata. Essa indica addirittura le singole poste delle quali è contestata l'appropriazione con riferimento ai pagamenti solo apparentemente effettuati in favore di ciascun fornitore, pure indicato. Ogni ulteriore indicazione sarebbe stata ultronea, comunque la formulazione del capo di imputazione consentendo un pieno contraddittorio al riguardo, nel pieno rispetto di tutte le facoltà difensive.

- Venendo ora alle doglianze relative al trattamento sanzionatorio, si osserva in primo luogo che non sussistono validi motivi per concedere le richieste attenuanti generiche a soggetto neppure

Quanto alle trattative transattive intercorse tra le parti, ed al conseguente solo parziale pagamento risarcitorio da parte della Pa., si osserva che a prescindere dall'esistenza, o meno, di uno spirito dilatorio in capo all'imputata, quel che rileva è che lei le ha sempre asseritamente condotte (come espressamente affermato nell'atto di appello) "senza riconoscere la incolpazione, ma esclusivamente allo scopo dì giungere ad una remissione di querela".

Risulta dunque che l'imputata a tutt'oggi non ha dato ancora il minimo segno di resipiscenza in ordine a tali numerose e gravi sue condotte illecite.

La Pa. non appare dunque meritevole delle richieste attenuanti.

Nel caso di specie certamente sussiste la pluralità dei reati, ognuno dei quali riferito alla singola condotta appropriativa posta in essere dall'imputata in un arco di tempo ultrannuale. Correttamente, dunque, si è contestata e ritenuta la sussistenza di più reati di appropriazione indebita, uniti dal vincolo della continuazione.

Merita invece accoglimento la sola censura d'appello relativa alla dosimetria della pena. Tenendo conto dei parametri precisti dall'art. 133 c.p., si stima equo muovere dalla più contenuta pena base di 6 mesi di reclusione e 200 Euro di multa, da aumentare di 3 mesi e 100 Euro per la recidiva reiterata, di ulteriori 3 mesi e 100 Euro complessivi per le due aggravanti contestate (1 mese e 50 Euro per ciascuna), ed infine aumentata di complessivi 1 anno e 600 Euro per la continuazione degli altri 24 episodi di appropriazione indebita (15 giorni e 25 Euro per ciascuno), per la pena finale di 2 anni e 1.000 Euro di multa.

Andrà poi revocata la pena accessoria già disposta, stante la misura della pena inflitta.

Da ultimo devono essere confermate le statuizioni civili (esenti peraltro da motivate censure d'appello), richiamate al riguardo le motivazioni di primo grado.

L'appellante va pure condannata alla refusione delle spese di difesa in favore della costituita parte civile, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte di Appello di Perugia Visto l'art. 605 c.p.p.,

in parziale riforma della sentenza emessa in data 7/3/2022 dal Tribunale di Terni nei confronti di Pa.An. e dalla stessa appellata, riduce la pena all'appellante ad anni 2 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa.

Revoca la pena accessoria dell'interdizione dai Pubblici Uffici per anni 5.

CONFERMA

nel resto l'appellata sentenza.

CONDANNA

l'appellante al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in Euro 473,00 oltre accessori di legge, IVA e CPA, come da richiesta.

Termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.

Così deciso in Perugia il 5 marzo 2024.

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2024.

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