RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Assise di Appello di Ancona riformava parzialmente la sentenza del giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Pesaro, emessa in data 15/04/2012, con cui il ricorrente era stato riconosciuto colpevole e condannato a pena di giustizia per il reato di cui all'art. 593 c.p., comma 3, -
così qualificata l'originaria imputazione di cui agli artt. 575 e 577 cod. pen., perchè, essendosi venuta a trovare la moglie A. R. in gravissime condizioni di salute, sin dalla mattina del giorni stesso della morte, ed avendo consapevolezza di dette condizioni, ometteva di chiedere immediatamente soccorso o di soccorrere personalmente la moglie, pur avendone l'obbligo giuridico, ed altresì impediva che altri la soccorressero, ponendola in condizione oggettiva di isolamento, così cagionando, con la protrazione della malattia insorta e poi dell'agonia, un aggravamento delle condizioni di salute irreversibile e tali da condurre alla morte della donna, di cui simulava una causa diversa da quella reale.
Con l'aggravante di aver agito ai danni della coniuge. In (OMISSIS), il (OMISSIS) - escludendo l'aggravante di cui all'art. 593 cod. pen., comma 3, con rideterminazione della pena nella misura di mesi quattro di reclusione.
2. Con ricorso depositato il 08/04/2014, il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Ancona, ricorre per violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione agli artt. 40, 41, 42, 43, 575, 577 e 593 cod. pen., in quanto la sentenza, pur non dubitando della simulazione del F. in ordine alla causa della morte della moglie - simulazione rafforzata da molteplici elementi, quali la mancata spiegazione del F. in ordine alla messa in scena da lui allestita e le numerose menzogne riferite in merito alla vicenda, come dimostrato dagli accertamenti svolti - avrebbe del tutto omesso di considerare e di valutare la specifica portata probatoria della versione fornita dall'imputato, pur riconosciuta non veritiera alla luce delle risultanze dell'esame autoptico, che aveva rilevato l'assenza di gas nel sangue della deceduta; al contrario, la Corte territoriale, in maniera del tutto frettolosa, avrebbe aderito ad una soluzione in stridente contrasto con le risultanze probatorie, e segnatamente con gli esiti della consulenza medico - legale disposta dal pubblico ministero in ordine alle cause del decesso, ritenendo incerta la causa della morte, e concludendo per una morte determinata da una causa naturale, consistita in un arresto cardiaco improvviso, con conseguente interruzione del nesso di causalità, il che avrebbe impedito di configurare tanto l'omicidio volontario che l'omicidio colposo, come ritenuto già dal primo giudice. Viceversa, il F. ben sapeva che il decesso era stato determinato dal suo prolungato e deliberato comportamento omissivo, con la conseguente necessità di ordire una vera e propria simulazione in ordine alla causa del decesso della moglie. La Corte, inoltre, avrebbe travisato l'esito della prova tecnica, individuando la causa della morte in una crisi cardiaca acuta, provocata da un fenomeno non individuato neanche dai consulenti del pubblico ministero, i quali avevano chiarito come fosse stata accertata una pancreatite acuta emorragica, individuando quindi la causa del decesso in un disturbo del ritmo e/o della conduzione cardiaca secondario a pancreatite acuta necrotizzante, determinante una morte improvvisa. Pertanto del tutto confliggente con dette conclusioni peritali e del tutto sfornita di adeguata motivazione appare l'affermazione della sentenza che ha rilevato come le cause del decesso fossero incerte, in quanto neanche i consulenti del pubblico ministero erano riusciti ad individuare, secondo la Corte territoriale, il fenomeno che aveva determinato la crisi cardiaca, ciò in aperto contrasto con i molteplici ed incontrovertibili passaggi dell'elaborato peritale e delle dichiarazioni rese dai periti. Quanto detto risulterebbe ulteriormente in contrasto con la motivazione della sentenza nella parte in cui viene affermato che sin dalla mattina il F. fosse a conoscenza della condizione di sofferenza della moglie, poi aggravatesi nel pomeriggio al punto tale da impedirle di chiedere soccorso autonomamente, il che avrebbe reso necessario l'intervento del F., rientrato a casa alle ore 18,15, laddove il decesso della A. risulta intervenuto in orario compreso tra le 19,30 e le 21,00; il F., pertanto, sarebbe stato presente ai conati di vomito subiti dalla A. e dimostrati dalle risultanze dell'esame esterno del cadavere; d'altra parte la sentenza non dà alcun credito alla pancreatite silente quale causa della morte, censurando la condotta del F., rimasto del tutto passivo, senza aver assunto alcuna iniziativa durante le sofferenze della moglie, alle quali egli aveva assistito. In entrambi i giudizi di merito il comportamento omissivo del F. è stato qualificato come condotta dolosa, inquadrabile solo nella fattispecie di cui all'art. 593 cod. pen., senza valutare affatto il nesso di causalità tra detta condotta omissiva e la morte, ciò proprio in quanto l'arresto cardiaco, ritenuto dalla Corte territoriale un evento imprevedibile e naturale, avrebbe interrotto un eventuale nesso di causalità tra la condotta omissiva e la morte, con ciò rendendo irrilevante il fine eventualmente perseguito attraverso la condotta omissiva. In altre parole la sentenza, pur considerandoli, non ha posto in collegamento tra loro alcuni dati di fatto: la causa della morte, individuata in un arresto cardiaco conseguente a pancreatite acuta; l'ora della morte, accertata intorno alle 19,30, circa un'ora dopo il rientro a casa del F.; i sintomi della malattia, vomito e dolori violenti, di cui il F. era stato testimone; l'assenza di gas nel sangue della vittima, con evidente messa in scena, da parte del F., per simulare una diversa causa del decesso; la telefonata intercorsa tra il F. e la figlia, in cui questi alle ore 12,13 aveva riferito che la madre non era in grado di preparare il pranzo e le aveva detto di non recarsi a casa, il che dimostra che la crisi della A. fosse già in atto, come depone altresì il fatto che ella non avesse risposto alla chiamata della consuocera sul cellulare alle ore 12,14, e che, quindi, la crisi si fosse protratta per alcune ore, sino a raggiungere la fase acuta, secondo tempi compatibili con quanto affermato dal perito, e scatenare la crisi cardiaca letale intorno alle ore 19,30; la condizione di isolamento totale della donna in questo fase, predisposta dal F. allo scopo di evitare qualsiasi intervento in favore della moglie, come dimostrato dall'invito alla figlia a non recarsi a casa a pranzo alle ore 12,13, dal danneggiamento del cellulare della A., incompatibile con una caduta accidentale, e dalla mancata risposta da parte del F. ad una telefonata di un amico, giunta alle ore 18,30, con il fine palese di accreditare la versione del suo svenimento a seguito di inalazione da gas. Nonostante la presenza di detti elementi, la Corte di merito avrebbe omesso di concatenarli tra loro, sbrigativamente escludendo la consapevolezza da parte del F. della gravità delle condizioni della moglie a seguito di travisamento del giudizio dei periti, unica possibilità per ritenere interrotto il nesso di causalità; viceversa l'accertata e prolungata pancreatite acuta, da cui era scaturita l'ingravescenza della malattia e l'insorgenza della complicanza cardiaca, ed a cui il F. aveva assistito silente per circa un'ora - considerato che dette dirompenti manifestazioni non potevano che far prevedere il peggio anche ad un soggetto non tecnico, ma fornito di senso e conoscenza del tutto comuni - costituiscono circostanze dirimenti;
nè la sentenza ha considerato che il F. era rimasto inerte anche a fronte dell'intervenuto arresto cardiaco della moglie, omettendo di chiamare un'ambulanza, il cui intervento avrebbe potuto evitare il decesso, con evidente protrazione dell'iniziale omissione di soccorso sino all'evento morte, voluto o quanto meno ampiamente previsto e prevedibile, con palese sussistenza del dolo volontario integrante l'elemento soggettivo della condotta omissiva riferibile alla posizione di garanzia collegata la rapporto di coniugio come previsto dall'art. 140 cod. civ.; detto dolo sarebbe dimostrato dalla totale impossibilità di spiegare altrimenti la messa in scena del F. successivamente al decesso dalla moglie, essendo inverosimile una tale messa in scena per coprire una mera negligenza, a fronte, tra l'altro, di comprovati dissidi tra i coniugi, come ammesso dallo stesso F.. Inoltre, si rappresenta come la formazione del giudicato interno circa il carattere doloso della condotta, escluda la configurabilità dell'ipotesi di cui all'art. 589 cod. pen., laddove, in ogni caso, l'ipotesi di cui all'art. 593 cod. pen. avrebbe dovuto essere ritenuta aggravata ai sensi del comma 3, trattandosi di ipotesi dolosa e di evento morte conseguente all'omissione; certamente, si osserva, detto evento non deve essere voluto o previsto, altrimenti si ricadrebbe nell'ipotesi di omicidio volontario, essendo sufficiente che l'omissione sia posta in essere da chi è consapevole della situazione di pericolo in cui versa la persona che si ha l'obbligo di soccorrere, come nel caso di specie.
3. In data 07/01/2016 la difesa del F. ha fatto pervenire memoria, con cui contesta le doglianze del P.G., rilevando come la motivazione della sentenza impugnata non sia affatto carente, avendo il giudice d'appello dato ampiamente conto del motivo per il quali il F. avesse inscenato la messa in scena della fuga di gas, costituito dal senso di colpa per non essersi reso conto della gravità della situazione di salute della moglie, così come è stata valutata anche la versione fornita dal F., per cui ciò che il P.G. chiede sarebbe solo una diversa valutazione dei fatti, con conseguente inammissibilità del ricorso. Si contesta, inoltre, che si sia verificato un travisamento della prova tecnica, in quanto sia il consulente del pubblico ministero che il perito del giudice, sentiti a chiarimenti, avevano affermato di aver formulato solo delle ipotesi, in quanto gli esami di laboratorio e gli accertamenti autoptici avevano evidenziato solo una profusa emorragia pancreatica che, comunque, non era stata la causa della morte; quest'ultima era stata infatti determinata da un evento cardiaco acuto ed improvviso, forse innescato dalla pancreatite acuta, già di per sè difficilmente diagnosticabile. In terzo luogo priva di fondamento apparirebbe la motivazione del P.G. in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 593 cod. pen., comma 3, proprio perchè la morte era stata determinata da un evento fortuito ed imprevisto. Si aggiunge, infine, che l'appello (così impropriamente qualificato dalla difesa il ricorso) del P.G. deve ritenersi infondato, in quanto basato su di un'erronea interpretazione della legge penale in ordine all'individuazione della posizione di garanzia, richiamandosi in tal senso i principi sanciti dalla giurisprudenza di questa Coorte in materia di causalità omissiva e prova della stessa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
1. Come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, in data (OMISSIS) F.G. chiedeva telefonicamente l'intervento dei Carabinieri presso la propria abitazione, segnalando di aver constatato il decesso della moglie; dichiarava di essere rientrato a casa e di aver avvertito una forte presenza di gas, svenendo subito dopo. I Carabinieri, i Vigili del Fuoco ed il personale medico intervenuti, rilevavano la presenza di un forte odore di gas nell'abitazione, notavano la presenza di una pentola con acqua sul fornello, contenente altresì delle carote, alcune delle quali erano fuoriuscite dalla pentola, verificando che la valvola del gas ed i rubinetti del gas in cucina erano chiusi, e constatavano il decesso dell' A.R., che veniva rinvenuta sul letto, accanto al quale si trovava un telefono cellulare con il display danneggiato e la batteria ed il copribatteria fuoriusciti dalla sede propria; non presentavano segni da intossicazione da gas gli animali domestici presenti nell'abitazione, un cane di piccole dimensioni e due pappagallini in gabbia. Il F. riferiva che, come tutti i giorni, era rincasato a casa verso le ore 12,00 per il pranzo, e la moglie lo aveva informato di non aver preparato nulla in quanto non sentiva bene, per cui egli aveva avvisato telefonicamente la figlia di non recarsi a casa a pranzo insieme alla nipotina a causa delle condizioni della madre; quindi era tornato al lavoro e, rientrato a casa verso le ore 18,15, aveva avvertito un forte odore di gas, perdendo i sensi subito dopo, e riprendendosi solo verso le 20,40, avendo sentito il cane che abbaiava; si era quindi affrettato ad aprire la finestra ed a spegnere una valvola del gas che era aperta in cucina, quindi si era reso conto del decesso della moglie; il F. era poi stato ricoverato e sottoposto ad accertamenti che rivelavano la sua prolungata esposizione al gas.
Nel corso dell'udienza preliminare venivano esaminati i consulenti tecnici del pubblico ministero e venivano acquisite ulteriori documentazioni, ed all'esito il giudice per l'udienza preliminare definiva il processo ai sensi dell'art. 438 cod. proc. pen., ritenendo il F.G. colpevole del delitto di cui all'art. 593 c.p., comma 3, così qualificata l'originaria imputazione ai sensi degli artt. 575 e 577 cod. pen..
Il primo giudice riteneva l'imputato colpevole ritenendo, sulla scorta di una serie di dati tecnici emersi dalle consulenze svolte, che il F. avesse organizzato una vera e propria messa in scena, simulando la perdita accidentale di gas, vicenda che era stata smentita dagli accertamenti tecnici svolti e di una serie di incongruenze nella ricostruzione dei fatti, analiticamente riportate in sentenza e condivise dalla Corte di merito.
In entrambi i gradi di merito, quindi, si riteneva che il F. avesse volontariamente posto in essere la fuoriuscita del gas dopo il decesso della moglie, staccando il tubo di gomma posto sotto la cucina e poi rimettendolo a posto. Parallelamente la Corte sottolineava come non fosse stato possibile chiarire la causa del decesso della A.R., genericamente ricondotta ad una crisi cardiaca, solo ipoteticamente ricollegabile ad una pancreatite documentata sul piano istologico; i consulenti tecnici del pubblico ministero avevano affermato quindi che la morte era stata determinata da una crisi cardiaca la cui causa immediata non era però stata accertata e, come tale, avrebbe potuto essere anche improvvisa.
Alla luce di dette dichiarazioni, riportate in sentenza per stralci, la Corte territoriale ha ritenuto che l'impossibilità di stabilire una causa della morte diversa da quella naturale della crisi cardiaca rendeva impossibile ricondurre alla persona del F.G. la morte della moglie nei termini dolosi di cui alla originaria contestazione, ed altresì a titolo colposo, posto che, come ritenuto anche dal primo giudice, l'interruzione del nesso di causalità impediva la configurabilità tanto dell'omicidio volontario quanto dell'omicidio colposo. La Corte ha quindi ritenuto che la condizione di sofferenza dell' A. era sicuramente nota al F. sin dalla mattina, allorquando egli era rientrato a casa ed aveva avvisato la figlia di non recarsi a pranzo perchè la madre non si sentiva bene, e gli era certamente noto anche l'aggravamento di dette condizioni, con vomito e dolori che avevano impedito alla donna di chiedere aiuto anche per essere inservibile il suo cellulare, per cui tutto ciò avrebbe dovuto provocare l'intervento dell'imputato, che era rientrato a casa verso le 18,15; tuttavia, non conoscendosi la causa ultima del decesso, non appariva possibile stabilire se ed in che misura esso avrebbe potuto essere scongiurato, con la conseguente impossibilità di inquadrare la condotta del F. nell'ipotesi di cui all'art. 593 cod. pen., comma 3; la Corte, pertanto, riteneva il F.G. responsabile ai sensi dell'art. 593 c.p., comma 1.
2. Una prima palese incongruenza in cui è incorsa la Corte territoriale, evidentemente tradottasi in violazione di legge, riguarda la qualificazione giuridica della condotta e l'individuazione della fattispecie penalmente rilevante nell'ambito della quale sussumerla.
La Corte territoriale ha inquadrato la condotta del F. nel delitto di omissione di soccorso di cui all'art. 593 c.p., comma 1, partendo dall'assunto che la causa del decesso della A. R. sarebbe rimasta incerta; in particolare è stato affermato che, non essendo stato possibile individuare la causa specifica della crisi cardiaca acuta che aveva determinato il decesso della persona offesa e, quindi, non essendo possibile ricondurre la stessa alla condotta colpevole dell'imputato, ovvero ad un fattore esterno, appare impossibile ricondurre alla persona del F. la morte della moglie nei termini dolosi di cui all'originaria contestazione, non potendosi neanche configurare una fattispecie di omicidio colposo, alla luce della accertata interruzione del nesso di causalità (pag. 25 della sentenza). Pertanto - preso atto che al F. era certamente nota la condizione di sofferenza della moglie sin dalla mattina, quando aveva avvisato la figlia di non recarsi a pranzo a casa della madre, poichè la stessa non stava bene, nonchè il peggioramento intervenuto nel pomeriggio, con vomito e dolori che avevano impedito alla donna di chiedere aiuto, essendo il cellulare della stessa inservibile - la circostanza che l'imputato, rientrato in casa alle ore 18,15 circa, avesse omesso di prestare qualsivoglia forma di aiuto e soccorso alla moglie, il cui decesso era intervenuto tra le ore 18,15 e le ore 21,00, non costituisce ragione sufficiente per attribuirgli ex art. 593 c.p., comma 3, la responsabilità dell'evento morte, come affermato dal primo giudice, proprio alla luce del fatto che non era stato possibile accertare la causa ultima del decesso; il F., quindi, si era trovato, secondo la Corte di merito, nella condizione di chi si imbatte in una persona incapace di provvedere a se stessa per causa di malattia e, pur riconoscendo tale situazione, omette di prestarle soccorso, non avvisando l'Autorità.
Tanto premesso va ricordato che il delitto di omissione di soccorso è qualificato in dottrina come reato di pericolo presunto, e la fattispecie di cui all'art. 593 cod. pen., comma 3, viene inquadrata come ipotesi autonoma di delitto aggravato dall'evento, pur sussistendo opinioni che considerano detta fattispecie non come autonoma ma come circostanziata rispetto alla fattispecie base.
A prescindere dall'inquadramento della previsione dell'art. 593 c.p., comma 3, nella categoria di delitto autonomo ovvero di circostanzia aggravante, ciò che in tale sede rileva è la valutazione della corretta riconducibilità della condotta del F.G. al parametro normativo di cui all'art. 593 cod. pen., prima ancora, quindi, di valutare se ricorresse il caso contemplato dal comma 1 ovvero quello contemplato dal comma 3 della citata norma.
In tema di omissione di soccorso la giurisprudenza di legittimità e la dottrina hanno sempre considerato il termine "trovare", utilizzato dalla norma, nel senso di ritrovare, imbattersi, venire in presenza di, sottolineando, cioè, l'occasionalità della situazione contemplata dal legislatore, ed affermando che ciò che rileva è la sussistenza di un contatto diretto con l'oggetto del ritrovamento, a prescindere dalla distanza dallo stesso, purchè essa sia tale da consentire di percepire il pericolo della persona da soccorrere, essendo parimenti irrilevante la presenza dell'agente sul luogo prima dell'insorgenza del pericolo, in quanto vanno compresi tra i soggetti attivi anche coloro che si siano trovati presenti prima che si verificasse l'evento, oppure che abbiano assistito al fatto (Sez. 5, sentenza n. 6339 del 31/01/1978, Rv. 139066; Sez. 5, sentenza n. 3894 del 21/11/1974, Rv. 129683; Sez. 5, sentenza n. 4003 del 14/12/1977, Rv. 138535; Sez. 5, sentenza n. 20480 del 15/03/2002, Rv. 221916).
La rilevata occasionalità caratterizzante la situazione di pericolo deve poi essere messa in correlazione con il fatto che chiunque può essere soggetto attivo del reato, indipendentemente da rapporti specifici con il soggetto che si trovi in pericolo, ciò per l'indistinto e generale dovere di solidarietà umana tutelato dalla norma e correlato all'interesse dello Stato alla sicurezza della persona in relazione ai beni fondamentali della vita, dell'incolumità fisica e morale; detto interesse, nella prospettiva della norma di cui all'art. 593 cod. pen., riguarda in particolare la salvezza di persone che si trovano in stato di presunto o di accertato pericolo, sanzionando l'omissione di assistenza privata, diretta o indiretta, in violazione dell'obbligo generale, comune a tutti, indipendentemente da ogni altra fonte normativa e per il solo fatto di trovarsi nelle contingenze indicate dalla norma.
Evidentemente la violazione di un dovere speciale di assistenza che incombe su determinate persone o categorie di persone, sanzionato penalmente, determina, ai sensi dell'art. 15 cod. pen., l'applicazione della norma specifica e non di quella di cui all'art. 593 cod. pen..
Intuitivamente, quindi, la Corte di merito avrebbe dovuto porsi il problema della sussistenza, nel caso in esame, della ricorrenza dell'art. 591 cod. pen., che tutela il valore etico - sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo, ma il cui soggetto attivo può essere solo chi si trovi con il soggetto passivo in uno dei rapporti personali individuati dallo stesso art. 591 cod. pen..
Ed infatti la giurisprudenza di questa Corte ha più volte sottolineato come l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 591 cod. pen., è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l'incolumità del soggetto passivo, sicchè ne risponde colui che, pur non allontanandosi dal soggetto passivo, ometta di far intervenire persone idonee ad evitare il pericolo stesso (Sez. 1, sentenza n. 35814 del 30/04/2015, Rv.
264566; Sez. 2, sentenza n. 10994 del 06/12/2012, Rv. 255172; Sez. 1, sentenza n. 5945 del 15/01/2009, Rv. 243372; Sez. 5, sentenza n. 15245 del 23/02/2005, Rv. 232158).
L'oggettività giuridica del delitto di cui all'art. 591 cod. pen., infatti, consiste proprio nella violazione di un dovere di custodia o di cura, ossia di un dovere di assistenza e - ciò che rileva in particolare ai fini del caso in esame - la norma prevede, all'u.c., una circostanza aggravante costituita dall'essere il fatto commesso dal genitore, da figlio, da tutore, dal coniuge, dall'adottante o dall'adottato.
Va inoltre ricordato come questa Corte abbia da tempo chiarito (Sez. 5, sentenza n. 290 del 30/11/1993, Rv. 196779) che nessun limite si pone nella individuazione delle fonti da cui derivano gli obblighi di custodia e di assistenza che realizzano la protezione del bene fondamentale costituito dalla sicurezza della persona fisica, e che si desumono dalle norme giuridiche di qualsivoglia natura, da convenzioni di natura pubblica o privata, da regolamenti o legittimi ordini di servizio, rivolti alla tutela della persona umana, in ogni condizione ed in ogni segmento del percorso che va dalla nascita alla morte.
Ad ogni situazione che esige detta protezione fa riscontro, quindi, uno stato di pericolo che esige un pieno attivarsi, sicchè ogni inerzia si traduce in abbandono penalmente rilevante e l'interesse protetto risulta violato quando la derelizione sia anche solo relativa o parziale.
Non vi è dubbio che, nel caso in esame, come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, la Corte territoriale avesse riconosciuto che, per una condizione patologica determinata da malattia, la A.R. si fosse trovata in una condizione da non potere provvedere a sè stessa, ed altrettanto indubbia è la circostanza che il dovere di cura, nel caso in esame, risultava imposto dalle norme civilistiche che regolano i rapporti di famiglia, con particolare riferimento a quelle relative ai doveri reciproci di assistenza dei coniugi di cui all'art. 143 cod. civ..
Ne deriva un evidente non corretto inquadramento della condotta del F.G., che la Corte territoriale dovrà, a seguito dell'annullamento della sentenza impugnata, riesaminare alla luce dei principi di diritto sin qui illustrati.
3. Anche sotto un ulteriore profilo, tuttavia, la sentenza impugnata deve essere annullata.
Un profilo fortemente critico della motivazione è costituito dalla ricostruzione della impossibilità di accertare la causa della morte della A., il che, secondo la Corte territoriale, si sarebbe tradotto in una interruzione del nesso di causalità, laddove appare pienamente accertato che la causa della morte fosse da individuare in un arresto cardiaco, come riconosciuto dalla Corte medesima, la quale tuttavia, in una confusa ricostruzione del nesso di causalità, ha sovrapposto il profilo della causa clinica del decesso con quello della ricostruzione del nesso di condizionamento tra condotta omissiva ed evento.
Come noto, nei reati omissivi detto accertamento assume un valore prognostico, in quanto si tratta di valutare se il compimento dell'azione doverosa avrebbe modificato il corso degli avvenimenti e se essa avrebbe impedito la realizzazione dell'evento lesivo, il che, sotto un profilo logico ed epistemologico, non implica nè la spiegazione di un avvenimento passato nè la previsione di un accadimento futuro, costituendo, invece, un condizionale controfattuale, ossia un enunciato ipotetico in quanto tanto l'antecedente quanto il conseguente sono, per definizione, falsi;
ciò perchè l'azione doverosa non si è compiuta e l'evento lesivo si è realizzato.
Secondo la tradizionale impostazione della dottrina detto accertamento dovrebbe essere effettuato secondo la formula della condicio sine qua non, in base alla quale la verificazione dell'azione omessa avrebbe impedito la verificazione dell'evento con una probabilità confinante con la certezza. Tuttavia detta formula, secondo un successivo sviluppo della dottrina, ha senso solo se essa costituisce il punto di arrivo di un ragionamento che consenta di spiegare l'evento collegandolo ad un insieme di antecedenti, con l'aiuto di una legge che asserisce una regolarità nella successione di eventi di un certo tipo. Ne risulta quindi confermata la necessità del ricorso al modello della sussunzione sotto leggi anche per l'accertamento del nesso di condizionamento tra condotta omissiva ed evento. Ciò che tuttavia va sottolineato è che quando si devono valutare comportamenti umani non sempre vengono in rilievo leggi scientifiche ma, più comunemente, generalizzazioni statistiche o probabilistiche, ciò senza contare che neanche le leggi scientifiche enunciano una regolarità senza eccezioni. Da ciò scaturisce l'evidente struttura probabilistica della spiegazione causale penalmente rilevante, ossia che l'evento può essere imputato all'agente solo se la sussistenza del nesso di condizionamento soddisfa il requisito di credibilità, il che implica come, in base ad una legge scientifica o statistica, si sia accertato che, sulla base delle evidenze disponibili, risulti improbabile che l'evento si sia realizzato per l'intervento di processi causali ai quali fosse estraneo il comportamento dell'agente. Come questa Corte ha chiarito, "nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva" (Cass., Sez. Un., sentenza n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138; Sez. Un., sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261103).
Venendo al caso concreto, va innanzitutto rilevato come, secondo la giurisprudenza di questa corte la condotta di abbandono deve porsi come concausa, unitamente alla malattia, dell'evento morte (Sez. 1, sentenza n. 5945 del 15/01/2009, Rv. 243373). Sicchè non rileva accertare con precisione quale sia stata la causa patologica dell'arresto cardiaco cui seguì la morte della persona offesa, ma rileva accertare se con l'adempimento dei suoi obblighi l'imputato avrebbe evitato la morte della moglie.
La prospettiva in cui avrebbe dovuto porsi la Corte territoriale non era certamente quella di stabilire se la pancreatite fosse stata o meno la causa dell'arresto cardiaco della A.R., ma quello di verificare se l'adempimento del dovere di assistenza da parte del F.G. avrebbe impedito o ritardato la morte della predetta.
La Corte territoriale ha del tutto omesso di effettuare tale doverosa valutazione, limitandosi implicitamente a ritenere che il F. non poteva essere considerato responsabile della morte della moglie in quanto egli non avrebbe potuto prevederne la causa, atteso che neanche i medici legali erano stati in grado di accertarla; in tal modo ha del tutto confuso il ruolo di garanzia del F., il quale non era tenuto a verificare in base alla scienza ed esperienza medica quali fossero le cure da apprestare alla moglie, bensì, in qualità di coniuge obbligato all'assistenza e consapevole delle condizioni ingravescenti della moglie, era tenuto a soccorrerla attivandosi e richiedendo l'ausilio di terzi competenti ovvero trasportarla in ospedale, posto che in base a regole di esperienza facenti parte del patrimonio di solidarietà caratterizzante il rapporto tra coniugi, egli avrebbe dovuto prospettarsi la possibilità di un peggioramento delle condizioni della moglie fino alla morte della stessa, a prescindere da quale ne potesse essere la causa, atteso che il comportamento doveroso richiesto al F. non era quello di verificare la possibile causa del decesso, ma quello di soccorrere la moglie. Alla stregua di detto inquadramento la Corte avrebbe poi dovuto verificare la sussistenza dell'equivalente normativo della causalità, secondo i parametri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
Qualora fosse stato accertato il collegamento tra l'evento e l'omissione, nel senso che esso non si sarebbe verificato se l'agente titolare della posizione di garanzia avesse posto in essere la condotta a lui imposta dagli obblighi, nessun'altra indagine la Corte di merito avrebbe dovuto compiere in relazione a detto profilo. Ed infatti nella fattispecie omissiva dolosa se il garante rimane inattivo, pur rappresentandosi tutti gli elementi della fattispecie di garanzia, non potranno sussistere dubbi in ordine all'affermazione di responsabilità in presenza del nesso di condizionamento tra il mancato compimento dell'azione doverosa e l'evento.
3. Del tutto non conforme al dettato normativo in materia di rapporto di causalità, appare poi la motivazione della sentenza impugnata che, sotto detto aspetto, integra una violazione di legge.
La giurisprudenza di questa Corte ha sancito, con reiterate pronunce, dei chiari ed inequivocabili principi in materia di concorso di interruzione del rapporto di causalità.
Partendo da pronunce piuttosto risalenti ma estremamente chiare nella loro formulazione, vanno ricordate, ad esempio, Sez. 5, sentenza n. 5923 del 12/07/1989, Rv. 184131, secondo cui "In tema di rapporto di causalità, causa sopravvenuta sufficiente alla produzione dell'evento è quella del tutto indipendente dal fatto del reo, che si ponga al di fuori delle normali linee di sviluppo delle serie causale attribuibile alla condotta dell'agente, che costituisca cioè un fattore eccezionale tale che, malgrado il più alto grado di previdenza e prudenza, non sia possibile predisporre alcuna misura per evitarlo. Viceversa, non è tale la causa sopravvenuta quando sia legata alla causa preesistente, si trovi cioè in una situazione di interdipendenza per cui, mancando l'una, l'altra rimarrebbe inefficace, nessuna di esse potendo, disgiunta dall'altra, realizzare l'evento. Non integrano pertanto cause sopravvenute escludenti il rapporto di causalità, rispetto ad un fatto di lesione volontariamente prodotte dall'agente, le eventuali omissioni e colpe dei sanitari, gli errori diagnostici, le complicazioni operatorie e postoperatorie, così come lo stesso comportamento della vittima di rifiuto di cure e terapie."; negli stessi termini Sez. 4, sentenza n. 12048 del 12/07/1990, Rv. 185235, che aveva affermato "Le cause concorrenti sono tutte e ciascuna causa dell'evento stesso ed il nesso di causalità può essere escluso se si verifichi una causa o una serie causale autonoma, rispetto alla quale la precedente si ponga tamquam non esset e trovi, nell'attività dell'imputato, soltanto l'occasione per svilupparsi: cioè quando detta causa si trovi nella serie causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile, di guisa che la causa sufficiente alla produzione dell'evento sia quella del tutto indipendente dal fatto del reo, avulsa dalla sua condotta ed operante con assoluta autonomia, in modo da sfuggire al controllo e alla prevedibilità di lui. Non è tale la causa sopravvenuta quando sia legata a quella preesistente e con la quale si trovi in una situazione di interdipendenza per cui, mancando l'una, l'altra rimarrebbe inefficace, nessuna di esse potendo, disgiunta dall'altra, realizzare l'evento".
Non vi è dubbio, quindi, che ai fini della valutazione concernente l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento, il concetto di causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, ai sensi dell'art. 41 c.p., comma 2, non può che essere riferita al caso di un processo causale del tutto autonomo, anche se non completamente avulso dall'antecedente, ma comunque connotato da un percorso causale assolutamente atipico, evidenziatosi per connotati di anomalia ed eccezionalità, e, quindi, di imprevedibilità in relazione alla causa presupposta; si deve trattare, cioè, di una linea di sviluppo del processo causale del tutto inopinata, ossia imprevedibile in astratto ed imprevedibile per l'agente in concreto, a prescindere dalla tipologia di condotta, se attiva od omissiva (Sez. 4, sentenza n. 1214 del 26/10/2005, Rv. 233173; Sez. 4, sentenza n. 14302 del 07/02/2006, Rv. 234584; Sez. 4, sentenza n. 20272 del 16/05/2006, Rv. 234596; Sez. 4, sentenza n. 39617 del 11/07/2007, Rv. 237659; Sez.4, sentenza n. 13939 del 30/01/2008, Rv.
239593; Sez. 4, sentenza 43169 del 21/06/2013, Rv. 258085; Sez. 2, sentenza n. 17804 del 18/03/2015, Rv. 263581).
Alla stregua di detti criteri, quindi, appare necessario evidenziare come l'interruzione del nesso di causalità implichi, necessariamente ed evidentemente l'individuazione della causa della morte, per cui non si comprende come possa logicamente svilupparsi, alla stregua di una logica elementare di non contraddittorietà, il ragionamento della Corte territoriale che, partendo dall'affermazione che la causa della morte della A.R. non fosse nota, ha poi ritenuto essersi verificata l'interruzione del nesso di causalità.
Tuttavia, come emerge dalla stessa motivazione della sentenza impugnata, la causa del decesso è stata ravvisata in un arresto cardiaco, rispetto al quale la Corte avrebbe dovuto verificare se la condotta omissiva del F.G. potesse considerarsi causa concorrente, ossia se fosse in astratto prevedibile, ed in concreto prevedibile per l'imputato, che il lasciare priva di ogni forma di soccorso la moglie - che si trovava in condizioni di salute ingravescenti al punto tale da non essere in grado di provvedere da sola a richiedere aiuto, condizioni peraltro peggiorate in un breve arco temporale nel corso del quale il F. era stato presente potesse concorrere a produrne la morte. Ciò in base alla regola di esperienza - che non richiede necessariamente una specifica laurea in medicina - che un malore prolungato, qualunque ne sia la causa, se non affrontato tempestivamente, soprattutto allorquando le condizioni della persona con il passare del tempo registrano un evidente peggioramento, possa condurre alla morte che, come nessuno ignora, si determina sempre, qualunque ne sia la concausa antecedente, con un arresto cardiaco.
4. Ciò che, infine, avrebbe dovuto essere oggetto di ulteriore approfondimento - all'esito di una corretta ricostruzione della vicenda, una volta individuata l'eventuale sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento - sarebbe stato il profilo attinente l'elemento psicologico, che avrebbe definitivamente consentito di qualificare la fattispecie ai sensi dell'art. 591 cod. pen. - il cui elemento soggettivo è costituito dalla coscienza e volontà di abbandonare il soggetto che si trova in una delle condizioni delineate dalla norma, con la consapevolezza dei potenziali pericoli a cui resterebbe esposto, ponendosi l'evento aggravatore della morte in rapporto di concausa con la condizione patologica della persona offesa, che deve trovarsi, quale presupposto del reato, in una delle condizioni descritte dalla norma che la rendono non capace di provvedere a sè stessa - ovvero ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2 e art. 575 cod. pen. - in cui, invece, vi è la volontà e la consapevolezza dell'agente di cagionare la morte attraverso l'omessa prestazione di qualsivoglia forma di soccorso, oppure egli tale evento si rappresenta come probabile o possibile conseguenza del suo operare, accettando il rischio implicito del suo verificarsi.
Alla luce dei profili esaminati la sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio, ex art. 623 c.p.p., lett. c), alla Corte d'Assise di Appello di Perugia per nuovo esame sul capo della sentenza relativo alla qualificazione giuridica della fattispecie, previa rivisitazione del percorso argomentativo in riferimento al punto della sentenza concernente la sussistenza del rapporto di causalità, con adeguamento al criterio di cui in motivazione.
In caso di diffusione del presente provvedimento vanno omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto da questa Corte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Assise di Appello di Perugia per nuovo esame.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto dal giudice.
Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2016.
Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2016