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Omissione di soccorso: distinzione tra obbligo di intervento e mero obbligo di soccorso

Omissione di soccorso

Cassazione penale sez. V, 03/05/2021, n.27905

Nel reato di cui all'art. 593 c.p. il soggetto attivo "si imbatte" nell'oggetto del ritrovamento, mentre la sussistenza della posizione di garanzia postula l'esistenza di un obbligo di intervento, qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso, in capo a soggetti selezionati.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La sentenza di primo grado Con sentenza del 18 aprile 2018 la Corte di Assise di Roma ha affermato la responsabilità di C.A. per il delitto di omicidio volontario (commesso nella sua abitazione di (OMISSIS), nella tarda serata del (OMISSIS)) di V.M., fidanzato di sua figlia M.. 1.1. Secondo la contestazione, alle ore 23.15 C.A., simulando uno scherzo e ritenendo che la pistola Beretta semiautomatica calibro 9-380 (che aveva lasciato incustodita nella stanza da bagno) fosse priva di munizionamento, la puntò in direzione di V.M., mentre questi stava facendo la doccia, scarrellò e premette il grilletto. Esplose quindi un colpo che raggiunse la vittima al livello della faccia esterna del terzio medio del braccio destro, con tramite che attraversò il lobo superiore del polmone destro e poi il cuore. Nonostante l'avesse ferito, ritardò i soccorsi e fornì agli operatori del 118 e al personale paramedico informazioni false e fuorvianti, così cagionando, secondo l'ipotesi accusatoria e la decisione della Corte di Assise, accettatone il rischio, il decesso, che avvenne alle ore 3,00 del (OMISSIS), a causa di anemia acuta meta emorragica conseguente alle suddette lesioni. La Corte di Assise ha quindi condannato C.A. alla pena di anni quattordici di reclusione per il reato di omicidio e alla pena di mesi due di arresto ed Euro 300,00 di ammenda, riconosciutane la responsabilità anche per la contravvenzione di omessa custodia dell'arma. 1.2. La Corte di Assise ha affermato anche la responsabilità di F. e C.M. nonché di P.M., rispettivamente figli e moglie di C.A., per concorso colposo nell'omicidio di V.. Nell'imputazione ai suddetti imputati è contestato l'omicidio volontario "in concorso tra loro, perché ritardavano i soccorsi e fornivano agli operatori del 118 e al personale paramedico, informazioni false e fuorvianti, così cagionando, accettando il rischio, il decesso del V....". Tuttavia, la Corte di Assise di primo grado ha escluso che i fratelli C. e la P. fossero stati presenti al momento dell'esplosione del colpo di pistola e ha ritenuto che non fossero stati informati da C.A. dell'esatta causa del ferimento, ricondotto inizialmente a "un colpo d'aria, una bolla d'aria che si era formata nella pistola". Essi però, secondo la Corte di assise, omisero per un tempo apprezzabile di meglio verificare la causa del malessere di V.M., della cui ferita erano comunque consapevoli, avendo visto l'accappatoio e un asciugamano macchiati di sangue, avendo rinvenuto il bossolo esploso ed essendo stati spettatori del progressivo peggioramento delle condizioni di salute della vittima, che per il dolore si lamentava ad alta voce. Sono stati quindi condannati alla pena di anni tre di reclusione ciascuno. 1.3. Nei confronti di altra imputata, G.V., la fidanzata di C.F. che quella sera si era trovata nell'abitazione della famiglia C., la Corte di Assise ha pronunciato assoluzione dall'imputazione di omissione di soccorso aggravata dall'evento morte (art. 593 c.p., commi 2 e 3) per il dubbio sulla configurabilità del dolo, dato che restò ai margini della vicenda e, quindi, non era risultato con certezza che aveva percepito effettivamente e valutato il reale stato di pericolo in cui versava V.M.. 2. La sentenza di appello La Corte di Assise di appello, investita dell'impugnazione del Procuratore generale e degli imputati, con sentenza del 29 gennaio 2019, ha: - confermato la decisione di condanna di F. e C.M., nonché di P.M. per concorso colposo nell'omicidio di V.; - confermato, su richiesta del Procuratore generale appellante, la pronuncia di assoluzione di G.V.; - riformato la sentenza nei confronti di C.A., riqualificando l'imputazione in quella di omicidio colposo, con l'aggravante di aver previsto l'evento, condannandolo, previo giudizio di equivalenza con le attenuanti generiche già concesse in primo grado, alla pena di anni cinque di reclusione, ferma la condanna alle pene dell'arresto e dell'ammenda per la contravvenzione di omessa custodia dell'arma. 2.1. Prima di illustrare le ragioni della decisione, la Corte di Assise di appello ha riassunto alcuni dati di prova compiutamente illustrati nella sentenza di primo grado: - l'ispezione eseguita, subito dopo il decesso di V.M., nell'abitazione della famiglia C. condusse al rinvenimento di tracce di sangue all'ingresso, di uno strofinaccio e di un asciugamano sporchi di sangue, oltre che di un secondo asciugamano e di un accappatoio entrambi sporchi di sangue; - nel cassettone sottostante il letto della stanza di C.F. furono rinvenuti una scatola con cinquanta cartucce, due pistole (tra queste l'arma che sparò) e anche un bossolo; - dalle registrazioni delle chiamate telefoniche all'ARES 118 è emerso che una prima chiamata fu fatta da C.F. alle 23,41, nel corso della quale riferì all'operatrice che un ragazzo, per via di uno scherzo, si era sentito male, era troppo bianco e non respirava più. A un certo punto della comunicazione telefonica intervenne una donna, la madre di F., per dire che il ragazzo stava facendo il bagno, stava nella vasca. Poi, però, sollecitata dalla voce di un uomo, evidentemente C.A., che avvertiva che non v'era necessità dei soccorsi, non dava più seguito alla conversazione. Una seconda chiamata fu fatta alle ore 00,06 da C.A., che riferì che il ragazzo era caduto nella vasca e si era bucato un pochino con un pettine a punta e quindi si era messo paura. Contestualmente si avvertirono in lontananza le urla di un uomo che diceva "basta, ti prego, basta"; - l'ambulanza giunse presso l'abitazione della famiglia C. alle ore 00,22 circa (pag. 13 della sentenza di primo grado). All'infermiera, signora B., C.M. disse di non sapere cosa fosse successo. Fu C.A., alla presenza del figlio F., a dire che il ragazzo era "un po' svenuto", era "stato preso da un attacco di panico, una crisi di ansia", per poi precisare che "il ragazzo si stava facendo la doccia nella vasca, che si scherzava sul calcio, che poi era scivolato e si era ferito con un pettine a punta"; - successivamente C.M. dichiarò di essere uscita dal bagno quando il padre entrava, di non aver visto le pistole e di essere tornata in bagno appena sentito un gran rumore e di aver visto per terra una pistola. C.F. riferì di aver sentito un forte rumore verso le 23,15, di essersi recato in bagno e di aver visto che lì c'erano sorella e padre, oltre a M. seduto nella vasca da bagno. Disse di aver visto una pistola per terra, che il padre gli chiese di portar via; quindi lui la portò al piano terra, mettendo la sicura. Sia M. che F. dissero che in quel frangente il padre riferì loro che era stato un colpo d'aria. P.M. rese sul punto dichiarazioni convergenti; - dall'esame dei prelievi dei residui di polvere da sparo si riscontrò che particelle significative vi erano nelle narici di C.A. (dodici particelle), in numero ben superiore a quello (tre) che dimostra con certezza la presenza al momento dello sparo. Nelle narici di M. fu rinvenuta una sola particella e in quella di F. nessuna. Da qui la conclusione che al momento dello sparo non ci fosse M.. In senso contrario a tale conclusione milita il risultato di una intercettazione ambientale effettuata presso la Caserma dei Carabinieri (del (OMISSIS)), da cui si trae che M. descrisse al fratello la scena dello sparo come se vi avesse assistito: "io l'ho visto quando papà puntava la pistola... e papà gli ha detto: è uno scherzo". Secondo i giudici di merito, in quel frangente, pieno di emotività, la ragazza si limitò a ripetere quanto aveva appreso dal padre nei giorni successivi al fatto. 2.3. Tanto premesso, la Corte di Assise di appello ha in sostanza scartato l'ipotesi di qualificazione di tutte le condotte degli imputati secondo la norma incriminatrice dell'omissione di soccorso e del favoreggiamento, invece guardando alla previsione di cui all'art. 40 capoverso c.p. e fondando l'obbligo giuridico di impedire l'evento sul "principio generalissimo del neminem laedere"(pag.31 della prima sentenza di appello). 2.3.1. C.A. esplose colposamente, secondo lo stesso capo di imputazione, il colpo di pistola che raggiunse V.M.. Quindi ritardò i soccorsi e dette informazioni false e fuorvianti ai soccorritori infine intervenuti, per il prevalente intento di attenuare le prevedibili conseguenze dannose per il suo lavoro. Rivelò quanto realmente accaduto, ossia che V.M. era stato colpito da un colpo di pistola, soltanto al momento del ricovero al Posto di Primo Intervento di (OMISSIS), chiedendo al medico di turno di falsificare il referto e di non specificare la causa della lesione. Anche successivamente, in sede di interrogatorio dinnanzi al pubblico ministero, continuò a mentire, affermando che la pistola gli era scivolata e che il colpo era partito accidentalmente nell'atto della caduta dell'arma. Dichiarò il vero soltanto a fronte della contestazione dei contenuti delle intercettazioni ambientali fatte nei locali della Compagnia Carabinieri di Civitavecchia. C.A. agì con colpa e non con dolo (eventuale). Non è infatti sufficiente, per poter affermare la sussistenza del dolo, che si riscontri l'accettazione del rischio che l'evento si produca, occorrendo un quid pluris costituito dall'accertamento che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cd. formula di Frank). C.A. tenne il comportamento prima descritto per il fine di evitare conseguenze sul piano lavorativo, che sarebbero state ineluttabili se fossero emerse l'imprudenza, l'imperizia e la negligenza nella custodia e nella gestione delle armi da sparo. 2.3.2. I suoi familiari non erano a conoscenza di quanto accaduto. Non risulta che P.M. fosse esperta di armi da fuoco né che lo fossero F. e C.M.. Seppure è certo che non potessero credere alla versione del padre, che aveva infine riferito di un ferimento con un pettine a punta, quando pure compresero che era stato esploso un colpo di pistola non ebbero consapevolezza della reale portata della vicenda, o almeno ciò non può essere probatoriamente affermato. Dal momento in cui ebbero la percezione di quanto accaduto, i familiari si adeguarono alla condotta tenuta dal congiunto e lo coprirono assecondando il suo intento di attenuare le prevedibili conseguenze dannose. Non solo non allertarono immediatamente i soccorsi, ma, quando poi lo fecero, dettero informazioni ingannevoli, tacendo, sia nel corso delle telefonate che alla presenza degli operatori del 118, la reale dinamica del ferimento. Violarono in tal modo l'obbligo giuridico di impedire l'evento, radicato nel generale principio del neminem laedere, che avrebbe imposto una condotta ben diversa da quella tenuta. 3. La sentenza rescindente. Avverso la suindicata sentenza hanno proposto ricorso tutte le parti e, con pronunzia del 7 febbraio 2020, la Prima Sezione di questa Corte, in accoglimento dei ricorsi delle parti civili e del Procuratore Generale, ritenendo assorbiti i motivi proposti da P., F. e C.M., e rigettato il ricorso di C.A., ha disposto il rinvio alla Corte di Assise di Appello per nuovo esame sullo specifico tema dell'elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che presero parte all'omicidio di V.M.. Tema dell'elemento soggettivo da inquadrare all'interno della complessa vicenda che i giudici di merito hanno concordemente scomposto in due tratti di condotte, l'uno riferito soltanto ad C.A., l'altro anche ai suoi familiari, moglie e figli. La prima condotta che nel capo di imputazione è posta alla stregua di un antefatto ("dopo che C.A.... aveva esploso colposamente...") - si sostanziò nell'esplosione colposa di un colpo d'arma da fuoco che procurò una lesione alla vittima; la seconda consistette nel ritardo nell'attivazione dei soccorsi e nelle false informazioni date agli operatori sanitari che infine intervennero. 3.1. Quanto alla individuazione di una "posizione di garanzia", nella sentenza della Corte di Cassazione, dopo aver dato atto che, secondo la descrizione d'imputazione e quanto poi accertato nelle sentenze di merito, le omissioni si combinarono con porzioni di condotte attive, si è rilevato che: - una condotta omissiva fu tenuta da tutti gli imputati nel segmento successivo all'esplosione di un colpo di pistola; tutti gli imputati intervennero, con le loro condotte sostanzialmente omissive, dopo che il ferimento di V.M. si era già verificato; e quindi incisero sull'aggravamento delle sue condizioni, violando un obbligo di intervento qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso ed espressivo di una posizione di garanzia; - si ebbe un lungo lasso temporale durante il quale C.A. e i suoi familiari si presero cura di V.M., che pure non perse coscienza. V.M. si trovava nell'abitazione della famiglia C. in ragione della relazione affettiva che lo legava a M.. Con l'intero nucleo familiare della fidanzata era in rapporti di spiccata confidenza, di tipo sostanzialmente familiare; - è allora del tutto logico concludere che V.M., rimasto ferito in conseguenza di quello che si è ritenuto un anomalo incidente, restò affidato alle cure di C.A. e dei suoi familiari; - la "sequenza di azioni" rende chiaro che C.A. e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a V.M., rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita. 3.2. Quanto alla sussistenza del dolo eventuale, la sentenza di annullamento ha censurato quella di appello affermando che è stato fatto un uso non accorto delle indicazioni interpretative contenute nella sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261105. Ha quindi individuato una serie di precisi indicatori in base ai quali la conclusione assunta dalla Corte territoriale sull'assenza del dolo era da ritenersi caratterizzata da vizi motivazionali: la finalità della condotta; quello, prossimo, delle conseguenze negative in caso di verificazione dell'evento; lo spazio di ponderazione delle conseguenze della condotta; le specifiche competenze di C.A., militare di carriera e possessore di armi; la persistenza e la pervicacia del mendacio successivo, che ha segnato una linea di continuità assolutamente omogenea con il comportamento tenuto sin da subito, immediatamente dopo il ferimento. 3.3. In relazione alla posizione di P.M., F. e C.M. la sentenza di annullamento ha evidenziato la manifesta illogicità e contraddittorietà delle argomentazioni utilizzate per sostenere l'affermazione della colpa. Ha quindi analizzato tutti gli elementi di fatto emersi per censurare il percorso argomentativo che aveva portato i giudici di merito a leggere le condotte in termini di negligenza e di imprudenza; ha inoltre ritenuto non corretta la scelta di qualificazione - operata in primo grado - in termini di concorso colposo nel delitto doloso configurato a carico di C.A.. Ha infine evidenziato che, se si afferma la partecipazione concorsuale nel fatto doloso di uno dei compartecipi, "il paradigma normativo a cui fare riferimento è delineato dalla disposizione dell'art. 110 c.p., nel cui ambito l'apprezzamento di diversificazioni dell'elemento soggettivo di taluno dei concorrenti può essere valutato nei limiti posti dall'art. 116" (pag. 40). 3.4. Nella sentenza si è precisato che, per un verso, l'apprezzamento della necessità di un nuovo giudizio di merito in punto di elemento soggettivo implica giocoforza il preliminare riconoscimento della validità delle statuizioni circa l'esistenza del nesso di causalità materiale tra le condotte ascritte a ciascuno degli imputati e la morte di V.M.; per altro verso, la rilevazione di vizi nella ricostruzione dell'elemento soggettivo in termini di colpa, sì come denunciati dal Procuratore generale, comporta il venir meno della piattaforma valutativa e decisoria rispetto alla quale si sarebbe dovuto procedere all'esame dei motivi dei ricorsi di C.F., di C.M. e di P.M. (pagg. 40 - 41). 4. La sentenza impugnata. Con sentenza del 30 settembre 2020, all'esito del giudizio di rinvio, la Corte di Assise di appello ha riformato la pronunzia di primo grado limitatamente alla posizione di P.M., F. e C.M., che ha ritenuto colpevoli, in concorso ai sensi dell'art. 116 c.p., del reato di omicidio volontario e, per l'effetto, concesse le attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., li ha condannati alla pena di anni nove e mesi quattro di reclusione ciascuno. Ha invece confermato la sentenza di primo grado quanto all'affermazione di responsabilità di C.A. per omicidio volontario con dolo eventuale. 4.1. La Corte territoriale ha recepito le indicazioni della sentenza di annullamento in ordine alla necessità di scomporre la vicenda in due fasi: la prima che riguarda l'azione commissiva colposa idonea ad uccidere (l'esplosione del colpo d'arma da fuoco), riferibile al solo autore della condotta; la seconda che attiene ai comportamenti successivi (attivi e omissivi) posti in essere dall'intero gruppo familiare, che hanno ostacolato e rallentato il soccorso di V. (come si è già detto, tale scomposizione si rinviene nel capo di imputazione ed è stata recepita anche nelle precedenti sentenze di merito). 4.2. Passando, poi, ad esaminare la questione dell'elemento soggettivo, la Corte territoriale ha qualificato il fatto in termini di concorso in omicidio mediante omissione, rinvenendo una posizione di garanzia ex art. 40 cpv. c.p. in capo a tutti gli imputati presenti sul luogo del delitto in forza "di una assunzione de facto delle cure del ferito". Ha poi esaminato per ognuno degli imputati la rispondenza agli indicatori individuati dalle Sezioni Unite Espenhahn per accertare la configurabilità del dolo eventuale. 4.3. Quanto all'affermazione di responsabilità dei familiari per concorso anomalo, la Corte d'Assise d'Appello ha ricordato che la responsabilità del concorrente per il fatto doloso del correo è "sostanzialmente colposa". Ha quindi sostenuto che, a differenza della posizione di C.A. - descritto come figura autoritaria, complice anche l'età e la mansione di militare in carriera -, il ruolo dei familiari concorrenti non consente di ravvisare, senza alcun ragionevole dubbio, l'elemento del dolo (eventuale) con riferimento alla morte del V.. Si è assunto, in particolare, che tali imputati, pur rendendosi conto della gravità della ferita inferta alla vittima e del peggioramento delle sue condizioni di salute, si siano prefigurati un evento meno grave rispetto a quello ravvisato ed accettato da C.A., ossia quello delle lesioni gravi. 5. Il ricorso proposto nell'interesse di C.A.. Avverso la suindicata sentenza della Corte di Assise di appello propone ricorso C.A., con atto sottoscritto dagli avvocati Giandomenico Caiazza e Andrea Miroli. 5.1. Con il primo motivo denunzia violazione di legge e vizi motivazionali per avere la Corte di Assise di appello, nell'adeguarsi al principio di diritto pronunziato sul punto dalla Corte di Cassazione in sede di giudizio rescindente, omesso di formularne una interpretazione costituzionalmente orientata o di valutarne comunque la compatibilità con i principi costituzionali. 5.1.1. Le censure sono articolate con specifico riguardo all'affermato principio per il quale sarebbe sufficiente il generalissimo comando del neminem laedere, pur integrato dalla condizione di fatto di trovarsi la vittima nell'abitazione di proprietà del ricorrente, per ritenere intestato in capo agli imputati - ed innanzi tutto ad C.A. - un formale obbligo di garanzia ("obbligo di protezione") rispetto all'integrità fisica ed alla stessa vita della vittima, senza l'invocazione di alcuna disposizione di legge dalla quale far discendere tale obbligo e la conseguente, indispensabile consapevolezza della sua cogenza da parte degli imputati; principio di diritto, pertanto, adottato in aperto contrasto con i principi costituzionali di stretta legalità, tassatività e determinatezza del precetto penale. Il giudice del rinvio sarebbe così venuto meno all'obbligo - sempre su di lui gravante - di adottare una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che è chiamato ad applicare. In particolare, il ricorrente contesta quanto affermato dalla Corte di merito a pagg. 18 e 61 della sentenza in ordine all'impossibilità di rimettere in discussione la qualificazione del fatto in termini di concorso in omicidio mediante omissione, rinvenendo una posizione di garanzia ex art. 40 c.p., comma 2, in capo agli imputati presenti sul luogo del delitto in forza di una assunzione de facto delle cure del ferito. Sostiene quindi che, alla luce del principio costituzionale della responsabilità penale personale, l'inosservanza dell'obbligo di sorveglianza non può dare luogo alla responsabilità per mancato impedimento dell'evento ex art. 40 c.p., comma 2, né a titolo autonomo, né per concorso omissivo nel reato commissivo, perché, in assenza di poteri impeditivi, si tratterebbe di responsabilità oggettiva per fatto altrui. L'omessa sorveglianza è pertanto punibile nei soli casi espressamente previsti da specifiche disposizioni di parte speciale. Dopo aver richiamato i principi affermati da alcune pronunzie di questa Corte, il ricorrente svolge una serie di rilievi anche alla sentenza di annullamento della Prima Sezione della Cassazione, evidenziando che si è perso il riferimento alla possibilità di far sorgere la posizione di garanzia dal mero porre in essere atti di materiale gestione del bene tutelato in assenza di un preesistente obbligo giuridico. 5.1.2. In via subordinata, il ricorrente chiede - per le medesime ragioni - che la Corte di Cassazione sollevi questione di legittimità costituzionale dell'art. 40 c.p., comma 2, in relazione agli artt. 589 e 575 c.p., per come interpretato ed applicato nel giudizio rescindente e in quello rescissorio, perché in contrasto con gli artt. 13,25 e 27 Cost.. Evidenzia che la sentenza rescindente della Prima Sezione di questa Corte fonda la sussistenza dell'obbligo giuridico di garanzia sulla condotta materiale degli imputati che presero in carico la gestione della situazione di pericolo, in ragione di un "dovere di protezione" quale concretizzazione del più ampio dovere del neminem laedere (in verità contraddicendo nei fatti la dichiarata intenzione di correggere, sul punto, la motivazione della prima decisione della Corte di Assise di Appello). Secondo il ricorrente tale affermazione della Corte di Cassazione, fatta propria dal giudice del rinvio, appare in contrasto con i principi costituzionali della riserva di legge, di stretta legalità, di tassatività, di solidarietà, di uguaglianza, di libertà e di responsabilità penale personale. E' del tutto estraneo alla logica del nostro sistema penale la valorizzazione dell'evento morte, conseguente all'omesso soccorso, quale elemento in grado di attrarre il fatto nella fattispecie omicidiaria (tanto dolosa quanto colposa), poiché tale circostanza viene tenuta in debita ed appropriata considerazione nell'ultimo capoverso dell'art. 593 c.p.. Appare evidente la distonia che si viene a creare nell'impianto codicistico quando al suo interno si inserisce un'interpretazione non corretta di una disposizione portante quale l'art. 40 c.p.. Essendo questa una norma che "raddoppia" le ipotesi di reato, estendendo la punibilità commissiva ad una serie speculare di fattispecie incriminatrici omissive, l'interpretazione proposta incide non solo sui singoli reati ma va a collidere con tutti i principali istituti codicistici. 5.1.3. In ogni caso, il ricorrente ha chiesto - ai sensi e per gli effetti dell'art. 618 c.p.p. - che, preso atto del contrasto giurisprudenziale esistente sul punto della configurabilità de facto di un obbligo di garanzia rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 40 c.p., comma 2, il ricorso sia rimesso alle Sezioni Unite. 5.2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 43,575 e 589 c.p. e correlati vizi motivazionali in relazione alla configurabilità dell'elemento soggettivo del dolo eventuale. 5.2.1. La Corte di Assise di appello ha valutato, in modo contraddittorio, illogico e violativo dei principi normativi, la sussistenza della rappresentazione da parte del C. della morte del V. quale possibile conseguenza della contestata sua condotta omissiva successiva all'esplosione colposa del proiettile. Sostiene il ricorrente che nella sentenza di annullamento della Prima Sezione non v'e' un'affermazione di principio a favore della sussistenza di un elemento soggettivo piuttosto che un altro, ma ciò che si è ritenuto necessario è che la motivazione dia conto in modo logico e coerente di tutta una serie di indicatori/indizi in grado di catturare le esternazioni della voluntas umana. Senonché la sentenza impugnata ha replicato in egual misura - se pur giungendo a conclusioni diverse - i vizi della logica argomentativa che la Cassazione aveva censurato nella decisione del primo giudice di appello. 5.2.2. Allo stesso modo, e per conseguenza, l'impugnata sentenza ha motivato in modo contraddittorio ed illogico, nonché violativo dei principi normativi, in ordine alla ritenuta volontà del ricorrente di cagionare, con dolo eventuale, l'evento mortale, piuttosto che di averlo causato con colpa cosciente, pur avendo attribuito al C. di fatto ed in concreto, e dunque in contraddizione con quanto apparentemente motivato, non l'adesione all'evento, ma la mera accettazione del rischio che esso potesse verificarsi. Sostiene altresì il ricorrente che la Corte d'Assise di Appello ha omesso di confrontarsi con un dato costante di tutto il processo: la pauci-sintomaticità della ferita riportata dal V.. Questo dato, confermato dalle consulenze di tutte le parti, è stato eliso in assoluto nella motivazione e non è stata spesa una parola per descrivere la situazione di fatto in cui versava il ferito e la speculare rappresentazione materiale che, per conseguenza, si presentava agli occhi degli imputati. La sentenza confonde una presunta esperienza di C. in materia di armi da fuoco con una pretesa preparazione medico sanitaria, che gli permettesse di discernere e valutare le ferite che un colpo d'arma da fuoco può cagionare. L'assenza del foro di uscita, la modesta perdita di sangue e le cure, improprie e confuse, prestate dai familiari, sono tutti elementi che non possono non essere valutati, secondo regole elementari di logica e di buon senso, come sintomatici di una rappresentazione della realtà in capo agli imputati ben diversa da quella che procedeva invece inesorabile. Le fattezze esteriori della ferita di V., sita sul braccio, appena sotto la spalla, avrebbero allora meritato un'approfondita considerazione nel giudizio di colpevolezza degli imputati, che non può essere surrogata, come invece ha fatto la sentenza impugnata, con la valorizzazione manifestamente ipertrofica e scientificamente neutra della mancanza del foro di uscita del proiettile, se è vero com'e' vero che la ritenzione di un proiettile nel braccio non autorizza in alcun modo alcuna prognosi infausta. 5.3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia vizi motivazionali e travisamento della prova in relazione al punto in cui la Corte di merito è giunta ad attribuire ad C.A. il dolo eventuale del reato di omicidio, ignorando il dato decisivo relativo al contegno di C.F. e P.M. di aver rivelato ai genitori di V.M. l'esplosione del colpo d'arma da fuoco che aveva attinto il figlio, unitamente all'aver trascurato la confessione resa dall'imputato prima dell'intervenuto decesso; aspetti che depongono per una non adesione all'evento morte. Viene censurata la sentenza nella parte in cui si afferma che, per occultare l'accaduto, il C. aveva chiesto al medico di non farne menzione nel referto; invero qualora questi, per assurdo, avesse acconsentito, il suo intento si sarebbe perfezionato, atteso che si sarebbe avvalso della cooperazione dei suoi familiari. Tuttavia, tale argomentazione non tiene conto della circostanza che C.F. e P.M., una volta arrivati al Punto di Pronto Intervento, raccontavano ai genitori di V. quello che era effettivamente accaduto. Così facendo è di tutta evidenza che l'evento mai avrebbe potuto essere occultato, atteso che, anche se il medico avesse acconsentito alla richiesta di C., questo non sarebbe potuto certamente accadere con i V.. Sul punto, quindi, la motivazione sarebbe irragionevole ed illogica; contrariamente a quello che sostiene la Corte d'appello, la sopravvivenza di V. sarebbe convenuta al C., perché solo in tal modo il suo piano di chiedere al medico di celare l'occorso per salvaguardare il posto di lavoro avrebbe potuto perfezionarsi: infatti, se il medico avesse accettato, avrebbe potuto evitare l'emersione dell'uso negligente dell'arma e, per l'effetto, le inevitabili conseguenze in negativo sul posto di lavoro. 6. I ricorsi proposti nell'interesse di C.M., P.M. e C.F., C.M., P.M. e C.F., con il ministero dell'avvocato Caiazza le prime due, dell'avvocato Andrea Miroli M. e C.F. e dell'avvocato Pietro Messina la P., propongono ricorsi compendiati in un unico atto. 6.1. Il primo motivo di ricorso è sovrapponibile interamente al primo motivo proposto nell'interesse di C.A. (si veda sopra par. 5.1.). 6.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza in capo agli imputati del concorso anomalo in omicidio volontario anziché del favoreggiamento personale non punibile. In proposito, i ricorrenti indicano specificamente i passaggi motivazionali che inducono a ritenere che le condotte poste in essere dagli imputati sono quelle tipiche di un'attività di favoreggiamento compiute nell'interesse del capofamiglia, consistite sia nel non riferire ai soccorritori la reale causa del ferimento, sia, successivamente al decesso del ragazzo, nell'aver concordato le versioni da riferire agli inquirenti. Secondo i deducenti la sentenza di annullamento della Prima Sezione di questa Corte aveva già indicato le giuste coordinate al fine di compiere la nuova analisi in fatto rispetto ai contegni dei tre familiari, descritti chiaramente in termini di favoreggiamento personale. Non a caso era stata ritenuta l'esigenza di un nuovo "approfondimento" in ordine all'elemento soggettivo da ascrivere ai familiari, posto che - così descritto - non sembrava, pur non escludendolo, potersi inquadrare nell'alveo della negligenza e/o dell'imprudenza come sino a quel momento ritenuto dai primi due Giudici di merito, in quanto apparentemente connotato da volontarietà. 6.2.1. I ricorrenti denunziano altresì vizi motivazionali nella parte in cui la sentenza impugnata, nonostante sia stata ritenuta in capo agli imputati la sola accettazione del reato di lesioni per la mancata rappresentazione dell'evento morte, attribuisce agli stessi il concorso anomalo ex art. 116 c.p.. La Corte territoriale ha del tutto ignorato le coordinate fornite dalla sentenza di annullamento con rinvio, giungendo a una conclusione in diritto chiaramente destituita di fondamento, basata su un'accettazione (rectius, "adesione psichica") da parte dei familiari al reato di lesioni colpose già consumato dal capofamiglia (lesioni, peraltro, così trasformate in volontarie) e sulla successiva attribuzione ai medesimi del concorso anomalo ex art. 116 c.p., escludendo contraddittoriamente ed illogicamente inoltre la sussistenza dell'elemento costitutivo della fattispecie, rappresentato dalla prevedibilità dell'evento non voluto (la morte), ascritto invece solamente ad C.A.. 6.2.2. Con lo stesso motivo denunziano travisamento della prova in ordine ai dati peritali afferenti alla scarsa manifestazione esterna della ferita, la zona del corpo attinta dal proiettile, l'unicità e l'imprevedibilità della traiettoria percorsa all'interno del torace, la non visibilità esterna dell'ogiva, elementi tutti incidenti sull'effettivo grado di rappresentazione soggettiva dell'evento da parte dei suddetti imputati. 6.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 47 e 586 c.p. quale reato addebitabile in relazione all'evento morte, non previsto e non voluto anche per errore sul fatto. Denunziano altresì correlati vizi motivazionali in ordine alla dedotta punibilità degli stessi per violazione delle norme sopra richiamate e conseguente riconoscimento della sussistenza di un'ipotesi di concorso di cause indipendenti. La difesa dei familiari nel corso del giudizio di rinvio aveva richiesto, subordinatamente al riconoscimento della sussistenza del favoreggiamento nelle condotte dei prevenuti, l'eventuale attribuibilità agli stessi dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 586 c.p. e, conseguentemente, anche in questa sede, in via subordinata la difesa insiste affinché venga valutata la possibilità di attribuire una responsabilità di natura colposa agli imputati, quale conseguenza della violazione del più generale precetto di natura precauzionale che nel caso di specie imponeva agli stessi di attivare prontamente i soccorsi e riferire dello sparo. 6.4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 113 e 589 c.p., nonché il correlato vizio motivazionale in ordine al mancato riconoscimento della cooperazione colposa degli imputati nel delitto colposo commesso da C.A.. I ricorrenti premettono che nella sentenza di rinvio della Corte di Cassazione non è stata affatto esclusa la possibilità di ravvisare la configurabilità nella presente vicenda della fattispecie di cui all'art. 113 c.p. A pagina 40 della suddetta pronunzia, infatti, la digressione in diritto del giudice di legittimità è stata unicamente incentrata nel ribadire la non configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso. Pertanto, qualora la Corte di Cassazione dovesse pervenire, come invocato, ad una attribuzione di responsabilità, a titolo di colpa, nei confronti del capofamiglia, è di tutta evidenza che tale ipotesi soggettiva potrà essere estesa anche ai suoi familiari in ragione del contegno negligente ed incauto dai medesimi posto in essere, in violazione del precetto generale che avrebbe loro imposto di riferire l'occorso ai soccorritori. 7. Il ricorso proposto nell'interesse di C.F.. Nell'interesse di C.F. è stato proposto altro atto di ricorso, a firma dell'avvocato Domenico Ciruzzi, articolato in quindici motivi. Il ricorrente ha precisato che i primi dodici motivi hanno ad oggetto il vizio di motivazione della sentenza impugnata in punto di valutazione e relativa argomentazione della prova indiziaria circa l'esatta percezione da parte dell'imputato del grave stato di salute in cui versava V.M. e della causale dello stesso e, conseguentemente, l'asserita sussistenza e volontarietà della condotta omissiva contestata. Peraltro, molte delle argomentazioni si sovrappongono a quelle già articolate nell'altro atto di ricorso, sicché è sufficiente esporre i motivi in forma enunciativa, rispettando la disposizione di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p.. 7.1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione dell'art. 582 c.p., che la Corte territoriale individua quale reato voluto dall'imputato ed oggetto dell'accordo criminoso con i suoi familiari. Denunzia altresì vizi motivazionali in ordine all'asserito contegno omissivo che avrebbe serbato l'imputato. Sostiene il ricorrente che la Corte distrettuale avrebbe pretermesso completamente tutte le reiterate attività dell'imputato teleologicamente orientate a consentire l'arrivo dei soccorsi (chiamata al 118; insistenza con il padre affinché chiamasse nuovamente i soccorsi, spontanea comunicazione ai genitori del V. della vera causale dell'incidente). 7.2. Con il secondo motivo denunzia vizi motivazionali in ordine all'elemento psicologico che avrebbe sorretto la condotta omissiva addebitata all'imputato, che nelle precedenti sentenze era stata ritenuta pacificamente colposa. Evidenzia il ricorrente che nel caso di specie deve trovare applicazione il principio della motivazione rafforzata, atteso il sostanziale revirement delle precedenti sentenze di merito. In particolare, gravemente contraddittoria e frutto anche di macroscopici travisamenti dei fatti e delle prove risulta l'affermazione - che costituisce la premessa maggiore della sentenza - secondo la quale C.F. si sarebbe immediatamente reso conto delle gravi condizioni di salute in cui versava il V. (e della causale delle stesse) e, ciò nonostante, sarebbe rimasto inerte, provocando volontariamente lesioni gravi a V.M. e dovendo dunque rispondere ai sensi dell'art. 116 c.p. anche del reato di omicidio voluto dal solo C.A.. 7.3. Con il terzo motivo denunzia vizi motivazionali circa l'asserita esistenza di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che fornirebbero efficacia dimostrativa dell'immediata conoscenza in capo all'imputato delle gravi condizioni di salute (e della causale delle stesse) di V.M.. 7.4. In connessione con i motivi due e tre, con il quarto motivo denunzia motivazione apparente e travisamento della prova in ordine "all'orario in cui sarebbe avvenuto lo sparo". 7.5. Con il quinto motivo denunzia vizio di motivazione e travisamento della prova in relazione alla dichiarazione, riportata e valorizzata in sentenza, resa da G.V. in sede di interrogatorio innanzi al pubblico ministero. Denunzia, altresì, violazione di legge processuale sostenendo l'inutilizzabilità del suddetto verbale di interrogatorio, ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 191 c.p.p., art. 500 c.p.p., comma 2 e art. 503 c.p.p.. Il ricorrente deduce, in particolare, che secondo la Corte territoriale la G. avrebbe dichiarato di non riuscire a comprendere come fosse possibile che da un buchino così piccolo uscisse tanto sangue. Ebbene, sostiene il ricorrente, tale dichiarazione, come risulta dallo stesso verbale di interrogatorio allegato in copia all'atto di ricorso, non è mai stata resa nei termini riportati in sentenza. In ogni caso, il suddetto verbale di interrogatorio è da ritenersi, nella parte citata in motivazione, assolutamente inutilizzabile ai fini probatori, sia perché la presunta dichiarazione della G. non è mai stata oggetto di contestazione in fase dibattimentale sia perché le eventuali dichiarazioni predibattimentali rese contro i coimputati possono essere utilizzate esclusivamente per stabilire la credibilità del dichiarante e giammai per provare il fatto storico. 7.6. Con il sesto motivo denunzia motivazione apparente e illogica, nonché travisamento della prova in relazione all'asserita pulitura delle pistole e del bossolo da parte di C.F.. Deduce il ricorrente che sì tratta di un elemento (peraltro mai oggetto di qualsivoglia considerazione nelle precedenti sentenze sia di merito che di legittimità), assolutamente non provato e dal quale, tuttavia, la Corte pretende di ricavare elementi indiziari in punto di consapevolezza in capo all'imputato, sin dall'immediatezza, dell'esplosione di un vero colpo di pistola. 7.7. Con il settimo motivo denunzia vizi motivazionali in relazione al contenuto dell'intercettazione ambientale effettuata il (OMISSIS) presso la stazione dei carabinieri di Civitavecchia. Sul punto, la Corte territoriale ha ritenuto assolutamente genuine le conversazioni oggetto della suddetta captazione, tanto che da esse inferisce la prova (pur in palese contrasto con le prove swap effettuate) che C.M. fosse presente nel bagno al momento dello sparo e (questa volta in senso favorevole agli imputati) che i familiari di C.A. non si fossero mai prospettati la morte del V.. Tuttavia, nella suddetta intercettazione gli imputati affermano anche di essere stati sempre convinti (quantomeno sino al momento del rinvenimento del bossolo) che V.M. fosse in preda ad una crisi di panico. 7.8. Con l'ottavo motivo denunzia vizio motivazionale in ordine all'asserito mendacio nel corso della prima chiamata al 118. 7.9. Con il nono motivo denunzia vizi motivazionali in ordine all'asserito ascolto da parte dell'imputato della telefonata al 118 in cui C.A. riferiva della crisi di panico conseguente ad una ferita con un pettine a punta. 7.10. Con il decimo motivo denunzia motivazione apparente e travisamento della prova in relazione all'asserita presenza di C.F. allorquando sopraggiunsero in casa gli infermieri del 118 ed all'asserito ascolto da parte dell'imputato della menzogna che il padre pronunziò sulle cause del malore di V.. 7.11. Con l'undicesimo motivo denunzia violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. d) per la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta dalla difesa. Considerato che in tutte le sentenze di merito si è affermato che C.F. ha avuto esatta consapevolezza della causa del malessere del V. solo a seguito del rinvenimento del bossolo, avvenuto pochissimi minuti prima della seconda telefonata al 118, la difesa ha richiesto anche nel giudizio di appello di rinvio l'espletamento di una nuova perizia che, al fine di verificare l'esistenza del nesso causale tra la ritardata attivazione dei soccorsi (condotta omissiva il cui inizio non può che essere legato, per quanto concerne la posizione di C.F., al momento in cui questi ha iniziato ad avere consapevolezza della gravità dello stato di salute del V.) e l'evento morte, avesse come punto di riferimento non già il momento dello sparo, bensì il momento in cui l'imputato ha avuto esatta conoscenza dello stesso. 7.12. Con il dodicesimo motivo denunzia vizi motivazionali in ordine alla condotta tenuta al P.I.T. di (OMISSIS). Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale, benché sollecitata sul punto dalle considerazioni espresse dalla difesa sia oralmente che nella memoria difensiva versata in atti, ha omesso qualsivoglia considerazione in ordine alla circostanza (rilevantissima al fine di dimostrare l'insussistenza di un accordo criminoso finalizzato a celare la responsabilità di C.A.) che C.F. rese immediatamente edotti i genitori del V. dello sparo e dell'autore dello stesso. 7.13. Con il tredicesimo motivo denunzia violazione degli artt. 116,575 e 40 cpv c.p.. Il ricorrente deduce che (a prescindere da ogni valutazione circa la condotta in concreto tenuta da C.F., che non risulta idonea ad integrare in fatto alcuna ipotesi delittuosa) non si è in presenza di un concorso di persone bensì di autonome condotte, ab origine diverse sia in punto di elemento materiale che in punto di elemento psichico, da parte di ciascun imputato. In particolare, come emerge dallo stesso testo della sentenza impugnata, fin dall'inizio della vicenda C.A. si sarebbe prefigurato l'evento morte (e dunque lo avrebbe accettato quale conseguenza della sua condotta commissiva e omissiva) e, pertanto, ab origine la sua condotta sarebbe stata sorretta dal dolo eventuale di omicidio. I familiari, di contro, non essendosi mai rappresentati l'evento morte (e dunque non avendolo mai accettato) hanno ab origine posto eventualmente in essere una diversa condotta delittuosa. Manca, in altri termini, l'esistenza di un reato comune iniziale voluto da tutti i concorrenti e cioè la condizione imprescindibile perché possa trovare applicazione il disposto di cui all'art. 116 c.p.. Inoltre, dalla stessa ricostruzione operata in sentenza, la condotta che in concreto si addebita all'imputato sarebbe stata in ogni caso non già quella di produrre volontariamente, mediante una condotta omissiva, lesioni al V., bensì: - o una sottovalutazione delle condizioni in cui versava il V., frutto di errore ex art. 47 o 48 c.p., che avrebbe determinato la ritardata ed incongrua attivazione dei soccorsi; - ovvero (e qualora si dovesse ritenere volontaria la condotta omissiva) quella di celare all'autorità le responsabilità del padre per l'accidentale esplosione del colpo. In altri termini, una condotta omissiva idonea ad integrare al più il paradigma normativo del delitto di cui all'art. 378 c.p. (in sé non punibile poiché scriminato ex art. 384 c.p.), con eventuale applicazione del disposto di cui agli artt. 83 e 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto). Di converso, anche qualora si dovesse ritenere l'esistenza di un concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p., il reato in astratto configurabile sarebbe non già quello di omicidio bensì quello di abbandono di persona incapace ex art. 591 c.p.. A monte, frutto di erronea interpretazione della legge penale risulta altresì il riconoscimento in capo all'imputato di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p. fondata sull'assunzione volontaria dell'obbligo di cura e/o protezione e sul rapporto para-familiare che avrebbe legato l'imputato alla vittima. Evidenzia altresì il ricorrente, denunziando anche omessa motivazione e violazione del disposto di cui all'art. 627 c.p.p., che in relazione alla sussistenza della posizione di garanzia, e benché il tema fosse stato specificamente oggetto dei motivi di appello e della memoria difensiva depositata nel processo di appello di rinvio, la Corte territoriale ha omesso qualsiasi motivazione, richiamando erroneamente un presunto ed insussistente giudicato sul punto sorto a seguito della sentenza di annullamento della Suprema Corte. In realtà, quest'ultima ha annullato la precedente sentenza per vizio di motivazione ed ha dichiarato assorbiti i motivi proposti dalla difesa (tra cui anche quello relativo alla insussistenza della posizione di garanzia), non assumendo dunque alcuna decisione, men che mai definitiva. In ragione di ciò il giudice del rinvio aveva l'obbligo di rivalutare tutti gli elementi e i punti oggetto di specifico gravame della difesa. In ogni caso, su tale ultimo punto, assolutamente decisivo atteso che, in assenza di posizione di garanzia, l'unico reato astrattamente configurabile sarebbe quello di omissione di soccorso ex art. 593 c.p. (o eventualmente il favoreggiamento), la difesa, facendo riferimento all'esistenza di diversi orientamenti sorti in seno alla Suprema Corte, chiede che tale questione di diritto sia eventualmente demandata alle Sezioni unite. 7.14. Con il quattordicesimo motivo il ricorrente denunzia vizi motivazionali per avere la Corte di Assise di appello ritenuto sussistente il concorso di persone nel reato, sia pur nella forma del cosiddetto concorso anomalo, in presenza di condotte dell'imputato che, sulla base degli incontrovertibili elementi di fatto riconosciuti nella stessa sentenza impugnata, risultano assolutamente distoniche rispetto all'esistenza di un accordo criminoso a cui avrebbe partecipato, finalizzato ad evitare a qualsiasi costo che C.A. subisse conseguenze pregiudizievoli per l'accidentale esplosione del colpo di pistola, aggravando le condizioni di salute del V.. 7.15. Con il quindicesimo e ultimo motivo viene sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 116 c.p. per violazione dell'art. 27 Cost. e art. 3 Cost., comma 2. In particolare il ricorrente, dopo aver premesso che ci troviamo al cospetto di una condotta personale di tipo omissivo idonea ad integrare al più il delitto di lesioni con dolo eventuale e che, tuttavia, atteso un presunto concorso iniziale con C.A., ha determinato la condanna dell'imputato ad anni nove e mesi quattro di reclusione per concorso anomalo in omicidio volontario, ritiene evidente la sproporzione, e dunque l'irragionevolezza, tra la condotta personalmente posta in essere dall'imputato e la pena comminatagli. 8. La memoria nell'interesse di C.F.. Sempre nell'interesse di C.F. gli avvocati Domenico Ciruzzi e Andrea Miroli hanno depositato una memoria. 8.1. Si articolano ulteriori argomentazioni in punto di errata configurazione dell'ipotesi delittuosa in contestazione e di insussistenza di un concorso ex art. 116 c.p.. 8.2. Le altre deduzioni attengono alla condotta di C.F. e alle conseguenze giuridiche della stessa. Vengono in proposito reiterate le argomentazioni, anche in fatto, già sviluppate nel ricorso, con l'assunto secondo il quale la condotta dell'imputato non integri gli estremi di alcuna fattispecie delittuosa. 8.3. La difesa analizza anche delle "ipotesi subordinate", partendo dal dato che in tutte le sentenze sin qui emesse la condotta in fatto contestata all'imputato è stata quella di non aver soccorso il ferito. Sostiene, quindi, che sarebbe tutt'al più configurabile l'omissione di soccorso prevista dall'art. 593 c.p.. L'unica circostanza da verificare resterebbe dunque quella dell'elemento soggettivo che avrebbe sorretto la condotta dell'imputato. Se è in colpa - come è stata ritenuta G.V. che, come ovvio che sia e come dimostrato nel corso dell'istruttoria, è stata costantemente vicina a F. ponendo in essere la medesima condotta - poiché la condotta inadeguata sarebbe figlia delle false informazioni ricevute dal padre (troverebbe in tal caso applicazione il disposto di cui all'art. 48 c.p.) e dalla oggettiva complessità della situazione specie per un ragazzo di poco più di venti anni (in tal caso verrebbe in rilievo l'art. 47 c.p.), il reato non sussiste per espressa previsione codicistica. Se, invece, si ritiene che l'omissione sia stata volontaria, la soluzione non può che essere quella di una condanna per omissione di soccorso aggravata dalla morte. 8.4. Sin dalla sentenza di primo grado si e', tuttavia, calato all'interno del processo un elemento "spurio" (e, peraltro, mai formalmente contestato, come risulta dallo stesso capo di imputazione che, ancor oggi, non fa alcuna menzione dell'art. 40 cpv. c.p.) e cioè la sussistenza di una posizione di garanzia, dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, insistente in capo a tutti gli imputati. La Corte di Cassazione ha dichiarato assorbiti tutti i motivi di ricorso della difesa, tra cui ovviamente anche i motivi n. 1-3 del precedente ricorso in tema di posizione di garanzia. Ora non vi è dubbio che, qualora la Corte avesse inteso effettivamente affermare la sussistenza di una posizione di garanzia tout court valida per tutti gli imputati, allo specifico motivo di ricorso proposto dalla difesa avrebbe dovuto rispondere con una declaratoria di rigetto. E la controprova che quanto affermato in questa sede sia l'unica soluzione prospettabile è data dal fatto che - in riferimento alla posizione di C.A. - la S.C. ha esplicitamente rigettato il motivo relativo alla cd. "colpa cosciente" che per sua natura presupponeva una previa valutazione in punto di sussistenza della posizione di garanzia. Aggiunge il deducente che, se si legge attentamente la precedente decisione della S.C., sarà agevole verificare come la sussistenza della posizione di garanzia sia esplicitamente affermata solo in relazione alla posizione di C.A. (che aveva un obbligo di protezione/cautela derivante dal possesso dell'arma; che è autore della condotta lesiva che ha determinato l'insorgere del processo causale che ha condotto, in ultimo, alla morte del V.; che, infine, ha immediatamente preso in carico il ferito) e l'eventuale allargamento della stessa anche agli altri familiari è legata esclusivamente ad una previa valutazione in ordine alla sussistenza o meno del concorso di persone ex art. 110 c.p.. 8.5. In conclusione, la difesa afferma che la condotta contestata all'imputato non integri alcuna fattispecie delittuosa o, al più, la fattispecie di cui all'art. 593 c.p.. In linea meramente subordinata, evidenzia che, qualora si dovesse ritenere il contegno dell'imputato reticente (una reticenza finalizzata ad evitare conseguenze penali pregiudizievoli per il padre), il delitto in astratto configurabile (in particolare per quanto concerne la porzione della vicenda relativa all'arrivo dei soccorritori in casa C.) sarebbe quello di favoreggiamento personale, in concreto tuttavia non punibile ai sensi dell'art. 384 c.p.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi proposti sono nel loro complesso infondati e, pertanto, va emessa una pronunzia di rigetto di tutti ricorsi, con le precisazioni in diritto qui di seguito esposte e con la qualificazione del fatto ascritto a C.F., C.M. e P.M. ai sensi dell'art. 110 c.p., art. 114 c.p., comma 3 e art. 575 c.p.. 2. La "posizione di garanzia". Uno dei temi centrali, comune a tutti i ricorrenti, è quello della configurabilità di una "posizione di garanzia" e, in particolare, di quella posizione che viene definita "di protezione". Non è superfluo rammentare che la responsabilità ex art. 40 c.p., comma 2, presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l'obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni, la semplice inerzia assume significato di violazione dell'obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l'evento) e l'esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento consente di ascrivere il reato secondo la previsione dell'art. 40 c.p., comma 2. Peraltro, il tema della sussistenza della posizione di garanzia è focale tanto con riferimento alla responsabilità penale nel reato omissivo improprio monosoggettivo, quanto in relazione al concorso omissivo nel reato commissivo ovvero nell'ipotesi in cui l'evento, che si ha l'obbligo di impedire, coincide con la commissione di un reato da parte di altri. 2.1. In ragione degli specifici rilievi formulati dai ricorrenti, va affrontata preliminarmente la questione degli ambiti decisionali del giudice del rinvio, giacché nella sentenza impugnata si è affermato che "uno dei principi fissati dalla Suprema Corte nella sua sentenza di annullamento con rinvio è la conferma della qualificazione del fatto in termini di concorso in omicidio mediante omissione, rinvenendo una posizione di garanzia ex art. 40 c.p., comma 2, in capo agli imputati presenti sul luogo del delitto in forza di una assunzione de facto delle cure del ferito, mandando al giudice di rinvio di verificare se gli imputati agirono con dolo o con colpa e, dunque, se la suddetta norma di parte generale debba essere riferita all'art. 575 c.p. (sotto il profilo del dolo eventuale, così come nella originaria contestazione) o all'art. 589 c.p., così come ritenuto nella sentenza di primo grado per tutti gli imputati eccezione fatta per C.A. e nella successiva sentenza di secondo grado che includeva anche quest'ultimo nell'ipotesi di omicidio colposo. Non ha più senso, quindi, discutere ancora sulla sussistenza dell'obbligo di garanzia, come hanno fatto in sede di discussione l'difensori degli imputati M. e C.F. e P.M., trattandosi di principio di diritto affermato dalla Suprema Corte al quale il giudice di merito deve prestare ossequio" (pag. 61 della sentenza in esame). Le difese hanno contestato la decisione, in sostanza affermando che la Corte di Assise di appello, nell'adeguarsi al principio di diritto pronunziato sul punto dalla Corte di Cassazione in sede di giudizio rescindente, ha omesso di formularne una interpretazione costituzionalmente orientata o di valutarne comunque la compatibilità con i principi costituzionali. 2.2. E' bene premettere che - come si è visto anche nell'esposizione della vicenda processuale - già nella prima sentenza di appello era stata scartata l'ipotesi di qualificazione di tutte le condotte degli imputati secondo la norma incriminatrice dell'omissione di soccorso e del favoreggiamento, invece ritenendo riconducibili le condotte alla previsione di cui all'art. 40 cpv. c.p. e fondando l'obbligo giuridico di impedire l'evento sul "principio generalissimo del neminem laedere"(pag.31). In tal modo, la prima Corte di Assise di Appello ha definito un punto che la sentenza di primo grado aveva trattato in modo impreciso, assegnando rilevanza causale alle condotte omissive per mezzo del "dovere giuridico di garantire il soccorso a chi ne abbia necessità" (pag. 30 della sentenza di primo grado), facendo intendere così di aver spostato l'attenzione dalla posizione di garanzia di cui all'art. 40, cpv. c.p. all'obbligo di attivarsi in favore di chi venga trovato in pericolo, secondo il paradigma di cui all'art. 593 c.p.. Tuttavia, aveva affermato che i comportamenti gravemente negligenti, imprudenti e lesivi dell'obbligo di garanzia nei confronti del ferito, erano andati "ben oltre la mera omissione del soccorso, integrando, piuttosto, il più grave delitto di cui all'art. 589 c.p." (pag. 31 della sentenza di primo grado). Il dovere di soccorso del ferito, prima evocato, ha quindi ceduto il passo ad un "obbligo di protezione" derivante da una posizione di garanzia, la cui violazione ha determinato quell'andare oltre delle condotte verso un piano di rilevanza penale di maggior disvalore. Quindi, anche se con profili diversi, anche nella sentenza di primo grado è stata riconosciuta una posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati. 23. Va detto, peraltro, che l'individuazione di una posizione di garanzia non è affatto eccentrica rispetto al capo di imputazione, così come sostenuto in particolare dalla difesa di C.F.. Invero, sebbene l'art. 40 cpv. c.p. non sia espressamente indicato nel capo a) delle imputazioni, l'articolazione dell'addebito di concorso in omicidio doloso a tutti gli imputati è correlata ad una serie di dati fattuali pacificamente riconducibili alla suddetta fattispecie normativa. Tra questi dati spicca senz'altro quello del fatto che la condotta omicidiaria sia stata realizzata mentre il V. era ospite nell'abitazione di cui i C. avevano la disponibilità: circostanza questa che - come si dirà più avanti - è centrale per individuare l'assunzione in capo a tutti gli imputati di uno specifico dovere di "protezione" (si veda infra par. 4). 2.4. La sentenza di questa Corte del 7 febbraio 2020 ha ribadito la configurabilità di una "posizione di garanzia", precisando che una condotta omissiva fu tenuta da tutti gli imputati nel segmento successivo all'esplosione di un colpo di pistola e tutti gli imputati intervennero, con le loro condotte sostanzialmente omissive, dopo che il ferimento di V.M. si era già verificato, incidendo sull'aggravamento delle sue condizioni e, così, violando un obbligo di intervento qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso ed espressivo di una posizione di garanzia. In sostanza, è stato affermato che si ebbe un lungo lasso temporale durante il quale C.A. e i suoi familiari si presero cura di V.M.. Questi si trovava nell'abitazione della famiglia C. in ragione della relazione affettiva che lo legava a M. e con l'intero nucleo familiare della fidanzata era in rapporti di spiccata confidenza, di tipo sostanzialmente familiare; pertanto, è del tutto logico concludere che V.M., rimasto ferito in conseguenza di quello che si è ritenuto un anomalo incidente, restò affidato alle cure di C.A. e dei suoi familiari. Si è quindi rilevato che la sequenza di azioni, come ricostruite dai giudici di merito, consente di ritenere che C.A. e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a V.M., rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita (pagg. 23 e 24 della sentenza della Prima Sezione di questa Corte). 2.5. E' del tutto evidente, allora, che sul tema della "posizione di garanzia" la sentenza di annullamento con rinvio ha affermato dei principi di diritto vincolanti ex art. 627 c.p.p., peraltro correggendo solo in parte la motivazione sul punto della prima Corte di Assise di appello, che - come si è detto - aveva ricondotto la posizione di garanzia al "principio generalissimo del neminem laedere". In proposito, va rammentato che i poteri del giudice di rinvio sono diversi a seconda che l'annullamento sia stato pronunciato per violazione o erronea applicazione della legge penale, oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, giacché, mentre, nella prima ipotesi, il giudice è vincolato al principio di diritto espresso dalla Corte, restando ferma la valutazione dei fatti come accertati nel provvedimento impugnato, nella seconda può procedersi ad un nuovo esame del compendio probatorio con il limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato (tra le altre, Sez. 3, n. 7882 del 10/01/2012, Montali, Rv. 252333). D'altronde, anche a voler ritenere - come sostengono alcune difese - che l'annullamento con rinvio sul punto della "posizione di garanzia" sia derivato solo da vizi motivazionali, va ricordato che la Corte di Cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull'adempimento del dovere di motivazione, sicché il giudice di rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un'autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali (ex multis, Sez. 2, n. 45863 del 24/9/2019, Marrini, Rv. 277999; Sez. 5, n. 7567 del 24/9/2012, Scavetto, Rv. 254830), incorrendo altrimenti nel rischio di un altro annullamento, derivante dalla reiterazione del percorso motivazionale già ritenuto inadeguato (Sez. 6, n. 19206 del 10/1/2013, Di Benedetto, Rv. 255122; Sez. 1, n. 26274 del 6/5/2004, Francese, Rv. 228913). Il vincolo per il giudice del rinvio opera solo per i principi e le questioni di diritto decise con la sentenza di annullamento, con esclusione di ogni altra restrizione derivabile da eventuali passaggi di natura argomentativa contenuti nella motivazione della sentenza di legittimità, soprattutto ove riferibile a questioni di mero fatto (Sez. 4, n. 41388 del 24/09/2013, Rv. 256893). Infatti, il giudice di rinvio non è vincolato né condizionato da eventuali valutazioni in fatto formulate dalla Corte di Cassazione con la sentenza rescindente, spettando al solo giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova (Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, Rv. 264861; si veda anche Sez. 5, Sentenza n. 41085 del 03/07/2009, Rv. 245389). 2.6. Quanto alla questione del contrasto di giurisprudenza rilevato dalle difese, va ribadito che, in caso di annullamento con rinvio disposto da una sezione semplice della Corte di Cassazione, il giudice del rinvio è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto dalla stessa enunciato anche qualora questo contrasti con un principio in precedenza espresso dalle Sezioni Unite sulla medesima questione oggetto di decisione senza che, nel giudizio rescindente, sia stata promossa la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618 c.p.p., comma 1-bis, atteso che, in difetto della previsione di alcuna specifica sanzione per l'eventuale violazione dell'obbligo di rimessione obbligatoria, il principio di diritto contenuto nella sentenza di annullamento, in quanto immodificabile e sottratto ad ulteriori mezzi di impugnazione, acquista autorità di giudicato interno. Va aggiunto che siffatta autorità del principio osta a che la Corte di Cassazione, chiamata a decidere del ricorso avverso la sentenza rescissoria del giudice di rinvio, investa a sua volta le Sezioni Unite (così, di recente, Sez. 1, n. 464 del 22/09/2020, Rv. 280213; si veda anche Sez. U, n. 4460 del 1994, Rv. 196893, secondo la quale l'obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa è assoluto ed inderogabile anche se sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza dopo la detta sentenza; in senso conforme si veda, tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 25722 del 28/03/2017, Rv. 270699). E' incontroverso, peraltro, che il vincolo imposto al giudice di rinvio dalla sentenza di annullamento sia destinato a cedere solo quando la norma da cui la Corte di Cassazione aveva tratto il principio di diritto sia stata, nelle more, abrogata, ovvero dichiarata incostituzionale (Sez. 3, 29 gennaio 2015, n. 12532, Rv. 263001) o, ancora, incompatibile con l'ordinamento comunitario da parte della Corte di Giustizia Europea (Sez. 3, n. 15744 del 14/12/2018, Rv. 275864; Sez. 5, 19 settembre 2013, n. 41334, Rv. 257945; in senso conforme anche: n. 18715 del 2012 Rv. 252503; n. 4049 del 2013 Rv. 254217). 2.7. Questo Collegio non ignora le pronunzie della Corte Costituzionale secondo le quali il giudice di rinvio conserva il potere di sollevare, qualora ne rilevi i presupposti, questione di legittimità costituzionale della norma da cui è stato tratto il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione (Corte Costituzionale Sent. n. 305/2008; Sent. n. 197/2010; Ord. n. 111/2011; Sent. n. 204/2012; Sent. n. 293/2013; Ord. n. 118/2016). Si è affermato, infatti, che per il collegamento esistente tra il giudizio del giudice del rinvio e quello di impugnazione per la cassazione della sentenza emessa in quella sede, ai fini della legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale, non vi è differenza tra il giudice del rinvio e la Corte di Cassazione adita con ricorso avverso la sentenza da lui emessa. Nell'un caso e nell'altro, oggetto del giudizio è la norma sospettata di illegittimità, rispetto alla cui applicazione non può parlarsi di situazione esaurita. Pertanto, in sede di rinvio la norma dichiarata applicabile dalla Corte di Cassazione nell'interpretazione da essa fornita può essere sospettata di illegittimità costituzionale. Si ritiene tuttavia che nella specie correttamente il giudice di rinvio non abbia sollevato questione di legittimità costituzionale, giacché - come si evidenzierà qui di seguito l'interpretazione operata dalla sentenza rescindente non viola affatto i principi cui hanno fatto riferimento le difese nei ricorsi. 2.8. In via generale, va premesso che non possono apprezzarsi le critiche alla tenuta costituzionale per indeterminatezza descrittiva della norma di cui all'art. 40 c.p., comma 2. La giurisprudenza sovranazionale (si veda una ricostruzione in Sez. un., 24 ottobre 2019, n. 8544, Genco) e quella costituzionale (Corte Cost. 278/2019, nonché Corte Cost. 327/2008) non colgono alcun contrasto tra principio della determinatezza della fattispecie e l'impiego di concetti elastici o clausole generali, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di tale elemento mediante un'operazione interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato, permettendo, al contempo, al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo. Allora, deve ritenersi che l'art. 40 c.p., comma 2, non ponga problemi di indeterminatezza descrittiva, una volta che si riconosca che il fondamento della responsabilità omissiva si identifica nella necessità, riconosciuta dall'ordinamento (di qui la "giuridicità" dell'obbligo), di assicurare ad alcuni beni una tutela rafforzata; ciò accade proprio in dipendenza dell'incapacità del titolare del bene leso di proteggerlo, individuando una "speciale" posizione di garanzia in capo a determinati soggetti, assuntori del ruolo di garante nei confronti del suddetto titolare del bene. Peraltro - come si dirà meglio qui di seguito - lo speciale vincolo di tutela può anche derivare dall'assunzione di fatto e volontaria della posizione di garante, quando la condotta dell'agente determini o accentui l'esposizione a rischio o impedisca l'attivarsi di alternative istanze di protezione (Sez. 4, n. 13848 del 04/02/2020, Rv. 279137; si veda anche, in motivazione, Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Rv. 277193; nonché, in epoca più risalente, Sez. 4, n. 12781 del 12/10/2000, Rv. 217904). 3. (segue) La "posizione di garanzia" Nella sentenza rescindente e in quella emessa all'esito del giudizio di rinvio la fonte della posizione di garanzia rivestita da tutti gli imputati è stata sostanzialmente individuata in una assunzione volontaria rispetto a V.M., rimasto ferito nella loro abitazione, di un dovere di protezione e, quindi, di un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita. 3.1. Questa Corte ha avuto modo già di rilevare che "altra fonte dell'obbligo di garanzia è quello dell'assunzione volontaria ed unilaterale dei compiti di tutela, al di fuori di un preesistente obbligo giuridico, fondato sul presupposto dell'assunzione di fatto dell'onere, della presa in carico del bene che ne accresce le possibilità di salvezza. Tale ambito ricorre in presenza di un'iniziativa spontanea nell'assunzione dei compiti di tutela, come nei casi dei vicini di casa che, in assenza dei genitori, si prendono cura del bambino; dei volontari di pronto soccorso che, avvertiti, soccorrono il ferito in stato d'incoscienza; si tratta di obbligazione giuridica connessa all'assunzione unilaterale del ruolo di garante (Cass. Sez. IV 22.5.07 n. 25527, Sez. Un. 9346 del 27/06/2002, Rv. 555386)" (così in motivazione Sez. 4, n. 50606 del 5 aprile 2013, Manca). In altri termini, la posizione di garanzia - che può essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante - deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere - dovere di cura dello specifico bene giuridico che necessita di protezione e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, n. 28316 del 29/09/2020, Rv. 280080; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Rv. 277629; Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Rv. 277193; Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Rv. 276292; Sez. 4, n. 57937 del 09/10/2018, Rv. 274774; Sez. 4, n. 48793 del 11/10/2016, Rv. 268216; Sez. 4, n. 38624 del 19/06/2019, Rv. 277190; Sez. 4, n. 34975 del 29/01/2016, Rv. 267539; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, Rv. 265797; Sez. 4, n. 50606 del 05/04/2013). 3.2. La teoria dell'assunzione volontaria della posizione di garanzia si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale volto a riconoscerne la validità anche quando nessuna norma o contratto preveda tale situazione (si veda tra le più recenti Sez. 5, 19 novembre 2020, n. 10972, non massimata). In via generale, sebbene con specifico riferimento alla fattispecie di abbandono di minori o incapaci ex art. 591 c.p., Sez. 5 n. 19448 del 12/01/2016 (Rv. 267126) ha affermato che l'obbligo di garanzia penalmente rilevante non discende soltanto dalla mera esistenza di un legame parentale tra i soggetti, ma anche da consolidati elementi fattuali, dai quali si desume che l'imputato in concreto svolgesse spontaneamente compiti di protezione di certi beni, stante l'incapacità dei relativi titolari di provvedere da sé medesimi (nello stesso senso si veda la citata Sez. 5, 19 novembre 2020, n. 10972). L'interpretazione sopra delineata fonda le sue radici sugli obblighi solidaristici di garanzia, derivanti proprio dal graduale affermarsi dei principi tutelati dalla Carta Costituzionale. Incontroversa, infatti, è la centralità dei diritti inviolabili che costituiscono patrimonio irretrattabile della persona; e, in un'ottica di solidarietà (ex art. 2 Cost.: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"), sono previsti anche doveri inderogabili di ordine sociale, senza dubbio finalizzati a salvaguardare la vita e l'incolumità personale del prossimo. In particolare, non si può prescindere dal principio di tutela della vita e dell'incolumità individuale di particolari categorie di soggetti in situazione di "debolezza", permanente o occasionale, in quanto bisognosi di affidarsi ad un soggetto "capace", derivante da quello che in dottrina è stato definito un "rapporto di dipendenza a scopo protettivo". Insomma, è proprio il rilievo costituzionale dei beni giuridici coinvolti a supportare la configurabilità della "posizione di garanzia" derivata dall'assunzione volontaria unilaterale dei compiti di tutela, ossia dalla mera "presa in carico" del bene protetto, anche solo momentanea, che è volta ad impedire che il soggetto incapace di provvedere a sé stesso possa rimanere vittima di una situazione di pericolo. Peraltro, come si vedrà meglio più avanti e come si desume dalle sentenze intervenute nel presente processo, nel caso in esame la posizione di garanzia attribuibile a tutti gli imputati non deriva solo da una oggettiva assunzione di fatto di compiti di tutela ma trova la sua fonte anche nei particolari rapporti della famiglia C. con V.. 3.3. Non ignora questo Collegio che v'e' un contrasto in dottrina sull'individuazione delle fonti dalle quali discende l'assunzione volontaria della posizione di garante. 3.3.1. Secondo la c.d. teoria formale, la situazione fattuale tipica, da cui dipende l'obbligo di impedire l'evento, va individuata in base a una fonte formale dell'ordinamento giuridico: la legge, il contratto e la precedente attività pericolosa. Per quel che concerne, in particolare, quest'ultima, essa viene considerata fonte della posizione di garanzia tutte le volte in cui crea una situazione di pericolo per i terzi, che l'autore della condotta ha l'obbligo di controllare, attivandosi affinché non ne derivino offese ai terzi. Tuttavia, tale ultimo profilo è stato oggetto di critica, giacché non esiste un'espressa norma giuridica che impone di impedire le offese che possono derivare dalla propria attività pericolosa. Il criterio della precedente attività pericolosa si porrebbe quindi in contrasto con il principio di legalità, atteso che, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti, l'art. 40 c.p., comma 2 non fa alcun riferimento, né esplicito né implicito, a tale criterio. Ulteriore critica che è stata mossa alla teoria formale è che essa finisce per subordinare la tutela penale per omesso impedimento dell'evento alle scelte effettuate da altri rami del diritto; si è infatti osservato che non ogni obbligo extrapenale di attivarsi è suscettibile di convertirsi in un obbligo di impedire l'evento penalmente rilevante. Diversamente opinando si aggiunge - si finirebbe col subordinare il giudizio di rilevanza penalistica ex art. 40 c.p., comma 2, al richiamo di criteri di valutazione facenti capo ad altre branche dell'ordinamento giuridico. 3.3.2. Altro orientamento interpretativo privilegia la teoria contenutistico funzionale, che sostiene l'esigenza di tutela e la necessità di costruire la posizione di garanzia in base allo scopo di protezione della fattispecie incriminatrice. Esistono beni giuridici meritevoli di una tutela rafforzata, in quanto i loro titolari non sono in grado di proteggerli affatto o non sono in grado di proteggerli adeguatamente. Ne deriva che il primo requisito della sussistenza della posizione di garanzia è la particolare vulnerabilità del bene, a causa dell'incapacità del titolare di proteggerlo. L'altro fondamentale requisito è che la tutela del bene sia affidata, anteriormente alla verificazione della situazione di pericolo, a un terzo, che è per l'appunto il garante. Infine, la terza condizione necessaria è che il garante sia in grado di intervenire sullo svolgimento dei decorsi causali, in modo da impedire la verificazione dell'evento tipico; proprio tale criterio finisce per circoscrivere la teoria funzionalistica, giacché è il comportamento del garante ad aver determinato un aumento del rischio per il bene da proteggere. 3.4. Oltre che in un'assunzione volontaria dell'obbligo, la fonte della posizione di garanzia può essere individuata, secondo un orientamento già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità (anche civile), nella c.d. teoria del contatto sociale. Sul punto, si è osservato che "quanto alla fonte dell'obbligo di vigilanza e di controllo, la giurisprudenza ha elaborato varie forme di obbligazione, sia su base consensuale, sia derivanti da una iniziativa unilaterale. Quanto alla prima fonte, essa è data non solo dai contratti tipici ma anche da tutti gli atti negoziali atipici, nei quali l'assunzione del ruolo di garante si fonda su base consensuale. Ne discende la possibilità di individuare la fonte legale dell'obbligo di garanzia in molte situazioni della vita ordinaria. Un consolidato indirizzo giurisprudenziale civilistico ha individuato obbligazioni di natura contrattuale, non fondate sul contratto, bensì sul "contatto sociale" fonte di un'obbligazione di garanzia. Secondo tale indirizzo, le obbligazioni possono sorgere da rapporti contrattuali di fatto, in quei casi in cui taluni soggetti entrano tra loro in contatto. Benché questo "contatto" non riproduca le note ipotesi negoziali, pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, ma si rinviene una responsabilità di tipo contrattuale, per non avere il soggetto fatto ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vincolo" (così in motivazione la citata Sez. 4, n. 50606 del 5 aprile 2013, Manca). 4. (segue) La "posizione di garanzia" Tornando al caso in esame, si deve ribadire che è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 40 cpv. c.p. nell'interpretazione sostenuta dalla Prima Sezione di questa Corte. 4.1. Come si è visto, nella sentenza rescindente si è sottolineato come la "sequenza di azioni" che ha caratterizzato la vicenda "rende chiaro che C.A. e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a V.M., rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita. (...) In questo senso deve leggersi il riferimento della sentenza impugnata al fatto che i figli e la moglie di C.A., "soggetti istruiti, maggiorenni..." furono "... pienamente consapevoli della reale gravità dell'accaduto sin quasi dallo stesso momento in cui ne fu consapevole il feritore" (fl. 31). Questa consapevolezza, ancor prima di esser valutata sul piano dei profili soggettivi di responsabilità, ha segnato l'assunzione volontaria del dovere di protezione in favore di V.M. non appena questi rimase ferito e ben prima che l'evento morte ebbe a verificarsi. Il dovere del neminem laedere si concretizzò in tal modo, in ragione delle peculiarità del caso, ossia di un ferimento verificatosi quando la vittima era ospite della famiglia della giovane fidanzata, in un preciso obbligo di protezione. Di esso gli imputati si fecero carico assumendo interamente, in luogo del titolare del bene esposto a pericolo, la gestione del pericolo che si prospettava" (pag. 25 della sentenza della Prima Sezione di questa Corte). 4.2. I principi affermati accedono con evidenza alla teoria contenutistico-funzionale, come si è detto sostenuta anche dalla giurisprudenza maggioritaria. 4.2.1. In ragione della situazione fattuale creatasi, ovvero il ferimento con arma da fuoco di V.M. mentre questi era "ospite" nell'abitazione della fidanzata, viene in rilievo in primo luogo la configurabilità del requisito della particolare vulnerabilità del bene "vita" da proteggere e dell'indubbia incapacità del titolare dello stesso bene a tutelarsi nella situazione di pericolo determinata, peraltro, dalla precedente condotta colposa di C.A.. 4.2.2. Ne' può negarsi che sussista anche l'ulteriore fondamentale requisito ovvero che la tutela del bene fosse affidata, anteriormente alla verificazione della situazione di pericolo, ai soggetti "garanti". " V.M. si trovava nell'abitazione della famiglia C. in ragione della relazione affettiva che lo legava a M.. Con l'intero nucleo familiare della fidanzata era in rapporti di spiccata confidenza, di tipo sostanzialmente familiare. Non può altrimenti spiegarsi la naturalezza con cui C.A. potette entrare nella stanza da bagno nel momento in cui lui era intento a farsi una doccia, e lì rimanere intrattenendo una discussione sulle armi e addirittura - secondo la versione da lui data e accreditata nella contestazione - inscenare uno scherzo impugnando la pistola che aveva recuperato proprio in quel frangente per poi puntargliela contro (fl. 6 della sentenza di primo grado). Come si legge nella sentenza di primo grado i vicini di casa della famiglia C., L.V. e E.V., sentirono dopo lo sparo le grida di un ragazzo che chiedeva aiuto, rivolgendo con un "vi prego, aiutatemi" una ben precisa richiesta di soccorso ai C., e voci di donna, quindi - deve ritenersi - di C.M. e/o di P.M., che "cercavano di tranquillizzarlo", che "lo tranquillizzavano" (fl. 30). E' allora del tutto logico concludere che V.M., rimasto ferito in conseguenza di quello che si è ritenuto un anomalo incidente, restò affidato alle cure di C.A. e dei di lui familiari" (pag. 24 della sentenza rescindente). 4.2.3. Nella specie è configurabile anche la terza condizione necessaria, ovvero che il soggetto garante sia stato in grado di intervenire sullo svolgimento dei decorsi causali in modo da impedire la verificazione dell'evento tipico. Come si vedrà meglio più avanti, trattando della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo, il ritardo nei soccorsi si protrasse per circa 110 minuti ed ebbe un ruolo decisivo nel causare la morte di V.M., che non si sarebbe verificata se i soggetti garanti avessero tempestivamente affidato il giovane alle cure adeguate dei sanitari, essendo pacifico che tutti furono in grado di intervenire in modo da impedire la verificazione dell'evento più tragico. 4.3. E' dunque da individuarsi nell'ospitalità offerta a V., nell'abitazione di cui avevano la disponibilità, l'assunzione di una posizione speciale di garanzia da parte dei C.. Tale posizione non sarebbe stata surrogabile con l'intervento di estranei, che non avrebbero potuto accedere all'abitazione stessa senza il consenso della famiglia C.. La posizione di garanzia, peraltro, è da correlarsi alla situazione che ha posto in pericolo la vita dell'ospitato, quando quest'ultimo, proprio per le sue condizioni, non era più in grado di richiedere autonomamente i soccorsi. Va, peraltro, sottolineato che V.M. era un ospite abituale all'interno della abitazione degli imputati; era un soggetto legato a costoro da rapporti affettivi e di stretta confidenza; egli era dunque titolare di un affidamento socialmente tipico ad essere soccorso in una situazione di pericolo tale da mettere a repentaglio la sua vita. Con questo non si vuole sostenere che al V. si dovessero riconoscere diritti sostanziali propri dei "congiunti", anche se va annotato che una parte della dottrina sostiene che possano assumere obblighi di garanzia figure normativamente innominate, quali il fidanzato, il cognato, il convivente abituale. Invero, come si è detto, è sufficiente la considerazione della condizione di "ospite" nell'abitazione dei C. a caratterizzare la figura del V. come soggetto titolare del diritto di soccorso da parte dei soggetti "ospitanti" e, come si è detto, pacificamente titolari anche dello ius excludendi alios, nel senso che nessun altro sarebbe potuto intervenire a prestare soccorso senza il necessario consenso di questi ultimi. Ed è proprio il qualificato rapporto tra i C. (che - si ripete - avevano la disponibilità dell'abitazione dove è occorso il ferimento, così come espressamente contestato anche nel capo a delle imputazioni) e il V. ad aver determinato la configurabilità in capo a tutti i ricorrenti della posizione di garanzia riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 40 cpv. c.p.; mentre a G.V., anche lei ospite, in quanto fidanzata di C.F., era stata ascritta correttamente l'imputazione di cui all'art. 593 c.p.. Pertanto, del tutto inconferenti e destituite di fondamento risultano le censure della difesa di C.F. sull'asserita disparità di trattamento che vi sarebbe stata nella valutazione tra la sua posizione e quella della G., che - come si è detto - è stata assolta dal reato ascrittole con la formula "perché il fatto non costituisce reato". 4.4. Insomma, per la tutela della vita della vittima non poteva prescindersi dalla fattiva e tempestiva attivazione degli imputati; i soli in grado di rendersi conto della gravità della situazione di pericolo, di allentare i soccorsi e di consentirne l'accesso all'abitazione, fornendo ai sanitari informazioni corrette e fondamentali per la cura e, in definitiva, per la salvezza della persona offesa. Tale aspetto consente di differenziare la situazione in esame da quella che ricorre nell'ipotesi dell'omissione di soccorso: come chiarito anche dalla sentenza rescindente, nel reato di cui all'art. 593 c.p. il soggetto attivo "si imbatte" nell'oggetto del ritrovamento, mentre la sussistenza della posizione di garanzia postula l'esistenza di un obbligo di intervento, qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso, in capo a soggetti selezionati. In proposito, questa Corte ha avuto modo di affermare che l'art. 593 c.p. punisce chiunque si trovi occasionalmente a contatto diretto con una persona in stato di pericolo; l'occasionalità caratterizzante la situazione di pericolo deve essere messa in correlazione con il fatto che chiunque può essere soggetto attivo del reato, indipendentemente da rapporti specifici con il soggetto che si trovi in pericolo (Sez. 5, Sentenza n. 12644 del 14/01/2016, in motivazione). E' allora evidente ciò che distingue la situazione qui analizzata da quella presa in considerazione dalla norma che punisce l'omissione di soccorso, giustificandosi così anche la considerevole differenza nel trattamento sanzionatorio: il soggetto tenuto ad attivarsi per la tutela dell'incolumità di colui che versa in una situazione di pericolo non coincide in questo caso con il quisque de populo, ma è il solo in grado di provvedere all'attivazione dei soccorsi, essendo preventivamente individuabile come titolare di fatto del relativo potere, in virtù della circostanza che questi si trova in un ambiente privato, rispetto al quale - si ribadisce - ha la possibilità di esercitare lo ius excludendi alios. 4.5. Alla luce di quanto sin qui esposto, non si ravvisa alcuna estensione analogica e in malam partem dell'obbligo di protezione, così come allegato dalle difese. Ne' può sostenersi - come ha fatto parte della dottrina - che gli obblighi dei soggetti ospitanti, pur esistenti, non sono vincolanti perché trovano fonte nella "mera cortesia". Come si è già ampiamente sottolineato, il rapporto di ospitalità deve ritenersi rilevante come fonte di affidamenti protettivi individualizzati, perché lo spettro dei destinatari dell'obbligo di soccorso resta oggettivamente delimitato proprio dalla condizione di presenza nella stessa abitazione. D'altronde, nel nostro ordinamento si rinviene la particolare considerazione delle relazioni di ospitalità come generanti affidamenti specifici: basti pensare, per esempio, all'aggravante comune di cui all'art. 61 c.p., n. 11, che prevede un aumento di pena se il fatto è commesso con abuso della relazione di coabitazione od ospitalità, connesso a una condizione obiettiva ambientale e alla violazione del sentimento di fiducia che intercorre tra le parti del rapporto di ospitalità. Va in proposito rammentato che, ai fini della sussistenza della suddetta circostanza aggravante comune, deve considerarsi ospite chi è accolto, anche occasionalmente, saltuariamente o momentaneamente, nella sfera domestica di altra persona, o in luogo da questa destinato all'esplicazione delle attività della vita privata, con il suo consenso (Sez. 3, n. 52435 del 03/10/2017, Rv. 271885; in senso conforme, n. 11186 del 1980 rv. 146392, n. 1693 del 1982 rv. 152341, n. 35187 del 2002 rv. 222523). 4.6. Anche se in via ultronea, per quanto sopra detto, e sotto altro profilo, va sottolineato che l'incidente occorso al V. è avvenuto in un'abitazione nella quale erano custodite armi in violazione degli obblighi imposti normativamente, tanto che è stata affermata la penale responsabilità di C.A. per la contravvenzione di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 20. 4.7. Ed ancora, avendo riguardo al requisito della "precedente attività pericolosa", è indubbio che essa possa individuarsi nella condotta tenuta da C.A., che, nel maneggiare "per scherzo" l'arma, ferì V.M.. Peraltro, il C., con la condotta tenuta successivamente al ferimento, violò anche i doveri su di lui incombenti in ragione del suo ruolo di militare, come indicati nella norma di cui al D.P.R. n. 90 del 2010, art. 732, tra i quali viene in rilievo sicuramente quello di "prestare soccorso a chiunque versi in pericolo o abbisogni di aiuto". 4.8. Rilevante è pure la circostanza che V.M., ancora cosciente nelle fasi successive al ferimento, si sia affidato consapevolmente alle cure degli imputati, così come chiaramente emerso dalla ricostruzione dei fatti e, in particolare, da quanto accertato in relazione alle sue invocazioni di aiuto, come registrate anche durante le telefonate al 118 e riferite dai vicini di casa. 4.9. Tutte le considerazioni sopra esposte consentono di ritenere inammissibili le deduzioni difensive nella parte in cui sono versate in fatto e finalizzate a una rivalutazione delle prove (si veda in particolare il ricorso proposto nell'interesse del solo C.F.), nonché infondate in relazione ai diversi profili in diritto prospettati. 4.10. Va infine rilevato che tutti gli imputati hanno avuto la possibilità di esercitare pienamente il diritto di difesa con riferimento all'individuazione della posizione di garanzia nei termini delineati. Infatti, come si è già rilevato, già la descrizione dei fatti contenuta nel capo a) delle imputazioni e il concreto dibattito processuale dimostrano che la questione ha costituito oggetto del contraddittorio (si vedano sul punto anche gli specifici motivi formulati con i diversi atti di impugnazione), sicché non sussiste alcuna violazione dell'art. 111 Cost. e del principio convenzionale di equità del processo, di cui all'art. 6 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU (si veda sul punto anche quanto si preciserà nel par. 9.5). 5. L'elemento soggettivo. L'altro tema centrale della decisione è quello della sussistenza in capo a tutti gli imputati dell'elemento soggettivo del dolo eventuale. 5.1. Come si è visto, la sentenza rescindente ha annullato la pronunzia impugnata "con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma, per un nuovo giudizio sul tema dell'elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che presero parte all'omicidio di V.M.", precisando che l'accoglimento "del ricorso del Procuratore generale e delle parti civili, in uno con la rettificazione della motivazione in punto di struttura della fattispecie criminosa rilevante, fa ritenere assorbite nelle ragioni sottese alla decisione di annullamento la valutazione dei ricorsi di C.F., di C.M. e di P.M.". Sul punto va detto, per rispondere in particolare ai rilievi della difesa di C.F., che i motivi dei ricorsi ritenuti assorbiti riguardano proprio l'elemento soggettivo configurabile in capo ai suddetti imputati, sicché manifestamente infondate sono le censure relative a vizi motivazionali che caratterizzerebbero la sentenza impugnata. Peraltro, la sentenza rescindente ha ulteriormente evidenziato che "l'apprezzamento della necessità di un nuovo giudizio di merito in punto di elemento soggettivo implica giocoforza il preliminare riconoscimento della validità delle statuizioni circa l'esistenza del nesso di causalità materiale tra le condotte ascritte a ciascuno degli imputati e la morte di V.M.; per altro verso, la rilevazione di vizi nella ricostruzione dell'elemento soggettivo in termini di colpa, sì come denunciati dal Procuratore generale, comporta il venir meno della piattaforma valutativa e decisoria rispetto alla quale si sarebbe dovuto procedere all'esame dei motivi dei ricorsi di C.F., di C.M. e di P.M.". E, quanto alla posizione di C.A., ha specificato che "si è imposto l'annullamento della sentenza per carenze e difetti relativi all'affermazione della natura colposa del fatto e quindi non possono trovare considerazione rilievi critici che muovono necessariamente dagli assunti decisori interessati dall'annullamento" (pagg. 40 - 41). Nei suddetti termini, dunque, è stato perimetrato il mandato al giudice di rinvio, essendo indubbiamente state censurate le argomentazioni della sentenza della prima Corte di assise di Appello proprio sull'elemento soggettivo configurabile in capo agli imputati. 5.2. Si premette, con riserva di meglio specificare in seguito, che l'annullamento sull'elemento soggettivo in relazione alla posizione di tutti gli imputati è stato determinato dalla rilevazione di vizi motivazionali, sicché devono ritenersi applicabili i principi interpretativi cui sopra si è fatto riferimento in relazione agli ambiti decisionali del giudice del rinvio (si veda sopra par. 2.4.). Correttamente, infatti, la sentenza impugnata ha recepito i motivi dell'annullamento e il mandato del rinvio nella necessità "di verificare se gli imputati agirono con dolo o con colpa e, dunque, se la suddetta norma di parte generale (ndr: art. 40 c.p., comma 2) debba essere riferita all'art. 575 c.p. (sotto il profilo del dolo eventuale, così come nella originaria contestazione) o all'art. 589 c.p., così come ritenuto nella sentenza di primo grado per tutti gli imputati eccezione fatta per C.A. e nella successiva sentenza di secondo grado che includeva anche quest'ultimo nell'ipotesi di omicidio colposo" (pag. 61 della sentenza in esame). 6. (segue) L'elemento soggettivo - La posizione dell'imputato C.A. Nell'atto di ricorso proposto nell'interesse di C.A. sono stati articolati due motivi (il secondo e il terzo) sul tema dell'elemento soggettivo. 6.1. Con il secondo motivo il ricorrente ha assunto che la Corte di Assise di appello avrebbe valutato, in modo contraddittorio, illogico e in violazione di legge, la sussistenza della rappresentazione da parte del C. della morte del V. quale possibile conseguenza della contestata sua condotta omissiva successiva all'esplosione colposa del proiettile. Correttamente, poi, sostiene che nella sentenza di annullamento della Prima Sezione non v'e' un'affermazione di principio a favore della sussistenza di un elemento soggettivo piuttosto che un altro, ma ciò che si è ritenuto necessario è che la motivazione desse conto in modo logico e coerente di tutta una serie di indicatori/indizi in grado di catturare le esternazioni della voluntas umana. In effetti, la sentenza rescindente ha annullato per vizi motivazionali sul punto della configurabilità della colpa cosciente invece che del dolo eventuale. Quindi, come si è detto, il giudice del rinvio ha mantenuto, nell'ambito del capo colpito dall'annullamento, piena autonomia di giudizio nella ricostruzione del fatto e nella valutazione delle prove, nonché il potere di esercitare - anche sulla base di elementi probatori prima trascurati - il proprio libero convincimento, colmando in tal modo i vuoti motivazionali e le incongruenze rilevate, con l'unico divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di Cassazione e con l'obbligo di conformarsi all'interpretazione offerta dalla Corte di legittimità delle questioni di diritto. 6.2. La Corte di Assise di Appello ha adempiuto in maniera congrua e non manifestamente illogica agli oneri motivazionali imposti dalla sentenza rescindente, per cui risultano infondate le censure formulate dal ricorrente anche nel terzo motivo di ricorso, con i quali sono stati denunziati vizi motivazionali e travisamento della prova in relazione al punto in cui la Corte di merito è giunta ad attribuire ad C.A. il dolo eventuale del reato di omicidio, ignorando il dato, ritenuto decisivo, relativo al contegno di C.F. e P.M. di aver rivelato ai genitori di V.M. l'esplosione del colpo d'arma da fuoco che aveva attinto il figlio, unitamente all'aver trascurato la confessione resa dall'imputato prima dell'intervenuto decesso; aspetti che deporrebbero per una non adesione all'evento morte. 6.3. Allo specifico tema dell'elemento soggettivo la sentenza impugnata ha dedicato un apposito paragrafo (pagg. 61 - 73), procedendo anche alla valutazione degli elementi probatori emersi a carico dei familiari di C.A., le cui posizioni, però, saranno oggetto più avanti di autonoma e più approfondita trattazione. La Corte territoriale, dopo aver dato atto dei principi in materia, ha proceduto alla valutazione delle condotte di ognuno degli imputati per accertare se le stesse rispondano o meno agli indicatori del dolo eventuale individuati dalla sentenza delle Sezioni unite n. 38343 del 24/04/2014 (P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261105), che - come è noto - ha delineato un sistema indiziario aperto, da modulare in base alle peculiari circostanze del caso concreto e, quindi, da contestualizzare nella vicenda esaminata. 6.3.1. Quanto alla "lontananza della condotta tenuta da quella doverosa" e alla "personalità e le pregresse esperienze dell'agente", la Corte territoriale ha evidenziato come C.A. è stato il primo veramente consapevole di avere esploso un colpo di arma da fuoco e di aver cagionato una ferita alla vittima. "Non possedendo cognizioni mediche ma non potendo non essere consapevole di tutte le possibili conseguenze della ferita inferta, conoscendo la potenza micidiale dell'arma e la distanza minima dalla quale il colpo era stato esploso, avrebbe dovuto immediatamente chiamare i soccorsi. Invece lui 1) lascia il V. nella vasca da bagno e lo lava per fare sparire il sangue; 2) lo muove dalla posizione assunta e lo trasporta nella camera da letto dove V. viene rivestito di tutto punto ma non con i suoi abiti ma con quelli reperiti da C.M. (anche se è C.F. a dichiarare di averli procurati); 3) non presta soccorso alcuno a M. e al momento in cui F. effettua la prima telefonata al 118, passando poi il telefono alla madre, interviene interrompendo la conversazione affermando "non serve niente" facendo interrompere la telefonata; 4) quando F. giunge recando con sé il bossolo del proiettile esploso in bagno, su sollecitazione, cerca l'eventuale foro di uscita del proiettile stesso; 5) si convince ad effettuare una nuova chiamata al 118 alla cui operatrice fornisce false informazioni su cosa sia accaduto a M.; 6) all'arrivo dell'ambulanza con l'infermiera B. e il portantino Ca., interrogato nuovamente sulle cause del malessere, insiste con la versione del buchino cagionato dal pettine a punta, tacendo che M. era stato attinto da un colpo di arma da fuoco e che il proiettile doveva essere rimasto ritenuto; 7) giunto al pronto soccorso si preoccupa di chiamare il medico di turno Dott. Ma. evidenziando a questi l'effettiva causa del malessere di M. ma invitandolo a "passare l'accaduto sotto silenzio"; 8) concorda con F. parte di quello che dovrà dichiarare al P.M. con riferimento alle armi e al bossolo; 9) fornisce al P.M. ben tre versioni differenti ma tutte aventi ad oggetto un semplice incidente fortuito, prima, una condotta colposa dopo. (....) C.A. è un militare di carriera appartenente alla marina militare e successivamente distaccato ai Servizi Segreti e, in quanto tale, ha ricevuto un addestramento, ha partecipato ad esercitazioni di tiro, sa cosa significa scarrellare anche se vuole fare credere di essere un soggetto non aduso alle armi; non può ignorare la potenza e la capacità lesiva di un proiettile cal.9 corto o 380 Auto, esploso a 20/40 centimetri di distanza da un corpo umano" (così in motivazione la sentenza in esame a pag. 68). 6.3.2. Quanto alla "durata e la ripetizione dell'azione" nella pronuncia della Corte territoriale si evidenzia che il "comportamento volutamente omissivo di tutti gli imputati commesso anche mediante qualche condotta attiva quale il mentire sulla natura della ferita si ripete in più occasioni in un arco di tempo che si protrae per circa un'ora e dieci minuti che non appaiono irrilevanti anche se il decesso di V.M. si verifica a distanza di tre/quattro ore dal fatto, perché l'avere taciuto delle reali condizioni di salute del giovane e della natura della ferita ha impedito agli operatori del 118 di attivare un c.d. "codice rosso" che avrebbe visto ben altra natura e tipo di interventi che avrebbero (con elevato, alto grado di probabilità) consentito di salvare la vita di V.M." (pag. 69 della sentenza). 6.3.3. Sul "comportamento successivo al fatto" la sentenza rileva che "le condotte omissive che determinano il nesso di causalità con l'evento morte iniziano subito dopo l'esplosione del colpo di arma da fuoco, proseguono anche con condotte attive per la durata come si è detto di circa un'ora e cinquanta minuti; da parte di C.A. prosegue anche con il medico del pronto soccorso, invitato a far passare sotto silenzio quanto realmente accaduto; continua anche dopo il decesso di V.M., con la concertazione tra gli imputati sul come aggiustare le loro dichiarazioni da rendere al P.M. e nel tacere il reale svolgimento dei fatti al fine di avvalorare la tesi dell'evento fortuito o al massimo dell'omicidio colposo ammannito da C.A. al P.M" (pag. 69 della sentenza). 6.3.4. Riguardo al "fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali", la Corte territoriale ha osservato che non si può prescindere dalla considerazione della professione del C., giacché "non è un caso che egli si preoccupi delle eventuali reazioni all'accaduto nel suo ambiente considerandosi "spacciato" mentre la moglie appare più preoccupata delle conseguenze economiche negative più che per la morte di V.M.. Non è vero che l'eventuale sopravvivenza del V. avrebbe costituito un elemento positivo per l'imputato e di contro che la morte avrebbe invece costituito un elemento negativo e ciò perché nessuno, a parte i componenti la famiglia C., poteva e può riferire come effettivamente si siano svolti i fatti quella notte e l'unico a potere confermare o smentire le loro dichiarazioni sarebbe stato proprio V.M. e, in assenza delle dichiarazioni di questi, il C. sperava di poter accreditare la tesi dell'omicidio colposo, cosa che in effetti si è verificata, sminuendo sempre più la propria responsabilità (cfr. versioni rese fino all'interrogatorio al P.M. circa il fatto che la pistola gli era sfuggita di mano ed era partito un colpo), subendo una pena limitata nel suo ammontare e tale da non comportare (soprattutto per la sussistenza della colpa) alcuna interdizione in perpetuo dai pubblici uffici cui necessariamente corrisponde nell'amministrazione militare la degradazione e la destituzione, ovvero la perdita del posto di lavoro; l'unico in grado di porre in crisi la costruzione di un omicidio per colpa era il solo V.M. ed ecco perché il suo decesso, in termini di mera convenienza personale, era da preferire alla sua sopravvivenza. Ed in effetti, tale risultato il C. sembrava avere raggiunto a seguito della sentenza di secondo grado, annullata dalla Suprema Corte, laddove il reato di omicidio doloso era stato derubricato in quello di omicidio colposo ed erano state revocate le pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici, non applicabili nell'ipotesi di affermazione di responsabilità a titolo di colpa. A parte la considerazione sulla diversità di conseguenze personali in caso di responsabilità per dolo e responsabilità per colpa, come, in ogni caso, il C. pensava di poter nascondere il ferimento colposo? Prima evitando i soccorsi, poi eludendo le domande dei soccorritori, terzo tentando di convincere il medico del P.S. al silenzio, infine, ma non meno grave, accettando la morte del V. che lo avrebbe lasciato padrone della scena del crimine e delle spiegazioni fornite d'accordo con i suoi familiari, unici testimoni. Non dimentichiamo che il C. perfino nell'interrogatorio reso al P.M. tenta la strada dello scivolamento involontario dell'arma con conseguente esplosione del colpo. Era convinto di riuscire a sanare tutte le possibili contraddizioni perfettamente consapevole che rispondere a titolo di colpa non sarebbe stato poi così grave una volta che comunque ormai il fatto era successo e risaputo da troppe persone" (pagg. 70 e 71 della sentenza). 6.3.5. Sulla "probabilità di verificazione dell'evento", la Corte territoriale ha evidenziato che "e' evidente che nel caso di una ferita di arma da fuoco di calibro non indifferente, le condizioni di salute del ferito che addirittura viene scambiato per un diversamente abile dall'operatrice del 118 a causa del modo di lamentarsi e che permette a G.V. e C.M. di ritenere che la pallottola doveva avere leso qualche organo connesso alla capacità di intendere e volere di M. per cui, addirittura, secondo la G. era meglio che fosse finita in tal modo, l'assenza di un foro d'uscita del proiettile, la mancanza di tempestivi soccorsi e la non adeguatezza degli stessi cagionata dal comportamento degli imputati, non potevano non lasciar presagire il probabile esito infausto dell'evento. D'altronde si verte in tema di dolo eventuale per cui il soggetto agente si configura la possibilità del verificarsi di un evento diverso e più grave, accettandolo perché se l'evento fosse stato invece voluto saremmo in presenza di un dolo diretto o intenzionale" (pag 71). 6.3.6. Ancora sulle "conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione", nella sentenza si legge che l'intento principale di C.A. "era quello di far passare sotto silenzio l'accaduto ma, nell'ipotesi in cui, pur con la collaborazione dei suoi familiari, ciò non si sarebbe potuto verificare stante anche il numero delle persone coinvolte, ivi compresa la G., è evidente come il decesso del V. sarebbe stato più facilmente rappresentabile come un evento non voluto e cagionato da colpa stante le concordi dichiarazioni in tal senso di tutti i protagonisti della vicenda meno proprio V.M. che avrebbe potuto non solo spiegare come si erano svolti i fatti e chi fosse presente ma soprattutto perché nonostante abbia urlato per il dolore per oltre un'ora e dieci minuti nessuno si era preoccupato né di aiutarlo efficacemente né di avvertire i suoi genitori che non ebbero nemmeno la possibilità di rendergli l'ultimo saluto da vivo. Inoltre, ad ogni comportamento omissivo tenuto dai detti protagonisti aumentavano le reali possibilità che i soccorsi effettivamente utili si rivelassero improduttivi di effetti positivi" (pag. 72). 6.3.7. Finali annotazioni sono state fatte sul "contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento". Si legge nella sentenza: "Siamo così giunti all'applicazione al caso concreto della c.d. formula di Frank, considerata di chiusura, criticata dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento nella sua applicazione in concreto da parte della Corte di Assise di Appello. Secondo la detta Corte, infatti, la premessa è che quello che C.A. volle evitare fu che si accertasse che aveva sparato, pervenendo alla conclusione che in tal caso non avrebbe potuto volere l'evento (morte) che inevitabilmente avrebbe comportato la rivelazione proprio di ciò che voleva occultare. Secondo la Cassazione, però, il giudice di merito di secondo grado aveva insistito nel trascurare che la morte non avrebbe rivelato nulla di più di quanto lo stesso fatto dell'avvenuto ferimento stava a significare e cioè che V.M. era stato colpito da un colpo d'arma da fuoco esploso dalla pistola di proprietà di C.A.. Appare, quindi, non essere logicamente supportato l'assunto secondo cui se il C. avesse avuto certezza della verificazione dell'evento si sarebbe certamente astenuto dalla condotta illecita, essendovi secondo la Corte di Appello una relazione di sostanziale incompatibilità tra il fine di evitare conseguenze pregiudizievoli in ambito lavorativo e la morte di V.M., perché è vero che anche nell'ipotesi in cui la verificazione dell'evento collaterale rappresenti il fallimento del piano non può escludersi che l'agente abbia effettuato una opzione consapevole accettando in ogni caso la verificazione dell'evento" (pag. 72 - 73). 7. (segue) L'elemento soggettivo - La posizione dell'imputato C.A.. Ritiene questa Corte che la motivazione, di cui si è dato conto in forma testuale nel paragrafo precedente, sia esente dai vizi denunziati nel ricorso proposto nell'interesse di C.A. e - come si dirà anche più avanti - negli altri ricorsi. 7.1. La Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati nella sentenza rescindente, nonché a quelli affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, che trovano in materia del dolo eventuale la loro massima espressione nella più volte citata sentenza delle Sezioni unite n. 38343 del 24/04/2014 (P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261105). Secondo tale pronunzia il dolo eventuale partecipa, al pari delle altre forme di dolo, sia dell'elemento della rappresentazione che della volontà, in piena corrispondenza con la definizione generale di cui all'art. 43 c.p.. Quando sussiste il dolo eventuale la volontà si esprime nella consapevole e ponderata adesione all'evento, sicché non si può più parlare di mera accettazione del rischio come nella colpa cosciente. Le difficoltà per l'interprete non sono tanto di definizione, di inquadramento dommatico, quanto di accertamento, per cui le Sezioni unite ne hanno sottolineato la particolare complessità "dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall'id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l'espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici" (così in motivazione la citata sentenza n. 38343/14). 7.2. Orbene, la sentenza qui in esame ha proceduto alla ricostruzione indiziaria dell'elemento soggettivo del dolo eventuale in maniera coerente, congrua e esente da errori logico-giuridici; ha, infatti, analizzato - come si è visto - non solo i vari indicatori richiamati dalla più volte citata sentenza delle Sezioni unite, ma anche altri, dovendosi in ogni caso aver riguardo alla vicenda concreta, che "può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale", indagine nella quale, "come per tutte le valutazioni indiziarie, quanto più alta è la affidabilità, la coerenza e la consonanza dei segni tanto maggiore risulta la forza del finale giudizio. Anche qui l'indagine demandata al giudice richiede uno estremo, disinteressato sforzo di analisi e comprensione dei dettagli; un atteggiamento, cioè, immune dalla tentazione di farsi protagonista di scelte politico-criminali che non gli competono ed al contempo attivamente interessato alla comprensione dei fatti, anche quelli psichici, alieno dall'applicazione pigra di meccanismi presuntivi" (così in motivazione la citata sentenza n. 38343/14). 7.3. Non va peraltro trascurata l'incisiva traccia segnata dalla sentenza rescindente, che ha in primo luogo censurato la motivazione della prima Corte di Assise di Appello proprio nella valutazione del "fine" che animò la condotta di C.A. in riferimento al secondo tratto della vicenda ovvero dal ferimento colposo in poi. Tale fine fu quello di evitare conseguenze dannose sul piano lavorativo: nella sentenza qui in esame - come si è visto (cfr. sopra paragrafi 6.3.4, e 6.3.6.) - si è ampiamente spiegato come l'affermazione di tale finalità non sia affatto incompatibile con l'assunto di un'adesione volontaria all'evento morte, giacché un dato era ormai irreversibile, ossia il ferimento con un proiettile esploso dall'arma che C. aveva nella sua abitazione, peraltro - come si è più volte sottolineato - in violazione della disposizione di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 20. Ne' è illogico ritenere, come ha fatto la Corte territoriale, seguendo l'indicazione della sentenza rescindente, che se V.M. non fosse morto avrebbe potuto raccontare quel che era realmente accaduto, essendo residuati certamente una serie di punti oscuri proprio relativi alle modalità e al luogo in cui avvenne il ferimento. Insomma, va condivisa l'argomentazione secondo la quale è più logico ritenere, muovendosi sul piano della ricostruzione indiziaria come operata dai giudici di merito e nella prospettazione ex ante dell'imputato, che la morte del V. potesse considerarsi evento che avrebbe reso più disagevole l'accertamento delle responsabilità di tutti i protagonisti della vicenda in esame. Già la sentenza rescindente aveva evidenziato che, "sopravvissuto o meno il ferito, l'accertamento sarebbe stato assai poco evitabile: ed anzi, proprio col pensare che la morte non si sarebbe verificata, il timore di un accertamento di responsabilità ancora più completo e fedele ai fatti sarebbe stato ragionevolmente più fondato, perché le indagini si sarebbero potute avvalere del contributo di conoscenze della vittima" (pag. 28 della sentenza della Prima Sezione di questa Corte). 7.4. Nella sentenza di annullamento si era poi ritenuta del tutto illogica la notazione che la richiesta fatta al Dott. Ma., medico del P.I.T. di (OMISSIS), di non far menzione nei referti del colpo d'arma da fuoco come causa del ferimento sarebbe stata indicativa del radicato convincimento di C.A. che V.M. non sarebbe morto. Condivide questo Collegio l'argomentazione secondo la quale, "se mai, sul piano delle logiche inferenze capaci di testare la bontà di un risultato indiziario, quell'episodio potrebbe indurre ad una opposta deduzione: confidando nel fatto che V.M., morendo, non avrebbe potuto più dichiarare altrimenti, il tentativo di occultare la verità dei fatti doveva necessariamente comportare la ricerca della complicità del Dott. Ma., che restava a quel punto unica fonte di prova, almeno per questa parte, di quanto accaduto, fatta eccezione ovviamente dei familiari di C.A. che però si erano già mostrati assolutamente disponibili a fornire versioni di comodo" (pag. 28 della sentenza rescindente). Ne' può avere rilevanza, come sostiene la difesa, che C.F. e P.M. abbiano rivelato l'accaduto ai genitori di V.M. quando si trovavano al P.I.T. e che, comunque, v'era stata la confessione di C.A. prima dell'intervenuto decesso. Tali argomentazioni sono fuorvianti, essendo finalizzate a spostare l'attenzione sulla circostanza che l'evento non avrebbe in ogni caso potuto essere occultato, atteso che, se anche il medico avesse acconsentito alla richiesta di C., questo non sarebbe potuto certamente accadere con i V. (si veda pag. 32 del ricorso proposto nell'interesse di C.A.). E' del tutto evidente, infatti, che non deve venire in rilievo la finalità di occultare l'evento ma la considerazione ex ante della sua rappresentazione e dell'adesione psicologica ad esso. Una circostanza è certa: C.A. evitò consapevolmente e reiteratamente (come si vedrà, anche determinando le condotte dei suoi familiari nello stesso senso) di osservare l'unica possibile condotta doverosa imposta dal ferimento di V.M. con un colpo di arma da fuoco, ovvero l'immediata chiamata dei soccorsi e la necessaria corretta informazione su quanto realmente accaduto. Non v'e' dubbio infatti, alla stregua delle risultanze processuali, che, "ove si fosse saputo subito che il ragazzo era stato attinto da un colpo da arma da fuoco, i soccorsi attivati sarebbero stati ben diversi poiché l'operatore del 118 avrebbe attribuito all'evento un "codice rosso", preavvertendo le strutture mediche in grado di intervenire nell'immediatezza. Quindi non sarebbe stata inviata una ambulanza con a bordo solamente un paramedico e un portantino ma sarebbe subito partito un elicottero con a bordo personale medico specializzato che avrebbe condotto il ferito presso un DEA di secondo livello, come ad esempio il pronto soccorso del Policlinico (OMISSIS), dove erano sempre disponibili, anche di notte, due rianimatori, un chirurgo toracico e un cardiochirurgo, che ben sarebbero potuti intervenire scongiurando l'evento morte" (pag. 25 della sentenza impugnata). C.A. (e, come di dirà meglio più avanti, i suoi familiari) omise prima, e per un tempo apprezzabile, di chiamare i soccorsi; quando finalmente lo fece, omise di riferire quanto realmente accaduto, sebbene consapevole di aver esploso un colpo di pistola, con un'arma di potenza micidiale, e quindi con chiara rappresentazione della possibile verificazione dell'evento più tragico e, ciononostante, inducendosi ad agire accettando la prospettiva che l'accadimento avesse luogo. Il C. operò in un lungo contesto temporale, che gli consentì ampiamente di considerare le possibili conseguenze della sua condotta, alla realizzazione della quale si determinò nonostante vi fossero tutti gli elementi di allarme derivanti da un ferimento con un'arma da fuoco. Egli, peraltro, si adoperò, con il fattivo aiuto dei suoi familiari, per cancellare le tracce della condotta di ferimento: fece nascondere le armi, le cartucce e il bossolo del proiettile sparato; provvide a cancellare le tracce di sangue; provvide a lavare il V., spostandolo dal luogo del ferimento, nonché a rivestirlo con indumenti non suoi. Il C. ebbe altresì la possibilità di rappresentarsi tutte le conseguenze dannose che possono derivare dallo spostamento di un soggetto ferito; e ciò costituisce patrimonio di conoscenza che non richiede specifiche competenze tecniche. La condotta di C.A. fu dunque non solo assolutamente anti-doverosa ma caratterizzata da pervicacia e spietatezza, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, sicché appare del tutto irragionevole prospettare - come fa la difesa - che egli avesse in cuor suo sperato che V.M. non sarebbe morto. Invero, neppure sono stati allegati aspetti di oggettiva serietà sui quali egli avrebbe potuto fare affidamento, per far sì che la speranza potesse strutturarsi in una convinzione di buona fede che la morte non si sarebbe verificata. Pertanto, del tutto irrilevanti devono ritenersi le deduzioni difensive sulla cd. pauci - sintomaticità della ferita: C. era ben consapevole di aver colpito V.M. con un'arma da fuoco e della distanza minima dalla quale il colpo era stato esploso; era inoltre consapevole che il proiettile era rimasto all'interno del corpo del V., come gli aveva fatto notare anche il figlio F. dopo il ritrovamento del bossolo. E, sebbene la ferita avesse smesso di sanguinare dopo essere stata tamponata, egli ha necessariamente immaginato rappresentandosi e, nonostante ciò, accettando il verificarsi dell'evento - che quel proiettile potesse essere causa di una emorragia interna. La difesa ha insistito sulla circostanza della straordinaria traiettoria del proiettile e, quindi, sul fatto che non sarebbe stato possibile immaginare che esso avesse potuto attraversare la spalla e tutto il torace del ragazzo, provocandone poi la morte. Il dato appare del tutto inconferente quanto alla configurabilità del dolo eventuale, proprio tenuto conto del fatto che il C., anche in ragione del lavoro svolto, fosse pienamente consapevole delle potenzialità delle armi da fuoco, peraltro di significativa potenza esplosiva, come quella utilizzata per ferire V.M.. Ma si ribadisce che le competenze tecniche nella specie assumono davvero poca rilevanza: come si dirà anche più avanti, trattando della posizione dei familiari del C., proprio la mancanza di specifiche competenze mediche avrebbe dovuto indurre i soggetti che assunsero la posizione di garanti del bene vita del V. a rappresentarsi l'evento morte. Il V. non si era ferito con un "pettine a punta", né con un'arma da taglio. Il suo corpo era stato attinto da un proiettile, sparato a breve distanza; in conseguenza del ferimento il V. aveva mostrato un progressivo peggioramento delle condizioni fisiche, come dimostrato dalle sue urla per il dolore e dal fatto che aveva perso anche coscienza (si veda la prima telefonata fatta al 118 e quanto riferito da C.F. alla operatrice sanitaria sul fatto che addirittura il ragazzo non respirasse più); comunque non era stato trovato il foro di uscita del proiettile. E la "straordinarietà della traiettoria" sta solo nel fatto che il proiettile non aveva danneggiato "né le valvole atrioventricolari né il sistema di trasmissione elettrica degli impulsi cardiaci, per cui il cuore aveva continuato a lungo a battere" (si veda pag. 2 della sentenza di primo grado, richiamata da quella qui in esame a pag. 22), ma ciò non significa che non ci si dovesse rappresentare la circostanza che quel proiettile, trattenuto nel corpo di V., avesse potuto attingere altri organi e provocare un'emorragia interna. Nella sentenza impugnata non si sono affatto ignorati i dati relativi agli accertamenti tecnici eseguiti: "... I periti hanno osservato che il tramite intracardiaco percorso dal proiettile non aveva danneggiato né le valvole atrioventricolari né il sistema di trasmissione elettrica degli impulsi cardiaci, per cui il cuore aveva continuato a lungo a battere, determinando la fuoruscita di sangue dalle soluzioni di continuo dei tessuti polmonari e cardiaci e, quindi, uno shock emorragico come causa di morte. All'apertura del torace, in sede di autopsia, era stato infatti accertato un emotorace massivo, con presenza di 3.050 c.c. di sangue a destra e 3.000 a sinistra, ovvero circa sei litri di sangue, contenenti anche dei coaguli, indicativi dell'attivazione del meccanismo della coagulazione e, perciò, della permanenza in vita del ferito per un significativo lasso di tempo. Sia i consulenti del P.M. che quelli nominati dalla Corte di Assise di primo grado affermavano che la causa del decesso non era stata una lesione d'organo bensì la protratta emorragia che aveva determinato lo shock volemico letale, aggiungendo che, se i soccorsi fossero stati tempestivamente e correttamente attivati, il V. si sarebbe potuto salvare mentre la cognizione del vero motivo della lesione riscontrata su di lui era avvenuta con un ritardo quantificabile in 110 minuti" (pag. 22 della sentenza in esame). 7.5. Sotto altro profilo, deve ritenersi altamente indiziante, ai fini della corretta configurabilità dell'elemento soggettivo, il comportamento mendace del C., segnato da una linea di continuità assolutamente omogenea con la condotta tenuta immediatamente dopo il ferimento. Condivisibilmente, la sentenza rescindente prima e la sentenza qui in esame hanno evidenziato che la persistenza e la pervicacia nel mendacio non consentono di apprezzare quello scarto nell'atteggiamento psicologico su cui ragionevolmente fondare il convincimento che l'evento morte in qualche modo colse di sorpresa C.A., ove si supponga che avesse maturato il convincimento che non si sarebbe verificato. 7.6. Quanto infine all'indicatore del giudizio controfattuale di cui alla c.d. formula di Frank, la Corte territoriale ha corretto i vizi motivazionali della prima sentenza di appello, come censurati dalla pronunzia rescindente, evidenziando che la morte di V. non avrebbe rivelato nulla più di quanto lo stesso fatto del ferimento era capace di significare, ossia che la vittima era stata colpita da un colpo d'arma da fuoco, esploso proprio dalla pistola detenuta da C.A.. Insomma, ancora una volta risulta del tutto infondato l'assunto difensivo secondo il quale C.A. e, come si dirà meglio più avanti, i suoi familiari si sarebbero trattenuti dalla condotta illecita, se avessero avuto certezza della verificazione dell'evento. Ne' va trascurato quanto condivisibilmente già affermato nella sentenza rescindente: la formula di Frank non è uno strumento affidabile di indagine quando il caso da esaminare si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l'autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano. L'evento collaterale è infatti, in tale ipotesi, in relazione di incompatibilità con il fine perseguito dall'agente. Insomma, anche nell'ipotesi in cui la verificazione dell'evento collaterale rappresenti il fallimento del piano, non può escludersi che l'agente abbia operato una consapevole opzione, accettando la verificazione dell'evento. Può infatti accadere che nell'agente prevalga la speranza, il desiderio di realizzare un certo risultato anche di fronte all'eventualità che proprio quella condotta renda definitivamente non realizzabile il risultato perseguito. D'altronde, non è senza rilievo che nel caso di specie i giudici di merito si siano trovati ad operare in una difficile situazione di accertamento dei fatti, giacché il comportamento degli imputati è stato - come si è detto - pervicacemente omissivo e ostinatamente mendace. Essi, infatti, come si è più volte sottolineato, hanno operato in maniera tale da sviare una approfondita verifica di quanto realmente accaduto, non solo adoperandosi subito dopo il ferimento di V. per cancellare alcune tracce del sinistro ma anche, successivamente, cercando di accordarsi su una versione dei fatti non veritiera. Viene allora in rilievo quanto evidenziato dalle Sezioni Unite, secondo cui il giudizio controfattuale è esperibile solo quando si dispone di informazioni altamente affidabili, che consentano di rispondere con sicurezza alla domanda su quel che avrebbe fatto l'agente se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell'evento illecito collaterale. "Occorre però realisticamente prendere atto che tale situazione non sempre si verifica. In molte situazioni il dubbio rimane irrisolto. Vi sono casi in cui neppure l'interessato saprebbe rispondere ad una domanda del genere. Allora, guardando le cose con il consueto, sensato realismo della giurisprudenza, occorre ritenere che la formula in questione costituisca un indicatore importante ed anzi sostanzialmente risolutivo quando si abbia modo di esperire in modo affidabile e concludente il relativo controfattuale. L'accertamento del dolo eventuale, tuttavia, non può essere affidato solo a tale strumento euristico; ma deve avvalersi di tutti i possibili, alternativi strumenti d'indagine" (così in motivazione la più volte citata sentenza n. 38343 del 24/04/2014). 8. (segue) L'elemento soggettivo - La posizione degli imputati P.M., F. e C.M.. Passando all'esame dell'elemento soggettivo configurabile in capo agli imputati P.M., F. e C.M., va ribadito che la sentenza rescindente ha annullato per vizi motivazionali anche la decisione di conferma della condanna di primo grado, pronunciata nei confronti dei suddetti imputati con riconoscimento del profilo colposo. 8.1. Nelle prime due sentenze di merito si era affermato che: non era stato accertato se essi ebbero consapevolezza circa la natura del colpo esploso, giacché furono rassicurati da C.A. circa il fatto che non si era verificato nulla di grave; e comunque si trovarono di fronte ad una ferita dalle caratteristiche peculiari per la particolare carenza di segni esterni. Si era, però, ritenuto che, almeno da un certo momento successivo all'avvenuto ferimento, essi ebbero conoscenza di quanto accaduto e, quindi, tennero "un comportamento negligente e imprudente, e lesivo del neminem laedere e della posizione di garanzia che erano venuti ad occupare" (pag. 52 della sentenza del 29 gennaio 2019). 8.2. Come si è già evidenziato (par. 6), nella pronunzia impugnata le indicazioni contenute nella sentenza rescindente in relazione all'elemento soggettivo sono state trattate in un unico paragrafo, nel quale oltre a tutte le valutazioni generali in ordine alla sussistenza degli indicatori rivelatori della sussistenza del dolo eventuale, sono state analizzate singolarmente anche le condotte della P. e dei fratelli C. (pagg. 65 - 69 della sentenza impugnata). Si è in particolare affermato: ".... Dal momento in cui venne C.M. assistette al ferimento e C.F. e P.M. percepirono lo sparo, viste le condizioni in cui versava V.M., mettendo da parte la loro versione sul credere alle sciocchezze che raccontava loro il padre, soprattutto dopo avere assistito al ferimento, sentito l'esplosione, visto il sangue e la pistola per terra, assunsero, come ha ritenuto la Suprema Corte nella sentenza di annullamento, una precisa posizione di garanzia nei confronti del V., per cui anche su di loro gravava l'obbligo di assicurare al ferito i migliori e più urgenti soccorsi. Ed invece, dal momento in cui si recarono nel bagno e videro quanto successo non si attivarono per aiutare effettivamente M., limitandosi a collaborare con il padre nelle sue azioni: trasportarono il ferito in altra camera, lo vestirono con della biancheria, ispezionarono la zona della ferita alla ricerca del foro di uscita, provvidero a tamponare il sangue con asciugamani e a pulire quello per terra con degli strofinacci, intimarono più volte al V. di non urlare, rimossero la pistola ed il bossolo dal bagno ed effettuarono, almeno il F., una telefonata al 118 che per il suo contenuto deve ritenersi del tutto inutile". Quanto alla specifica condotta di C.F., la Corte territoriale ha sottolineato quanto segue: "Accorre subito in bagno non appena sentito il rumore. La visione di M. nelle condizioni in cui si trova gli fa sorgere dei dubbi sulla gravità di quanto accaduto e non è un caso che sia il primo a togliere le armi dal bagno e a portarle in altro luogo dopo averle messe in sicurezza, e, di iniziativa, a chiamare la prima volta il 118; si reca dopo in bagno e rinviene il bossolo che reca subito al padre il quale immediatamente alza il braccio di M. per cercare di capire la traiettoria del proiettile; sollecita di nuovo il padre a chiamare il 118 cosa che avviene; si reca fuori ad aspettare l'ambulanza, spostando la macchina del padre per consentirle l'ingresso nello scarrozzo della villetta, apprende solo in seguito mentre si reca con il padre al pronto soccorso che egli si era inventato la scusa del pettine a punta. Peccato, però, che contro di lui militano i seguenti elementi: afferma di avere sentito un forte rumore ma non tanto da farlo subito intervenire pur precisando che ha avuto modo già di sentire l'esplosione di colpi di arma da fuoco all'aperto; sia sulla pistola che sul bossolo non vengono trovate tracce di impronte papillari utili per cui qualcuno le ha pulite attentamente ed è lui che si è preoccupato di portare le armi ed il bossolo dal bagno alla sua camera da letto; nel corso della telefonata al 118 afferma che un ragazzo si è sentito male a seguito di uno scherzo ma ignora quale perché lui non c'era; nell'invitare il padre a chiamare nuovamente il 118 dichiara di ignorare cosa il padre abbia raccontato all'operatrice; l'infermiera B., che non ha sicuramente motivo di affermare cose non vere, dichiara di averlo incontrato insieme al padre sulla soglia di ingresso dell'abitazione e in quella occasione il C.A. aveva ripetuto la versione dello svenimento a seguito del buchino procuratosi scivolando su di un pettine a punta; concorda con il padre, nella sala di attesa dei Carabinieri, la versione da fornire su dove si trovassero le armi, su chi le abbia rimosse e dove si trovasse il bossolo. Di fatto, quindi, non interviene con una condotta effettivamente di aiuto al V.M., contribuendo a depistare i soccorsi tacendo sul reale motivo del suo stato di malessere e sulla sua gravità. (...) C.F. ha frequentato per tre anni la Accademia Militare della (OMISSIS) e ha dimostrato di essere perfettamente a conoscenza del meccanismo delle armi corte, pur avendo dichiarato di avere sparato solo con il fucile, tant'e' che parla di "messa in sicurezza delle armi" che è uno dei primi principi che ti inculcano quando maneggi armi da sparo, e che significa scaricare l'arma controllando che non sia rimasto un proiettile in camera di scoppio; conosce il rumore che produce una esplosione di colpo di arma da fuoco per averla sentita all'aperto e non può averla certamente confuso con altro rumore; sa che se trova un bossolo vuol dire che è stato esploso un colpo d'arma da fuoco con conseguente uscita di un proiettile che provoca un foro di ingresso a cui dovrebbe normalmente corrispondere un foro di uscita; sa quanto siano importanti le impronte digitali tant'e' che l'arma e il bossolo vengono puliti per bene". In relazione alla condotta tenuta da C.M. si legge nella sentenza: "....e' in bagno ed assiste all'esplosione del colpo di arma da fuoco da parte del padre nei confronti di M., quindi, ha sentito la forte esplosione, la reazione di M. al ferimento e la fuoriuscita di sangue per cui non può ignorare cosa sia successo; eppure, invece di intervenire per aiutare quello che sino a pochi minuti prima è stato il suo fidanzato, aiuta il padre a depistare le indagini, contribuendo ad avvalorare le versioni da lui fornite, prima a mezzo di F., poi direttamente al 118; si preoccupa di procurare a M. dei vestiti che non sono i suoi e ad asciugargli i capelli; lo tacita più volte per evitare che urli e continua ad affermare anche successivamente che non di urla si trattava ma di semplici lamenti e ciò nonostante quanto sia dato percepire direttamente dall'ascolto delle telefonate e dalle dichiarazioni dei vicini L.; alla domanda rivoltale dall'infermiera B. che la incrocia dinanzi alle scale che conducono all'appartamento su cosa sia successo risponde che non lo sa perché non era presente, passando da una condotta passiva consistita nel tacere ad una attiva consistita nel fornire false informazioni sulla sua presenza in modo da non dovere raccontare la verità ma continuando a sostenere le fantasiose versioni del padre; assiste alla conversazione che intercorre tra G.V. e C.F. soprattutto nella parte in cui la prima afferma di avere parato il culo del fratello per quanto concerne le pistole; nega di avere visto il rigonfiamento prodotto dall'ogiva sotto il seno sinistro di M., come da lei stesso riferito nel corso delle intercettazioni, affermando, anche successivamente, di averlo appreso dal Mar. I., comandante la Stazione di (OMISSIS), mentre il pubblico ufficiale ha negato tale circostanza. (...) M. C. ha assistito all'esplosione del colpo di arma da fuoco e ne ha visto le immediate conseguenze e risulta avere frequentato, al momento del fatto, il primo anno del corso per infermiere professionali.". Quanto alla P., la Corte territoriale ha effettuato i seguenti rilievi: "....non si preoccupa di far nulla per effettivamente aiutare V.M., pur avendo sentito l'esplosione del colpo, avere visto M.sanguinare e averlo sentito urlare dal dolore, ponendosi quale unica preoccupazione quella di riprenderlo in maniera decisa per farlo tacere e di tenergli le gambe alzate; interrompe la prima telefonata al 118 nel momento in cui viene invitata a ciò dal marito; è presente nel momento in cui l'infermiera B. chiede ad C.A. che cosa sia successo ricevendone una risposta dal contenuto falso e continua ad essere presente nei successivi venti minuti in cui la B. continua a cercare di capire perché il V. stia così male; mente ai genitori di V.M. allorché li chiama una prima volta per dire loro che M. si è fatto un po' male cadendo per le scale e che quindi rimarrà da loro e una seconda volta quando li richiama per avvertirli di recarsi al PIT senza specificare che cosa sia successo. (...) La signora P.M. afferma di non sapere nulla delle armi da fuoco e probabilmente avrebbe pure dichiarato di non avere mai assistito alla proiezione di un film in cui vi sono delle sparatorie ovvero letto in tutti gli anni della sua vita la cronaca nera o giudiziaria e avere sentito parlare di lesioni cagionate da un proiettile; non poco rileva, poi, che sia moglie di un militare di carriera e madre di un giovane che ha frequentato l'accademia militare per tre anni". Sulla base di tutti gli altri elementi di fatto già sopra riportati analizzando la posizione di C.A., la Corte territoriale ha concluso con l'affermazione di responsabilità degli imputati F. e C.M., nonché di P.M. per concorso nel reato di omicidio volontario, sebbene abbia poi erroneamente - per quanto si dirà più avanti - ritenuto applicabile l'art. 116 c.p.. 8.3. Alla stregua della prospettata ricostruzione in fatto, correttamente la Corte territoriale ha inquadrato le condotte dei fratelli C. e della P. nella fattispecie del concorso ex art. 110 c.p.. La Corte territoriale ha ben spiegato, analizzando le risultanze processuali, come tutti gli imputati avessero tempestiva cognizione che era stato sparato un colpo di pistola, oltre che per il rumore avvertito, pure per il bossolo che C.F. rinvenne subito, dandone immediatamente comunicazione agli altri, come del resto confermato dagli stessi ricorrenti nei loro interrogatori (si veda sul punto quanto dettagliatamente riportato nella sentenza in esame: pagg. 26 e ss.). D'altronde, la credibilità della versione del colpo a salve o del colpo d'aria è smentita dalla pacifica circostanza del sanguinamento della ferita, anche se in misura modesta. Sul punto va detto che è fondato il rilievo difensivo relativo al travisamento della prova (quinto motivo dell'atto di ricorso proposto nell'interesse del solo C.F.) contenuto nella sentenza in esame nella parte in cui ha erroneamente riportato le dichiarazioni della G. in sede di interrogatorio. Si tratta tuttavia di un dato irrilevante, giacché è pacifico che l'ispezione eseguita, subito dopo il decesso di V.M., nell'abitazione della famiglia C. condusse comunque al rinvenimento di tracce di sangue all'ingresso, di uno strofinaccio e di un asciugamano sporchi di sangue, oltre che di un secondo asciugamano e di un accappatoio, entrambi sporchi di sangue. Ed è altrettanto incontroverso, sempre sulla base della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, che macchie del sangue di V.M. furono trovate sui pantaloni di C.A., nonché sui pantaloni e sulla canottiera di C.M.. Altro dato rilevante, a confutazione delle tesi difensive, è il fatto che fu C.F. ad effettuare, alla presenza della madre P.M., un esame esterno del corpo di V.M., per cercare il foro di uscita del proiettile. Insomma, tutti si preoccuparono subito della presenza del proiettile ancora nel corpo di V.; tutti ebbero immediata cognizione di tale circostanza e tuttavia nessuno si attivò per allertare tempestivamente i soccorsi, fornendo le informazioni necessarie a garantire cure adeguate al ragazzo ospitato nella loro abitazione e che, sino a quella sera, avevano trattato come una persona di famiglia. Eppure, il V. si era lamentato per il dolore, aveva invocato aiuto; e lo aveva fatto in modo talmente forte che le sue urla erano state distintamente avvertite dai vicini di casa e registrate nelle conversazioni telefoniche con gli operatori del 118 (si veda anche quanto riportato a pag. 24 della sentenza in esame). Pertanto, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che i dati di pregnanza indiziaria per la ricostruzione dell'elemento soggettivo a carico di tutti gli imputati militino per la configurabilità del concorso nell'omicidio con dolo eventuale, essendo del tutto inverosimile che la P., F. e C.M. potessero credere anche all'ulteriore mendacio che caratterizzò la condotta di C.A., quando finalmente chiamò il 118 riferendo tuttavia che la ferita era stata provocata da un pettine a punta su cui V.M. era scivolato. Ancora di più in quel momento essi ebbero piena cognizione della gravità di quanto stava accadendo, con un padre evidentemente impegnato, in maniera pervicace e crudele, a ritardare un intervento di soccorso che potesse risultare adeguato per salvare la vita di V.. Essi rimasero ancora una volta inerti, non assumendo alcuna fattiva iniziativa per aiutare la persona offesa. Non si attivarono finanche nel riferire subito ai genitori di V. quanto fosse accaduto. Come si è visto, i giudici di merito hanno accertato che la P. li chiamò una prima volta per dire loro che M. si era fatto "un po' male", cadendo per le scale, e una seconda volta solo per avvertirli di recarsi al P.I.T., senza specificare che cosa fosse successo. In proposito, le difese hanno valorizzato il fatto che C.F. e la P. avessero riferito del colpo di pistola ai V. una volta che questi erano giunti al Posto di Primo intervento di (OMISSIS). Tanto avvenne, però, quando oramai la situazione era precipitata e i genitori di V. non potevano più adoperarsi in maniera utile per salvare il figlio, che sino ad allora sapevano "affidato" alla ospitalità della famiglia della fidanzata. Peraltro, come si è già rilevato sopra (par. 7.4), il riferimento alle tardive rivelazioni dell'accaduto ai genitori di V. risulta fuorviante nella lettura degli elementi relativi al dolo, essendo finalizzato a spostare l'attenzione sulla circostanza che l'evento non avrebbe in ogni caso potuto essere occultato. Si ribadisce, infatti, che non deve venire in rilievo la finalità di occultare l'evento morte ma la considerazione ex ante della possibilità della sua rappresentazione e dell'adesione psicologica ad esso. 8.4. A fronte delle suddette risultanze, infondato deve ritenersi anche l'assunto difensivo secondo il quale non sarebbe sufficientemente certo nell'an e nel quando che i fratelli C. e la P. si siano rappresentati la possibilità dell'evento mortale e, nonostante ciò, vi abbiano prestato adesione per il caso che esso si fosse verificato quale conseguenza, ovviamente non direttamente voluta, delle proprie condotte. Nella ricostruzione dei fatti la sentenza impugnata ha fornito una chiara e logica risposta ai dubbi sollevati dalle difese (pag. 19 e ss. della sentenza in esame). Come si è già evidenziato, dal momento in cui avvertirono il rumore dello sparo tutti i familiari di C.A. lo aiutarono nella gestione dell'incidente, rendendosi subito conto della gravità di quanto accaduto. Si adoperarono per lavare V., per asciugargli i capelli, lo trasportarono in altra camera e lì lo vestirono con biancheria e abiti "comodi" procurati da M.; ispezionarono il corpo di V. alla vana ricerca del foro di uscita del proiettile; provvidero a tamponare la ferita con asciugamani e a ripulire le macchie di sangue; nascosero la pistola e il bossolo. Insomma, le condotte poste in essere dagli imputati successivamente all'esplosione del colpo dimostrano che questi ebbero subito chiara la drammaticità della situazione, non essendo affatto necessario (come si è annotato già sopra, trattando della posizione di C.A.: par. 7.4.) possedere particolari competenze mediche o balistiche per comprendere che una ferita provocata a breve distanza da un'arma da fuoco, con un proiettile trattenuto nel corpo della vittima, possa avere conseguenze letali. Tali circostanze fattuali, chiaramente evidenziate dai giudici di merito, consentivano senz'altro a chiunque fosse fornito di senso e conoscenza del tutto comuni di prevedere l'esito infausto della ferita riportata dal V.; ciò anche in base alla regola di esperienza secondo cui uno sparo da distanza ravvicinata, il mancato rinvenimento del foro di uscita del proiettile, la presenza di sangue, l'evidente sofferenza della persona offesa, il trascorrere di un lungo lasso di tempo tra il ferimento e l'intervento dei soccorsi sono elementi tali da far ritenere altamente probabile la verificazione dell'evento morte, senza che sia necessario, allo scopo della relativa rappresentazione, possedere una laurea in medicina o specifiche conoscenze in materia di armi. Di contro, si ribadisce che proprio l'assenza di competenze mediche in capo ai soggetti presenti sul luogo dell'incidente avrebbe dovuto indurli, nell'incapacità di formulare una diagnosi e di porre in essere in prima persona un intervento salvifico, ad allertare tempestivamente i soccorsi e a fornire ai sanitari le opportune informazioni sull'accaduto. 8.5. Tutto ciò, però, gli imputati non fecero, assistendo inoperosi al progressivo e inesorabile peggioramento delle condizioni di salute di V.. Essi si determinarono a chiamare il numero telefonico 118 per richiedere i soccorsi solo venticinque minuti dopo lo sparo. Ad effettuare la telefonata fu C.F., il quale, sebbene avesse mostrato di essere consapevole del fatto che V. stesse molto male (dicendo "c'e' un ragazzo che si è sentito male di botto, è diventato troppo bianco, non respira più" - pag. 23 della sentenza in esame), non rispose in maniera veritiera alle domande rivoltegli dall'interlocutore su quanto fosse accaduto. Neppure disse che era stato sparato un colpo a salve o un colpo d'aria, come il padre gli avrebbe riferito. Tentennò, rispondendo che non sapeva spiegare e facendo riferimento ad uno "scherzo", che aveva provocato un forte spavento e, addirittura, aveva tolto il respiro alla persona offesa. Intervenne poi la P., mentendo ancora in maniera evidente, per poi subito dopo, sollecitata dalle parole del marito, interrompere la chiamata, riferendo che non serviva più alcun intervento (pag. 23 della sentenza in esame). Essi si acquietarono ancora, sollecitati da quel capofamiglia che aveva deciso l'inutilità di un intervento tempestivo di competenti soccorritori. Insomma, sia C.F. (all'epoca dei fatti ultraventenne) sia P.M. (donna e madre, ultracinquantenne), sebbene in quel momento fossero consapevoli della gravità della situazione e delle condizioni terribili di sofferenza in cui versava V. (il quale, secondo la loro versione, addirittura non respirava più), non riferirono dell'incidente con l'arma e prestarono acquiescenza alla decisione del padre in ordine alla superfluità dei soccorsi. E così fece C.M., sebbene il fidanzato stesse malissimo e chiedesse disperatamente di aiutarlo. Il comportamento menzognero e reticente dei suddetti imputati è elemento sintomatico dell'atteggiamento psicologico di questi ultimi, obiettivamente incompatibile con una condotta colposa. E tale comportamento si protrasse anche dopo l'arrivo dell'ambulanza: all'infermiera B. - le cui dichiarazioni sono state confermate da quelle dell'autista Ca. (si veda in particolare pag. 24 della sentenza in esame) - M. disse di non sapere cosa fosse successo, perché lei non era stata presente; F. non disse nulla, mentre il padre si limitava a riferire "guardi c'e' un ragazzo che è un po' svenuto...e' stato preso da un attacco di panico, c'ha avuto una crisi d'ansia"; anche la P. omise di riferire quanto realmente accaduto, sebbene tenesse le gambe del V. alzate, mentre il suo corpo era steso per terra nell'androne di casa. Tutto ciò provocò un ulteriore decisivo ritardo nei soccorsi; si legge nella sentenza in esame che la B. riferì che "alle sue domande senza risposta rivolte a V.M. aveva risposto ancora una volta C.A. ribadendo la tesi della caduta nella vasca e del buco fattosi con un pettine a punta; la B. sollevava una manica della maglietta indossata dal ragazzo e si avvedeva dell'esistenza di un buco come di una bruciatura di sigaretta, sennonché dopo 15/20 minuti (quindi, verso le ore 00.36 circa) visto che il giovane non si riprendeva avevano deciso di trasportarlo al P.I.T. dove giungevano intorno alle ore 00,30 circa" (pag. 24 della sentenza in esame). Insomma, tutti, di fronte alla vaga, generica e fuorviante indicazione fornita alla B. da C.A., optarono ancora una volta per una condotta omissiva, durata ben 15 - 20 minuti, non intervenendo per correggere le mendaci informazioni rese in merito all'accaduto. Preferirono non parlare delle cause della ferita, del sangue che avevano provveduto a ripulire e del fatto che avevano lavato e spostato il corpo del V. dal luogo in cui era stato attinto dal colpo di pistola. Essi, dunque, scelsero di non fare alcunché che potesse essere utile per scongiurare la morte, non solo rappresentandosi tale evento ma accettando la sua verificazione, all'esito di un infausto bilanciamento tra il bene della vita di V. e l'obiettivo avuto di mira, ovvero evitare che emergesse la verità su quanto realmente accaduto. E che la preoccupazione della famiglia C. fosse incentrata esclusivamente sulle conseguenze dannose, derivanti dalla situazione che era venuta a crearsi, lo si evince dal contegno tenuto da tutti gli imputati anche dopo aver appreso della morte di V.. Le risultanze delle intercettazioni ambientali acquisite restituiscono un quadro illuminante sulla configurabilità del concorso doloso, giacché A., F. e C.M. hanno pacificamente tentato di addivenire ad una versione concordata circa le pistole, su dove si trovassero, su chi le avesse prese e tolte dal bagno (pag. 37 e ss. della sentenza in esame). Ancora una volta deve rilevarsi che tale comportamento è radicalmente incompatibile con l'elemento soggettivo della colpa. 8.6. La Corte territoriale, poi, ha ampiamente dato conto delle contraddizioni emerse nelle versioni degli imputati, rese anche in tempi diversi. Scrivono, per esempio, i giudici di merito: "E' del pari difficile credere alle interpretazioni assolutamente senza senso fornite in ordine al contenuto di alcune delle conversazioni intercettate ambientalmente, essendo palese la volontà di continuare a fornire una tesi precostituita e concordata: si pensi ad esempio alla descrizione fatta in due momenti da parte di C.M. sia del ferimento di V.M. che dell'evidenza dell'ogiva del proiettile sul corpo dello stesso, indicata come rilevabile già nella vasca da bagno, riferendo quale giustificazione "l'assurdità" di tutte le affermazioni non spiegabili diversamente pronunziate nel corso della conversazione intercettata ambientalmente, e la circostanza che tali spiegazioni, soprattutto quella concernente la posizione dell'ogiva, erano state loro riferite dal Mar. I. (Comandante della Stazione c.c. di (OMISSIS) che tale circostanza ha sempre negato) tempo dopo il decesso di V.M. ovvero dalle descrizioni fatte dallo stesso C.A., dimenticando che le conversazioni intercettate non avvengono come erroneamente ritenuto dalla Corte di Assise di primo grado il (OMISSIS) 2015, a distanza, quindi, di quattro giorni dall'evento, ma bensì dalle ore 16,30 alle ore 20,30 del 18.5.2015 e, quindi, a poche ore dallo stesso" (pag. 34 della sentenza in esame). Correttamente dunque la sentenza ha evidenziato che, "ove si abbia riguardo: alle spiegazioni inverosimili degli atteggiamenti da loro assunti, che in taluni momenti rasentano una vera e propria crudeltà nei confronti di un ragazzo ferito che urla di dolore e viene rimproverato per questo motivo, un ragazzo che è stato ed è il fidanzato di M. e che il C. afferma di tenerlo in considerazione come un figlio; ai depistamenti (pulizia delle superfici delle pistole e del bossolo; pulitura delle tracce di sangue, soprattutto nel luogo dove asseritamente era avvenuto il ferimento; ripetute menzogne rivolte per circa 110 minuti ai soccorritori sia prima del loro intervento che al momento che dopo; all'accordo che tentano di raggiungere tra loro su quanto dichiarare, si deve lecitamente ipotizzare che la scelta di un comportamento di un certo tipo fu del capo famiglia e cioè C.A. al quale tutti aderirono consapevolmente pur non potendosi non rendere conto delle conseguenze che avrebbe avuto lo stesso, accettandone il rischio e le conseguenze e avendo il tempo (110 minuti) per concordare una versione da fornire coralmente agli investigatori e che vedeva come primo obiettivo la possibilità a) di far passare sotto silenzio l'accaduto (intervento di C.A. sul Dott. Ma.), b) far credere ad un incidente non voluto, c) in ultima analisi, pervenire ad una ipotesi di omicidio colposo. D'altronde, l'ipotesi diversa non regge sia per il grado di istruzione dei soggetti coinvolti sia perché basta aver riguardo alle tabelle utilizzate dall'INAIL per la valutazione del danno fisico a seguito di rumori per scoprire che il colpo di arma da fuoco è pari a 110 decibel (non per niente al poligono di tiro, anche all'aperto, occorre indossare le cuffie di protezione) ed è classificato come secondo rumore maggiormente invasivo dopo quello del martello pneumatico che ha un valore di 150 decibel. Per intenderci, la conversazione normale tra soggetti nella stessa casa produce un rumore di valore 40/50 decibel, mentre se le persone si urlano contro il valore può arrivare a 70 decibel. Ed allora, è da chiedersi come sia possibile che il rumore prodotto da un colpo di arma da fuoco cal.9 mm, soprattutto in un ambiente ristretto come è quello del bagno di casa C., e simile certamente ad un esplosione (percepita anche dai vicini di casa) venga da tutti colto come "un tonfo", come il rumore di un oggetto che cade e soprattutto, una volta sentita l'esplosione, accertato che M. risulta ferito e viste le pistole in bagno, qualcuno di media intelligenza possa credere alla versione del "colpo d'aria" propinata a dire di tutti da C.A., "colpo di aria" che però diventa poi un buco procuratosi con un pettine a punta Se uno ha voglia di fare una ricerca su INTERNET, inserendo le parole "colpo d'aria" si ottiene come risultato quello di un modo profano per descrivere una infreddatura dovuta all'esposizione ad agenti atmosferici nocivi" (pagg. 48 - 49 della sentenza impugnata). 8.7. Gli elementi sin qui valorizzati - che indubbiamente restituiscono un quadro composito di condotte di carattere attivo ed omissivo - sono stati correttamente riguardati dalla Corte territoriale come dati comprovanti la sussistenza del dolo eventuale in capo a tutti gli imputati. Questi ultimi, titolari di una posizione di garanzia per le ragioni in precedenza illustrate (parr. 2 - 3 - 4), hanno concorso sia nelle condotte attive di incauto intervento sul corpo del V., sia nel costruire una messa in scena fuorviante, sia nell'omissione di una tempestiva sollecitazione di utili soccorsi; essi dunque hanno realizzato una condotta inibente un intervento salvifico che, a sua volta, avrebbe interrotto il decorso causale lesivo innescato dal ferimento della persona offesa. Tutti hanno consapevolmente violato un "comando", che li obbligava ad intervenire a tutela di un bene giuridico caratterizzato da particolare vulnerabilità, restando inerti a fronte di un fattore di rischio manifestatosi immediatamente nella situazione concreta. Come si è già rilevato, a nulla può valere, in tale contesto, la pretesa incompetenza degli imputati, i quali non sarebbero stati in grado di valutare correttamente le conseguenze dello sparo. Si ribadisce che proprio tale incompetenza ad intervenire adeguatamente su un ferimento con un colpo di pistola avrebbe dovuto indurre i fratelli C. e la P. a rivolgersi ai soggetti in grado di formulare una tempestiva diagnosi per salvare V.. E' peraltro evidente che risulterebbe drasticamente ridotto l'ambito di applicazione della categoria del dolo eventuale, se si ritenesse che esso possa configurarsi esclusivamente in capo a soggetti dotati di competenze specifiche, siano esse mediche o balistiche. 8.8. In ragione di tutte le considerazioni sopra svolte risultano destituite di fondamento le censure difensive secondo le quali nella sentenza impugnata sarebbe stato completamente omesso ogni riferimento alle risultanze tecnico-scientifiche emergenti da tutte le elaborazioni peritali concordemente attestanti la scarsa manifestazione esterna della ferita, l'ingannevolezza della zona attinta dal colpo (il braccio) e l'imprevedibile traiettoria compiuta dal proiettile all'interno del corpo di V.M.. Come si è più volte sottolineato, tali elementi non risultano affatto decisivi per attestare l'errata percezione che i ricorrenti ebbero circa la gravità della ferita subita dalla vittima successivamente allo sparo. D'altronde, come evidenziato dalle stesse difese, i consulenti medico legali del pubblico ministero hanno affermato che le lesioni d'arma da fuoco al torace causano fenomeni emorragici che all'esterno sono evidenti solo in minima parte. La gran parte dell'emorragia avviene a livello interno ed è dunque poco visibile all'esterno. Inoltre, tutti i consulenti hanno concordato sulla ragione della mancata perdita di sangue all'esterno, da imputarsi, subito dopo lo sparo, all'immediata chiusura della ferita. Gli stessi dati menzionati dai ricorrenti attestano inequivocabilmente che; la ferita è stata scarsamente sanguinante all'esterno, ma che comunque essa è stata immediatamente tamponata dagli imputati; l'unico foro presente sul corpo della vittima era quello d'entrata sul braccio, aspetto che avrebbe tratto in inganno gli imputati in ordine alla localizzazione del colpo, senza considerare però che l'arma aveva sparato a distanza ravvicinata; la traiettoria percorsa all'interno del corpo dal proiettile non poteva essere percepita dall'esterno, circostanza ovvia ma per questo ancora più allarmante; l'ogiva era stata visibile sul fianco della vittima solamente al momento del decesso, come risulta del tutto ovvio proprio sulla base della imprevedibilità della traiettoria del proiettile. Insomma, come si è già detto, gli elementi valorizzati dalle difese risultano inconferenti rispetto all'individuazione dell'effettivo grado di rappresentazione ascrivibile agli imputati e alla scelta che essi fecero di ignorare i dati significativi della verificabilità dell'evento morte. In proposito, va evidenziato che il dolo eventuale, pur configurandosi normalmente in relazione all'elemento volitivo, può attenere anche all'elemento intellettivo, quando l'agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento può comportare conseguenze dannose e, ciò nonostante, presti ad esse adesione. D'altronde, nella valutazione dei suddetti dati è errato fare riferimento all'entità del danno concretamente verificatosi quale indice dell'elemento volitivo del dolo, dovendosi invece fare riferimento all'intensità del pericolo derivante dall'omessa adeguata assistenza nelle date condizioni di tempo e di luogo in cui si è verificato il ferimento del soggetto titolare del bene da tutelare. 8.9. Tutto quanto sopra evidenziato consente anche di ritenere manifestamente infondati gli assunti delle difese della P. e dei fratelli C. in ordine alla configurabilità del reato di favoreggiamento personale. Le condotte poste in essere dagli imputati non sono infatti quelle tipiche di un'attività di favoreggiamento compiute nell'interesse del capofamiglia. Come si è visto, essi intervennero con condotte omissive ma anche attive immediatamente dopo il ferimento di V., in quella che è proprio la fase rilevante per configurare il reato di omicidio con dolo eventuale. Essi dunque non agirono "dopo che fu commesso un delitto", come richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 378 c.p., la quale pone un chiaro un limite temporale. Tutti fornirono un apporto partecipativo per la realizzazione del fatto tipico di reato e furono messi in condizioni di dissociarsi dalla determinazione assunta da C.A., non potendo neppure sostenersi che si trattò di una connivenza non punibile, essendo evidente per quanto sopra esposto - che essi intesero partecipare attivamente alla scelta del capo famiglia di non assicurare alla persona offesa soccorsi adeguati. Insomma, ad escludere l'applicabilità dell'art. 378 c.p. nel caso di specie rileva sia la natura concorsuale delle condotte poste in essere dai ricorrenti (pur se variamente qualificate dai giudici di merito), sia la circostanza che l'evento morte non fosse ancora intervenuto nel momento in cui i componenti della famiglia C. realizzavano i comportamenti loro ascritti (omessa attivazione dei soccorsi, occultamento dell'arma e del bossolo, modifiche della scena dove era accaduto il ferimento, reticenze e informazioni svianti rese al personale sanitario). In proposito, questa Corte ha avuto modo di chiarire che l'ipotesi delittuosa del favoreggiamento personale, in forza dell'espressa clausola "fuori dei casi di concorso" contenuta nell'art. 378 c.p., intanto ricorre, in quanto il soggetto non sia stato coinvolto nel reato presupposto né oggettivamente, mediante un apporto materiale alla sua consumazione, né soggettivamente, attraverso la manifestazione, antecedente all'esecuzione del reato, di disponibilità a fornire ausilio al soggetto agente in caso di necessità, così da rafforzarne la determinazione a delinquere (ex pluribus, Sez. 2, Sentenza n. 18376 del 21/03/2013, Rv. 255838; Sez. 6, Sentenza n. 21439 del 18/02/2008, Rv. 240062; Sez. 1, Sentenza n. 33450 del 26/06/2001, Rv. 219892). Allo stesso tempo, si è precisato - coerentemente con il dettato normativo - che il reato di favoreggiamento presuppone l'avvenuta consumazione del reato ascritto al favorito (Sez. F, Sentenza n. 38236 del 03/09/2004, Rv. 229648); in particolare, questa Suprema Corte si è occupata della questione con riferimento ai reati di durata che, proprio per la loro peculiarità, pongono l'interprete nella condizione di dover correttamente qualificare la condotta di chi fornisca aiuto materiale all'autore del reato prima che la condotta criminosa possa dirsi conclusa. In proposito, possono individuarsi due diversi orientamenti: secondo un primo filone interpretativo, più rigoroso, il favoreggiamento può configurarsi solo dopo la cessazione del reato, in quanto qualunque agevolazione del colpevole, posta in essere prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che non sia diversamente previsto - in un concorso nel reato, quanto meno a carattere morale (Sez. U, Sentenza n. 36258 del 24/05/2012, Rv. 253151; Sez. 3, Sentenza n. 364 del 17/09/2019, Rv. 278392; Sez. 4, Sentenza n. 12915 del 08/03/2006, Rv. 233724; Sez. 6, Sentenza n. 4927 del 17/12/2003, Rv. 227986). Secondo un diverso orientamento, il discrimine tra il concorso nel reato e l'autonoma fattispecie di favoreggiamento personale va rintracciato nell'elemento psicologico dell'agente, da valutarsi in concreto, per verificare se l'aiuto da questi consapevolmente prestato ad altro soggetto, che ponga in essere la condotta criminosa costitutiva del reato permanente, sia l'espressione di una partecipazione al reato oppure nasca dall'intenzione - manifestatasi attraverso individuabili modalità pratiche - di realizzare una facilitazione alla cessazione della permanenza del reato (Sez. 4, Sentenza n. 28890 del 11/06/2019, Rv. 276571; Sez. 4, Sentenza n. 6128 del 16/11/2017, Rv. 271968; Sez. 4, Sentenza n. 12793 del 06/02/2007, Rv. 236195). Ad ogni modo, è incontroverso che, per potersi ritenere configurato il reato di favoreggiamento personale, è necessario che la condotta di ausilio non si traduca in alcun modo in un sostegno o incoraggiamento alla prosecuzione dell'attività delittuosa da parte del beneficiario (Sez. 6, Sentenza n. 27720 del 05/03/2013, Rv. 255622). Significativamente, questa Corte ha altresì precisato che l'intervento di un terzo volto a favorire l'autore del reato può dar luogo al reato di favoreggiamento allorché l'aiuto prestato si risolva nella sottrazione alle ricerche e non costituisca un contributo alla perpetuazione della situazione antigiuridica. E' quindi, necessario considerare la direzione in cui si svolge l'azione: da un lato le condotte che danno un contributo al permanere della situazione illecita, dall'altro quelle che sono indirizzate solo nel sottrarre alle indagini l'autore del reato (Sez. 4, Sentenza n. 28890 del 11/06/2019, Rv. 276571, in motivazione). Conclusivamente va rilevato che, poiché l'evento morte non si era ancora verificato nel momento in cui i familiari di Antonio C. ponevano in essere le condotte loro ascritte, il loro apporto non può ricondursi nell'alveo del favoreggiamento personale: esse, infatti, si sono collocate in rapporto causale con il decesso del V. e hanno senz'altro contribuito alla perpetuazione della situazione antigiuridica. 8.10. Infondate devono ritenersi anche le deduzioni difensive che mirano, in via subordinata, alla qualificazione delle condotte ex art. 586 c.p.. I ricorrenti sostengono, infatti, che le condotte di favoreggiamento siano state poste in essere dai tre imputati, non soltanto al fine esclusivo di coprire C.A. - e quindi, comunque, non allo scopo di cagionare la morte del ragazzo - ma anche sulla base di un'evidente sottovalutazione della ferita, che si presentava oggettivamente scarsamente sanguinante, localizzata sul braccio, punto non vitale, nascondendo una traiettoria del proiettile imprevedibile all'esterno, dati che evidenziano la ferma convinzione nei tre ricorrenti di trovarsi di fronte ad una ferita reversibile. A tal proposito, i ricorrenti, dopo aver premesso di non ignorare l'onere di allegazione, gravante sulla difesa, di provare le circostanze attestanti la sussistenza dell'errore sul fatto ex art. 47 c.p., evidenziano che tale onere risulta ampiamente soddisfatto dalle corpose argomentazioni già esposte, che comproverebbero l'indubbia ingannevolezza percettiva sullo stato della ferita che ebbero gli imputati in quei drammatici frangenti trascorsi all'interno dell'abitazione, circostanza che rileva sotto il profilo della ritenuta volontarietà delle condotte contestate, spostando piuttosto l'indice di colpevolezza verso l'area colposa. La configurabilità dell'errore sul fatto sarebbe attestata proprio dalla circostanza per cui l'erronea percezione sulla localizzazione del proiettile, ritenuto situato esclusivamente nel braccio, rafforzata dallo scarso sanguinamento della ferita e dalla non visibilità dell'ogiva, è caduta proprio su un elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 575 c.p., ossia il cagionare la morte, mai prefigurato dagli imputati. Quanto sopra rappresentato realizzerebbe un'ipotesi di concorso di cause indipendenti rispetto alla condotta di C.A. nel reato di omicidio con dolo eventuale, ipotesi non esclusa dalla sentenza di rinvio. Si è già detto dell'irrilevanza della pauci-sintomaticità della ferita sull'elemento soggettivo configurabile in capo agli imputati. Qui va solo aggiunto che non è configurabile l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 586 c.p., invocata dalle difese, per la cui configurabilità è necessario che l'evento lesivo, costituito dalla morte e dalle lesioni, non sia voluto neppure in via indiretta o con dolo eventuale dall'agente, poiché se - come nella specie - l'agente pone in essere la propria condotta pur rappresentandosi la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze di essa e ciononostante accettandone il rischio, egli risponde, in concorso di reati, del delitto inizialmente preso di mira e del delitto realizzato come conseguenza voluta del primo (tra le tante, Sez. 3, n. 31841 del 02/04/2014, Rv. 260291). 9. Il concorso ex art. 110 c.p. degli imputati P.M., F. e C.M.. Sebbene - come si è visto - l'intera motivazione della sentenza impugnata abbia posto in luce che anche i familiari di C.A. agirono con dolo eventuale rispetto all'evento morte, nella parte finale della pronunzia la Corte territoriale ha ritenuto applicabile l'art. 116 c.p., onde differenziare le posizioni a livello sanzionatorio. Tanto ha fatto, molto probabilmente, recependo acriticamente un'indicazione contenuta nella sentenza rescindente. Infatti, in tale ultima pronunzia si legge quanto segue: "Se, invece, si afferma la partecipazione concorsuale nel fatto doloso di uno dei compartecipi, il paradigma normativo a cui fare riferimento è delineato dalla disposizione dell'art. 110 c.p., nel cui ambito l'apprezzamento di diversificazioni dell'elemento soggettivo di taluno dei concorrenti può essere valutato nei limiti posti dall'art. 116" (pag. 40 della sentenza rescindente). 9.1. Secondo la Corte d'Assise d'appello, i familiari di C.A. si erano prospettati un evento meno grave e diverso da quello ravvisato ed accettato da quest'ultimo, cioè quello delle lesioni anche gravi in danno del V.. L'assunto è erroneo. E' noto che i requisiti necessari ai fini dell'applicazione dell'art. 116 c.p. sono individuati nei seguenti termini: la condotta di concorso del concorrente anomalo nel "reato (da lui) voluto"; il dolo del concorrente anomalo rispetto a tale "reato voluto"; la concreta realizzazione, da parte di altro concorrente, di un "reato diverso" rispetto a quello voluto dal concorrente nolente; l'assenza di dolo da parte del concorrente anomalo rispetto a tale "reato diverso"; la necessità che tale "reato diverso" sia coperto dal dolo di almeno uno degli altri concorrenti; il nesso causale tra la condotta del concorrente nolente e il "reato diverso" effettivamente realizzato (Sez. 5, n. 306 del 18/11/2020, Rv. 280489); infine, la prevedibilità del reato diverso, effettivamente realizzato. Orbene, come si è visto, nella vicenda in esame: non è riscontrabile un mutamento nell'agire o nella volontà di C.A. tale che possa ritenersi applicabile l'art. 116 c.p.; non è riscontrabile un reato diverso scaturito dalla deviazione rispetto alla volontà dei compartecipi nolenti; non si verte in un caso in cui i concorrenti sono stati convinti di cooperare nel delitto concordato di lesioni, il quale poi è mutato per opera di un altro concorrente. Non vi e', quindi, alcun mutamento prevedibile della condotta di C.A., la cui colposa mancata previsione possa essere ascritta a titolo di dolo ai familiari concorrenti. Per l'applicazione dell'art. 116 c.p. non basta la volontà dell'evento diverso ma è necessaria la contrapposizione nell'iter criminoso di una variazione del titolo di reato, a causa dell'agire del correo, la quale interviene a mutare l'esito delittuoso che tutti i concorrenti avevano concordato, determinandosi volontariamente e consapevolmente verso uno specifico reato. Anche di recente la Corte Costituzionale si è occupata del concorso anomalo, ribadendo che "l'art. 116 c.p., comma 1, prevede l'ipotesi in cui un concorrente risponde del reato "diverso da quello voluto" e quindi in realtà "non voluto"; non di meno ne risponde perché ha voluto il reato oggetto dell'accordo e il reato diverso da quello voluto è conseguenza della sua azione od omissione. Se si considera la formulazione testuale della norma, il principio della personalità della responsabilità penale appare essere in sofferenza, quanto meno nella misura in cui tale disposizione richiede soltanto che l'evento del reato diverso sia conseguenza dell'azione od omissione del correo, ossia il solo nesso di causalità materiale. Ma alla tenuta costituzionale della norma contribuiscono da una parte l'interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata, accolta fin dalla citata sentenza n. 42 del 1965 e dalla sopra citata giurisprudenza di legittimità, e d'altra parte proprio l'attenuante prevista dall'art. 116 c.p., comma 2, che ha una funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio. Infatti si è già rilevato che, pur mancando il dolo (anzi dovendo escludersi che esso ricorra anche nella forma del dolo eventuale), è però "necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo", ossia "un coefficiente di partecipazione anche psichica": occorre, in altre parole, che "il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell'agente, nell'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza" (sentenza n. 42 del 1965). La giurisprudenza di legittimità, sopra richiamata, ha, poi, chiarito che si tratta di prevedibilità in concreto, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie. Il correo è responsabile per il fatto-reato non voluto, perché avrebbe dovuto prevedere che l'attuazione dell'accordo delittuoso sarebbe potuta sfociare in un reato diverso; mentre - può aggiungersi - la previsione, da parte del correo, dell'evento diverso, con accettazione del rischio che si verifichi, ridonda in dolo eventuale e quindi in responsabilità piena, non diminuita dall'attenuante in esame (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 giugno-30 agosto 1995, n. 9273)" (così in motivazione Corte Cost Sentenza 55/2021). Questa Corte, pure di recente, ha ricordato che l'affermazione di responsabilità per il reato diverso commesso dal concorrente richiede la verifica della sussistenza di un nesso, non solo causale ma anche psicologico, tra la condotta del soggetto che ha voluto soltanto il reato meno grave e l'evento diverso, che si identifica con il coefficiente della colpa in concreto, la cui sussistenza deve essere accertata tenendo conto della personalità dell'esecutore materiale e del contesto fattuale nel quale l'azione si è svolta (Sez. 5, n. 306 del 18/11/2020, Rv. 280489). Tuttavia, per le ragioni sin qui evidenziate, il coefficiente psicologico che ha caratterizzato le condotte tenute dai familiari di C.A. non è riconducibile al paradigma della colpa, in quanto nella situazione concretamente verificatasi innumerevoli elementi consentivano di desumere - come in effetti è stato fatto dalla Corte territoriale - la sussistenza del dolo eventuale in capo a tutti gli imputati, anche rispetto alla verificazione dell'evento morte. 9.2. Va dunque ribadito che nella specie non è configurabile il cd. concorso anomalo. In effetti, la Corte territoriale ha voluto diversificare il grado di intensità del dolo e di partecipazione causale dei concorrenti, facendo distinzione tra i familiari che si sono "potuti rendere conto della gravità della ferita inferta a V.M. e delle sue sempre più gravi condizioni di salute" e "la figura autoritaria di C.A., il suo carisma e le continue rassicurazioni rivolte ai propri familiari unitamente alla diversità di età ed esperienze della moglie e dei due figli rispetto a quelle del marito e padre, militare di carriera e addetto ai servizi di sicurezza del servizio segreto" (pag. 76 della sentenza in esame). Si tratta di argomentazioni che si attagliano perfettamente alla fattispecie di cui al combinato disposto dell'art. 110 c.p., art. 114 c.p., comma 3, nella parte in cui fa riferimento al concorrente che "e' stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite" nell'art. 112 c.p., comma 1, n. 3, che fa a sua volta riferimento a "chi, nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette". In proposito, va detto che risulta contraddittorio, rispetto alle complessive argomentazioni contenute nella sentenza, il passaggio motivazionale successivo a quello sopra indicato, laddove si afferma che "il diverso ruolo svolto dai singoli familiari compartecipanti non consentono di ravvisare senza dubbio alcuno l'elemento del dolo anche eventuale con riferimento all'evento morte del V., che C.A. si è certamente rappresentato accettandolo, essendo, invece, assolutamente certa, alla luce di tutti gli elementi raffigurati a loro carico, una accettazione da parte di detti familiari di un evento meno grave e diverso da quello ravvisato ed accettato da C.A., cioè quello delle lesioni anche gravi in danno del V." (pagg 76 -77). Come si è visto, facendo ampio riferimento alla motivazione della pronunzia in esame nei passaggi argomentativi relativi proprio al ruolo avuto dai familiari di C.A. e all'elemento soggettivo ad essi imputabile, la Corte territoriale ha messo in evidenza una serie di risultanze da cui desumere con certezza che anche i suddetti imputati ebbero modo di rappresentarsi l'evento morte e, nonostante ciò, agirono accettando la prospettiva che l'accadimento avesse luogo. Risulta infatti illogico ritenere, come ha fatto la Corte territoriale, che sia da un lato "evidente che nel caso di una ferita di arma da fuoco di calibro non indifferente, le condizioni di salute del ferito che addirittura viene scambiato per un diversamente abile dall'operatrice del 118 a causa del modo di lamentarsi e che permette a G.V. e C.M. di ritenere che la pallottola doveva avere leso qualche organo connesso alla capacità di intendere e volere di M. per cui, addirittura, secondo la G. era meglio che fosse finita in tal modo, l'assenza di un foro d'uscita del proiettile, la mancanza di tempestivi soccorsi e la non adeguatezza degli stessi cagionata dal comportamento degli imputati, non potevano non lasciar presagire il probabile esito infausto dell'evento", per poi trarre "una sicura riprova che l'evento morte non fosse stato ipotizzato, e quindi, accettato dai familiari di C.A. come conseguenza della grave lesione subita da V.M." dalle intercettazioni ambientali del (OMISSIS), nell'ambito delle quali "sia M. che F. affermano che nessuno di essi avrebbe mai potuto prevedere che M. sarebbe morto pur evidenziando la situazione grave in cui versava il giovane a causa della ferita e nulla riferendo circa i motivi di non avere proceduto alla richiesta di un intervento sollecito e mirato dei soccorsi". E' dunque proprio dalla motivazione della sentenza impugnata che emergono gli elementi che consentono di ritenere applicabile nel caso di specie l'art. 114 c.p., comma 3, che non è affatto incompatibile con le condotte omissive tenute dagli imputati. Invero, correttamente questa Corte ha ritenuto tale incompatibilità solo per la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza al reato di cui all'art. 114 c.p., comma 1, giacché essa presuppone un apporto differenziato nella preparazione o nell'esecuzione materiale del reato stesso e il "non facere" è concetto ontologicamente antitetico alla sussistenza dei requisiti richiesti per il suo riconoscimento (Sez. 3, n. 47968 del 14/09/2016, Rv. 268496; Sez. 4, n. 45119 del 06/11/2008, Rv. 241762) 9.3. Il riconoscimento dell'attenuante prevista dall'art. 114, comma 3, con riferimento all'art. 112 c.p., comma 1, n. 3, presuppone una relazione caratterizzata da un rapporto di supremazia di un soggetto nei confronti di un altro, che può derivare anche da una peculiare posizione nella famiglia, pur non esaurendosi nella titolarità della potestà genitoriale e comprendendo ogni situazione di reale ed effettiva subordinazione in ambito familiare (Sez. 1, Sentenza n. 3332 del 22/10/2014, Rv. 261820; Sez. 6, Sentenza n. 3450 del 26/09/1990, Rv. 187761). E, con riguardo alla circostanza aggravante prevista dall'art. 112 c.p., n. 3, si è in particolare chiarito che il dato qualificante è rappresentato da un comportamento che, al di là di ogni classificazione del rapporto sottostante, abbia consentito la realizzazione di specifici reati, attenuando in concreto, pur senza annullarle, le facoltà di reazione del soggetto "determinato", in forza di una "soggezione psicologica" derivante dal timore reverenziale o dalla preoccupazione di non pregiudicare i propri interessi o da semplice suggestione (Sez. 2, Sentenza n. 10693 del 10/03/1989, Rv. 181901). Alla luce di ciò, emerge con evidenza l'importanza di avere riguardo alla peculiarità della situazione concreta: ai fini della prova dello stato di soggezione che caratterizza la circostanza aggravante di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 3 - e, correlativamente, l'attenuante di cui all'art. 114 c.p., comma 3, - rileva infatti la sussistenza e la natura del rapporto di subordinazione tra il soggetto determinante e quello determinato, avuto riguardo al concreto contesto in cui si inserisce la condotta di determinazione a commettere reati (Sez. 5, Sentenza n. 12697 del 20/11/2014, Rv. 263032). Come si è già evidenziato, nella vicenda in esame molteplici sono gli elementi valorizzati dalla Corte territoriale che depongono nel senso dell'esistenza di uno stato di soggezione psicologica in capo ai familiari di C.A.. Questi, militare di carriera appartenente alla marina militare e successivamente distaccato ai Servizi Segreti, detentore di armi da fuoco e autore dello sparo, ha infatti gestito in maniera autoritaria l'incidente e, come evidenziato dai giudici di merito, ha da subito minimizzato l'accaduto, tentando di rassicurare i familiari con spiegazioni poco credibili; ha interrotto bruscamente la prima telefonata al 118 effettuata dal figlio F. e dalla moglie, affermando: "non serve niente"; giunto al P.I.T. di (OMISSIS), ha preteso di conferire con il medico di turno, spiegando che l'incidente doveva essere mantenuto il più possibile riservato, in ragione del suo impiego alla Presidenza del Consiglio. Lo stato di soggezione nel quale versavano i familiari si desume, di converso, da molteplici circostanze: tutti gli imputati, dopo aver compreso l'accaduto, omisero di attivarsi per aiutare effettivamente M., limitandosi a collaborare con il padre nelle sue iniziative, pur rendendosi conto dei tentativi da quest'ultimo esperiti per nascondere la verità ai soccorritori; la figlia M., anziché intervenire "per aiutare quello che sino a pochi minuti prima è stato il suo fidanzato", ha aiutato il padre a depistare le indagini, contribuendo ad avvalorare le versioni da lui fornite, e ha affermato, nel corso dell'esame dibattimentale, di aver dichiarato durante il primo interrogatorio che la pistola era scivolata "perché così voleva suo padre". Nel complesso, la Corte territoriale ha evidenziato che "ove si abbia riguardo: alle spiegazioni inverosimili degli atteggiamenti da loro assunti, che in taluni momenti rasentano una vera e propria crudeltà nei confronti di un ragazzo ferito che urla di dolore e viene rimproverato per questo motivo, un ragazzo che è stato ed è il fidanzato di M. e che il C. afferma di tenerlo in considerazione come un figlio; ai depistamenti (pulizia delle superfici delle pistole e del bossolo; pulitura delle tracce di sangue, soprattutto nel luogo dove asseritamente era avvenuto il ferimento; ripetute menzogne rivolte per circa 110 minuti ai soccorritori sia prima del loro intervento che al momento che dopo; all'accordo che tentano di raggiungere tra loro su quanto dichiarare, si deve lecitamente ipotizzare che la scelta di un comportamento di un certo tipo fu del capo famiglia e cioè C.A. al quale tutti aderirono consapevolmente pur non potendosi non rendere conto delle conseguenze che avrebbe avuto lo stesso, accettandone il rischio e le conseguenze e avendo il tempo (110 minuti) per concordare una versione da fornire coralmente agli investigatori e che vedeva come primo obiettivo la possibilità a) di far passare sotto silenzio l'accaduto (intervento di C.A. sul Dott. Ma.), b) far credere ad un incidente non voluto, c) in ultima analisi, pervenire ad una ipotesi di omicidio colposo" (pag. 48 della sentenza impugnata). 9.4. Rilevato il suddetto errore di diritto, va detto che non è necessario annullare sul punto la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame. Infatti, questa Corte può procedere alla corretta qualificazione del fatto ascritto a C.F., C.M. e P.M. ai sensi dell'art. 110 c.p., art. 114 c.p.p., comma 3 e art. 575 c.p., giacché il trattamento sanzionatorio previsto per tale fattispecie è lo stesso determinato dalla Corte territoriale applicando l'art. 116 c.p.. Ne' residuerebbero in capo al giudice di rinvio spazi ulteriori di riesame delle circostanze fattuali. Infatti, con la sentenza n. 3464 del 30/11/2017 le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito le condizioni e i limiti che consentono alla Corte di cassazione, ritenuto superfluo il rinvio, di pronunciare sentenza di annullamento ai sensi dell'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l). In proposito, si è precisato che il riferimento operato dalla nuova formulazione della disposizione alla "non necessità" di ulteriori accertamenti in fatto non ha soltanto la funzione, esplicitamente prevista dalla norma, di escludere la possibilità di annullare senza rinvio il provvedimento impugnato ove tale necessità sia presente, ma anche quella di indicare negli accertamenti già effettuati dal giudice di merito gli elementi in base ai quali si esercita il potere di decidere il ricorso senza rinvio in sede di legittimità. La norma è stata in effetti introdotta dal legislatore avendo di mira l'estensione delle ipotesi di annullamento senza rinvio, in un'ottica deflativa dei casi di nuovo giudizio di merito a seguito di annullamento in cassazione; per tale ragione, è stata riconosciuta alla Suprema Corte una "discrezionalità vincolata", il cui esercizio è appunto vincolato dalle statuizioni del giudice di merito. Statuizioni che non coincidono con le sole decisioni assunte dai giudici di merito su singoli punti controversi, dovendosi invece ritenere che il termine si riferisca ai passaggi argomentativi posti a sostegno di tali decisioni e agli accertamenti in fatto che li giustificano. In definitiva, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che il potere di annullamento senza rinvio, riconosciuto dall'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), si correla essenzialmente alla superfluità del rinvio stesso, a sua volta associata da tempo dalla giurisprudenza di legittimità alla situazione nella quale la completezza degli elementi raccolti e valutati nel giudizio di merito non consentirebbe di pervenire con il rinvio ad una decisione diversa da quella che il giudice di legittimità è in grado di pronunciare (così, in motivazione, Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017). 9.5. Ne' può ritenersi che la suindicata diversa qualificazione, che riconosce anche in capo ai familiari di C.A. il dolo eventuale con riferimento alla morte del V., violi le norme convenzionali. Invero non può ritenersi che si tratti di diversa qualificazione "a sorpresa". E' infatti necessario sottolineare la distinzione esistente tra la problematica relativa all'ingresso nel processo penale di mutamenti nei dati storici sui quali si basa l'accusa da quella concernente la sussunzione di tali dati nell'una o nell'altra fattispecie incriminatrice, in presenza di una ricostruzione fattuale invariata. Come è noto, sul tema un rilievo particolare ha assunto la pronuncia della Corte Edu, 11 dicembre 2007, Drassich v. Italia, con la quale è stato chiarito che l'art. 6, par. 3, CEDU riconosce la centralità dell'atto di accusa nel procedimento penale, accordando all'imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali l'accusa stessa si basa, ma anche della qualificazione giuridica data a tali fatti; nonostante ciò, si è precisato che l'art. 6 par. 3 lett. a) non impone alcuna forma particolare con riferimento al modo in cui l'imputato deve essere informato della natura e del motivo dell'accusa formulata nei suoi confronti, imponendo tuttavia di valutare la portata del diritto di essere informato della natura e del motivo dell'accusa alla luce del diritto dell'imputato di preparare la sua difesa. Di fondamentale rilievo è dunque il nesso esistente tra esercizio del diritto di difesa e conoscenza dell'accusa; ciò è stato ribadito anche nell'ambito del secondo pronunciamento della Corte di Strasburgo nella vicenda Drassich (Corte eur. diritti dell'uomo, 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia), con il quale si è esclusa la violazione dell'art. 6 CEDU, evidenziando che l'equità del processo deve essere valutata alla luce del procedimento nel suo complesso. In definitiva, a livello convenzionale, rilievo centrale è attribuito, in caso di riqualificazione officiosa dei fatti, alla garanzia del contraddittorio sulla questione, da accertare con riguardo al concreto svolgimento della dialettica processuale. La stessa Corte Costituzionale si è occupata del tema relativo alla distinzione tra riqualificazione giuridica e modifiche degli elementi di fatto, con sentenza n. 103 del 17 marzo 2010, per effetto delle sollecitazioni derivanti dalla prima sentenza Drassich. In tale occasione, il Giudice delle leggi ha rilevato che si tratta di situazioni tra loro eterogenee, involgendo la prima l'accertamento che un fatto debba essere diversamente qualificato, mentre la seconda presuppone la constatazione che il fatto è differente da quello descritto nel decreto che dispone il giudizio. Quanto agli orientamenti espressi da questa Corte, deve rilevarsi che è assolutamente minoritario l'indirizzo interpretativo secondo cui l'attribuzione al fatto di un diverso nomen iuris in sede di decisione, senza che sia stata assicurata la possibilità di interlocuzione sul punto, dia luogo a nullità generale a regime intermedio (Sez. 1, Sentenza n. 18590 del 29/04/2011, Rv. 250275). Il più recente orientamento di legittimità è nel senso che l'osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere è assicurata anche quando il giudice di merito provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l'imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (Sez. 4, Sentenza n. 49175 del 13/11/2019, Rv. 277948; Sez. 2, Sentenza n. 46786 del 24/10/2014, Rv. 261052; Sez. 3, Sentenza n. 2341 del 07/11/2012, Rv. 254135). Nell'ipotesi in cui sia la stessa Corte di Cassazione ad operare per la prima volta una riqualificazione del fatto, si è ritenuto che la valvola di sicurezza del sistema sia rappresentata dalla previa informazione all'imputato, con conseguente rinvio dell'udienza. In mancanza di un referente normativo esplicito, tale conclusione è stata fondata, nell'ambito del processo penale, sull'art. 111 Cost., comma 2, secondo la lettura integrata alla luce dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) CEDU, dal quale discende il dovere del giudice di sollecitare il contraddittorio, sempre che l'imputato non abbia avuto la possibilità di interloquire sul punto nel corso del processo di merito. Tuttavia nella specie non si è ritenuto necessario informare preventivamente le parti sulla diversa qualificazione e rinviare l'udienza di decisione, perché è pacifico che gli imputati sin dall'inizio del processo siano stati posti in condizione di interloquire e di difendersi in ordine alla qualificazione del fatto nei termini precisati, in quanto l'originaria contestazione faceva proprio riferimento, anche con riguardo ai familiari di C.A., al delitto di omicidio doloso, al concorso di tutti gli imputati ai sensi dell'art. 110 c.p. e al ruolo "dominante" rivestito dal capofamiglia nelle condotte che causarono la morte del V.. E i termini di tale imputazione sono stati oggetto del concreto dibattito processuale in tutti i gradi del giudizio, così come è reso evidente proprio dai diversi esiti che hanno caratterizzato le decisioni intervenute prima della presente pronunzia e dagli stessi atti di impugnazione. Deve allora essere ribadito che, alla luce della già citata prima sentenza Drassich della Corte di Strasburgo, occorre soltanto che la qualificazione giuridica, quando operata dalla Corte di cassazione, non avvenga "a sorpresa", determinando conseguenze negative per l'imputato, il quale si trovi per la prima volta di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali e ad una sua diversa e nuova definizione giuridica, rispetto a quanto descritto nell'imputazione, senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul punto. Il punto centrale non è se il giudice che rilevi la questione sia di prima, seconda o ultima istanza, ma che l'indicata possibilità di interlocuzione ci sia stata, con la conseguenza che se una serie di indici (la originaria formulazione del capo di imputazione, il concreto dibattito processuale, reso palese anche dal tenore delle impugnazioni o dalle discussioni difensive) dimostrano che la questione ha costituito oggetto del contraddittorio, non sussiste alcuna violazione dell'equità del processo. Dunque, quest'ultima non ricorre, da un lato, quando l'imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione (condizione pacificamente realizzatasi nel caso di specie, in ragione, come si è detto, dell'accusa originariamente mossa ai familiari di C.: ""Del reato di cui agli artt. 110 e 575 c.p., perché ( I ritardavano i soccorsi e fornivano agli operatori del 118 e al personale paramedico, informazioni false e fuorvianti, così cagionando, accettando il rischio, il decesso del V...."). Dall'altro lato, la suddetta violazione non sussiste quando - come nella specie - la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (e, in quanto tali, "non sorprendenti") epiloghi decisori del giudizio (Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 24/09/2012, Rv. 254649 in motivazione; si veda anche Sez. 4, Sentenza n. 18793 del 28/03/2019, in motivazione) In definitiva, per comprendere se l'esito decisorio rappresenti una "sorpresa", bisogna guardare all'intero processo e non soltanto all'epilogo dello stesso: la violazione dei principi dell'equo processo si correla esplicitamente all'impossibilità per le parti di contribuire al dibattito ossia alla formazione del convincimento del giudice nel contraddittorio; essa si determina in presenza di una questione che sorprende le parti e non nella decisione con la quale il giudice, valendosi dei poteri qualificatori che l'ordinamento gli riconosce, offre una soluzione giuridica diversa da quella del provvedimento impugnato. 10. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nei termini qui di seguito indicati in dispositivo. P.Q.M. Qualificato il fatto ascritto a C.F., C.M. e P.M. ai sensi dell'art. 110 c.p., art. 114 c.p., comma 3 e art. 575 c.p., rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Rigetta, altresì, il ricorso di C.A., che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, tutti i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese processuali sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi: Euro 3.000,00 in favore di V.V. e Co.An. difesi dall'avv. Franco Coppi, oltre accessori di legge; Euro 4.500,00 in favore di Co.Ma., Ca.Ro. e Ca.Al. difesi dall'avv. Celestino Gnazi, oltre accessori di legge; Euro 2000,00 in favore di F.G. difesa dall'avv. Enza Intoccia, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 3 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021
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