RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado con cui Sa.En. è stata condannata, con rito abbreviato, per il reato di peculato continuato, per essersi appropriata, quale addetta allo sportello dell'ufficio postale e, quindi, quale incaricata di pubblico servizio, di denaro versato da vari clienti su libretti di deposito postale, denaro di cui aveva la disponibilità in ragione del proprio servizio. La medesima sentenza ha confermato le statuizioni della sentenza di primo grado di condanna dell'imputata, in solido con il responsabile civile Poste italiane Spa, al risarcimento dei danni patrimoniali e morali nei confronti delle parti civili Ma.Au., Bi.Pa. e Bi.Gi. da liquidarsi in sede civile, oltre che al pagamento di una provvisionale a titolo di danno morale di 10.000 Euro.
2. I fatti per i quali l'imputata ha riportato condanna riguardano una serie di episodi di peculato, commessi in danno di Ma.Au. e Bi.Gi., di Ga.Ma. e Sp.Si., di Le.Gi., di Da.Ev., di Ga.Ro., di Pa.Fe.
La sentenza impugnata ricostruisce le modalità della condotta dell'imputata, che, avendo ricevuto il libretto di risparmio dalla titolare, Ma.Au., su cui, con l'accordo di quest'ultima, avrebbe dovuto eseguire una serie di operazioni, aveva effettuato prelievi non richiesti mediante distinte con firma falsificata per l'importo complessivo di 28.905,00 Euro, aveva richiesto per due volte, all'insaputa della persona offesa, una nuova emissione del libretto postale, senza mai restituirglielo. Con analoghe modalità sono stati posti in essere prelevamenti non autorizzati di somme depositate sui libretti di risparmio postale di Ga.Ma. e Sp.Si. (per un importo totale di Euro 18.111,53), Le.Gi. (per Euro 1.000), Da.Ev. (per Euro 5.500), Ga.Ro. (per Euro 4.000 euro) e sul conto corrente postale di Pa.Fe. (per Euro 1.131).
3. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputata denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Con il primo motivo si deduce il vizio di violazione di legge, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla richiesta di integrazione probatoria ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen.
Premesso di aver definito la propria posizione nelle forme del rito abbreviato semplice, la ricorrente rileva di aver invano sollecitato al giudice per le indagini preliminari una integrazione probatoria. La Corte di appello, investita con uno specifico motivo di impugnazione sul punto, lo ha erroneamente dichiarato infondato e non ha, a sua volta, accolto la richiesta istruttoria. Considerando, infatti, che l'imputata si sarebbe appropriata di somme di denaro prelevate dai libretti di deposito postale di vari clienti, anche mediante falsificazione delle sottoscrizioni delle distinte di prelievo, poi disconosciute dalle persone offese, sarebbe stato necessario effettuare un accertamento grafologico, finalizzato alla verifica della genuinità delle sottoscrizioni oggetto di disconoscimento.
3.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio di violazione di legge, di contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della fattispecie di reato contestata.
Sostiene la ricorrente che il servizio bancario svolto da Poste Italiane Spa ha natura privatistica, al contrario di quello postale. Infatti, il D.P.R. 14 marzo 2001 n. 144 (regolamento recante norme sui servizi di bancoposta) ha operato una equiparazione dell'attività di bancoposta a quella bancaria, né rileva la circostanza che Poste Spa operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti, essendo quest'ultima equiparabile a un comune azionista che non interviene personalmente nei rapporti con la clientela, regolati esclusivamente dal diritto civile (sul punto richiama Sez. 6, n. 18547 del 30/10/2014, Romano, Rv 263359).
Da ciò consegue che la ricorrente non riveste la qualifica di incaricata di pubblico servizio e che l'appropriazione del denaro dei risparmiatori integrerebbe non il reato di peculato ma, eventualmente, quello di appropriazione indebita.
3.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di insufficienza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Si rileva che nell'atto di appello erano state evidenziate una serie di circostanze a sostegno della richiesta di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, quali la condotta processuale consistita nel rendere spontanee dichiarazioni, la definizione del procedimento con rito abbreviato, l'insussistenza di profili di pericolosità sociale, il risarcimento dei soggetti danneggiati, seppure su sollecitazione dell'ufficio postale. La Corte di appello, però, non si è confrontata con tali argomentazioni; inoltre, la pronuncia impugnata è errata nella parte in cui ritiene non documentato l'esercizio di un diritto di rivalsa.
4. Disposta la trattazione scritta del procedimento, in mancanza di richiesta di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte e i difensori delle parti civili e del responsabile civile hanno depositato memoria e conclusioni, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va, preliminarmente, rilevato che la richiesta del responsabile civile di estromissione dal giudizio è inammissibile. Infatti, non risulta che le Poste italiane Spa abbia impugnato la sentenza di primo grado, nella quale, unitamente all'imputato, tale ente era stato condannato in qualità di responsabile civile al risarcimento del danno e, pertanto, la statuizione sul punto non può essere posta in discussione. Al riguardo, può richiamarsi il principio in base al quale "è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal responsabile civile avverso la sentenza d'appello, quando questi non abbia impugnato in precedenza la decisione sfavorevole di primo grado" (Sez. 4, n. 12027 del 24/02/2011, 249936-01, che in motivazione ha rilevato che tale principio, affermato dapprima con riferimento alla parte civile, è "fondato sulla condivisibile considerazione che il rapporto processuale civile d'impugnazione trova la sua ragione d'essere sia nella volontà della parte, la quale deve essere costantemente attiva nel formulare le sue domande, che nell'interesse al gravame, fondamento unico per la prosecuzione del giudizio negli ulteriori gradi. Ne deriva che la parte processuale, qualora voglia ottenere una modifica in senso per lei vantaggioso della pronuncia di primo grado, deve proporre rituale impugnazione attraverso l'appello della sentenza. L'omessa tempestiva impugnazione contro la decisione di primo grado comporta quindi la "consunzione" del relativo diritto e la conseguente acquiescenza alla sentenza").
2. Il ricorso è fondato limitatamente al secondo motivo, che assume carattere assorbente.
3. La sentenza impugnata ha aderito all'orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconosce la qualifica di incaricato di pubblico servizio all'addetto ai servizi di bancoposta, in ordine alle mansioni svolte presso l'ufficio postale in relazione alle operazioni afferenti al risparmio postale (in questo senso: Sez. 6, n. 993 del 20/11/2018, Consiglio, Rv. 274938).
La ricorrente richiama invece altro indirizzo, secondo cui il dipendente in servizio presso un ufficio postale che svolge attività di tipo bancario/finanziario non riveste la qualità di persona incaricata di pubblico servizio, in quanto le relative attività sono chiaramente distinte dai servizi postali, sia perché disciplinate da differenti e specifiche normative di settore, sia perché separate dal punto di vista organizzativo e contabile, sicché l'appropriazione di somme di denaro dei clienti commessa con abuso del ruolo integra il reato di appropriazione indebita e non quello di peculato (Sez. 6, n. 18547 del 30/10/2014, Romano, Rv. 263359; Sez. 6, n. 42657 del 31/05/2018, Paolacci, Rv. 274289).
4. Reputa il Collegio che nel caso in esame l'attribuzione della qualifica pubblicistica alla ricorrente non sarebbe comunque sufficiente a ritenere sussistente il delitto di peculato.
Per l'integrazione di questo delitto, infatti, è necessario altresì che il possesso o la disponibilità del denaro altrui - di cui il soggetto agente si appropri - si fondi sulla "ragione del suo servizio". Sul punto - e in particolare sui criteri differenziali tra peculato e truffa aggravata dall'abuso di qualità - questa Sezione ha precisato che "l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene" (Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282 in cui è stato ritenuto integrato il delitto di truffa aggravata nella condotta di un'impiegata di un ufficio postale che aveva conseguito il possesso di polizze vita, cedole, libretti di risparmi ed altri titoli facendosi rilasciare deleghe e firmare ricevute dagli utenti).
Tale principio è stato di recente confermato da altra pronuncia della Sezione (n. 14019 del 24/01/2024, Buccinà, non massimata) in una fattispecie in cui l'imputato, dipendente di Poste italiane Spa aveva posto in essere una serie di atti fraudolenti per ottenere il possesso di buoni postali dematerializzati, consistiti nella formazione di false richieste di rimborso anticipato, con false firme dei relativi intestatari e, quindi, nella emissione di assegni postali.
Anche le condotte poste in essere all'imputata sono connotate da un profilo decettivo. Infatti, per poter porre in essere le operazioni di prelievo ha dovuto ricorrere a condotte definite dalla stessa sentenza impugnata come "truffaldine", consistite nel farsi consegnare i libretti di risparmio postale, che non ha più restituito, nel compilare false distinte di prelievo, che i titolari si limitavano a firmare in bianco oppure nel falsificare la firma del cliente.
5. I fatti contestati a Sa.En. devono quindi essere riqualificati come truffa aggravata (art. 640,61 n. 11 cod. pen.).
Tale reato è procedibile a querela, che non risulta essere stata presentata da Le.Gi., da Da.Ev., da Ga.Ro., da Pa.Fe. Per i reati commessi nei loro confronti manca, quindi, la necessaria condizione di procedibilità.
Limitatamente a tali reati la sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio per improcedibilità dell'azione penale.
6. I reati posti in essere nei confronti di Ma.Au. e Bi.Gi. (commessi fino al 11/07/2015) e di Sp.Si. e Ga.Ma. (commessi fino al 10/07/2015) sono, invece, procedibili perché le persone offese risultano aver presentato querela.
Essi, però, sono prescritti.
Alla prescrizione massima di anni sette e mesi sei devono essere sommate le sospensioni per complessivi mesi cinque e giorni diciassette (sospensioni verificatesi in primo grado: dal 06.05.2020 al 27.05.2020, per sospensione delle attività di udienza durante la pandemia Covid-19 e dal 30.9.2020 al 25.11.2020, per rinvio su istanza delle parti in pendenza di trattative; sospensione verificatasi in appello: dal 27.01.2023 al 27.04.2023, per rinvio su istanza congiunta delle parti), quindi il reato commesso in danno di Ma.Au.- Bi.Gi. si è prescritto il 28/06/2023, quello in danno di Sp.Si. - Ga.Ma. il 27/06/2023.
Non sussistendo elementi per pronunciare sentenza ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., sul punto la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.
7. La sentenza va, tuttavia, confermata per quanto riguarda le statuizioni civili, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen.
La responsabilità dell'imputata in relazione alla condotta di appropriazione truffaldina emerge chiaramente dalle prove esaminate dalle sentenze di merito.
Il primo motivo, l'unico con cui si censura la ricostruzione dei fatti, è inammissibile.
La sentenza impugnata, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio abbreviato d'appello le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice ex officio nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più ampi rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado (Sez. 2, n. 5629 del 30/11/2021, Granato, Rv. 282585-01; Sez. 3, n. 3028 del 15/12/2023, Rv. 285745), ha ritenuto non necessario l'accertamento richiesto, alla luce del compendio probatorio raccolto in primo grado, sufficiente ai fini del decidere.
In tale motivazione non si evidenzia alcuna lacuna o manifesta illogicità, che non è neppure dedotta dalla ricorrente, per cui il relativo motivo non supera il vaglio di ammissibilità.
8. In conclusione, quindi, poiché dalla motivazione della sentenza impugnata emergono sia i fatti di reato commessi in danno di Ma.Au., Bi.Gi., Sp.Si., Ga.Ma., che la loro riconducibilità all'imputata, profilo questo che non viene neppure contestato, devono essere in questa sede confermate le statuizioni civili ivi contenute.
Il giudice civile provvederà anche alla liquidazione delle spese del secondo grado di giudizio, come richiesto nella memoria depositata dal difensore delle parti civili.
9. L'imputata deve essere condannata al pagamento delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, in quanto la prescrizione dei reati per i quali la parte offesa sia stata ammessa a costituirsi parte civile non è indice di soccombenza (v., in motivazione, Sez. 6, n. 24768 del 31/3/2016, Rv 267317; Sez. 2, n. 3186 dell'11/12/2012, Rv. 254448). In base alla qualità dell'opera prestata, alla natura e all'entità delle questioni dedotte, dette spese vanno liquidate nei termini precisati in dispositivo.
P.Q.M.
Qualificati i fatti contestati come truffa aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 11 cod. pen., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione in relazione alle condotte poste in essere nei confronti di Ma.Au., Bi.Gi., Sp.Si. e Ga.Ma. nonché per improcedibilità dell'azione penale per le condotte realizzate ai danni di Le.Gi., Da.Ev., Ga.Ro. e Pa.Fe.
Conferma le statuizioni civili.
Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, Ma.Au., Bi.Pa. e Bi.Gi., che liquida in complessivi Euro 3.200, oltre accessori di legge.
Così deciso il 23 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2024.