RITENUTO IN FATTI
1. Con la sentenza impugnata il G.i.p. del Tribunale di Genova ha prosciolto Pa.Ca. dall'accusa di peculato (art. 314 cod. pen.) contestatagli per essersi appropriato, in qualità di tutore del fratello Vi., di una consistente somma di denaro giacente sul conto corrente del congiunto.
Secondo il giudice, nella fattispecie è mancato il dolo del reato, dovendosi dubitare, attese le concrete circostanze del fatto (autodenuncia, impiego della somma per acquistare un immobile dove collocare il congiunto inabile, ancorché a sé intestato), della sussistenza della coscienza e volontà dell'agente di volersi appropriare del denaro.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Genova, che formula un unico motivo di censura con cui deduce la violazione degli artt. 5,47 e 314 cod. pen.
Premette il ricorrente che la vicenda processuale è stata caratterizzata da interventi della Corte di cassazione che, in sede di indagini preliminari, hanno sempre escluso la sussistenza di un errore di diritto scusabile dell'imputato (sent. Sez. 6 n. 15844 del 2023).
Osserva, inoltre, che la circostanza che l'indagato avesse ritenuto di potere autocompensarsi per il servizio reso non esclude il dolo (che è generico) poiché l'errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disporre dei beni non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico.
Il giudice ha ricondotto il convincimento dell'imputato circa la liceità della appropriazione delle somme dell'assistito ad un errore di fatto rilevante ai sensi dell'art. 47 cod. pen., da cui la ritenuta insufficienza di prove.
Per contro, le norme che delimitano i poteri dell'amministratore di sostegno, essendo inerenti al peculato, costituiscono norma integratrice del precetto, con conseguente riconducibilità dell'eventuale errore all'art. 5 attraverso l'art. 47, terzo comma, cod. pen.
La sentenza impugnata appare, pertanto, errata in diritto in relazione alla qualificazione delle norme sopraindicate come norme extra penali non integratrici del precetto ai sensi dell'art. 314 cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Il Pubblico Ministero ha fondato la sua impugnazione su un ineccepibile inquadramento giuridico della fattispecie considerata.
Per giurisprudenza costante di questa Corte di cassazione, integra, infatti, il delitto di peculato la condotta dell'amministratore di sostegno che, essendo abilitato ad operare sul libretto di deposito postale intestato alla persona sottoposta ad amministrazione, si appropria delle somme di denaro giacenti sullo stesso per finalità non autorizzate e comunque estranee agli interessi dell'amministrato (tra molte v. Sez. 6, n. 10624 del 16/02/2022, B., Rv. 282944).
Si applica, dunque, a tale figura lo statuto del pubblico ufficiale (art. 357 cod. pen.), dal momento che l'amministratore di sostegno riveste precisamente detta qualifica (tra molte v. Sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 267795).
Correttamente, perciò, il ricorrente rileva che l'errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disporre dei beni non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico o nel caso in esame del denaro di proprietà privata, dal momento che l'art. 314 cod. pen. non tutela dall'indebita appropriazione solo il patrimonio pubblico, ma anche il "denaro o altra cosa mobile altrui".
Non v'è, dunque, spazio per interpretazioni difformi, pur nella consapevolezza della peculiarità della fattispecie concreta, implicante, tuttavia, considerazioni di opportunità e comunque di puro merito, come tali estranee all'ambito del sindacato devoluto con il ricorso a questa Corte di legittimità.
3. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio alla Corte di appello territorialmente competente (art. 569, comma 4, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Genova per il giudizio.
Così deciso, il 14 maggio 2024
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2024