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La Cassazione delinea le differenze tra peculato e truffa

Peculato

Cassazione penale sez. VI, 05/12/2017, (ud. 05/12/2017, dep. 08/03/2018), n.10569

L'art. 314 c.p., dunque, punisce l'abuso del possesso, non la fraudolenta acquisizione, e necessita di una situazione possessoria che preceda la condotta antigiuridica.
Se, pertanto, la falsa documentazione adempie esclusivamente allo scopo di favorire il materiale trapasso del bene, del quale il pubblico funzionario abbia già la disponibilità giuridica, ricorrerà l'ipotesi delittuosa del peculato.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. A.L., An.Gi., Bi.Co., B.N., Br.Co., c.L., C.A.M., Ca.Il., Cu.Gi., Fi.An.Ra., F.A., G.F., L.L., m.M., M.V., Ma.Or., ma.Ro., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., Pe.Pi.An., Pl.It., Po.Fr., Pr.Fe., Q.L., Qu.An., R.C., S.M., Sa.Ca., Sp.Lu., T.G., U.V., V.A., Vi.Pa. e Z.M.C. sono stati tratti a giudizio innanzi al Tribunale di Taranto per il delitto di associazione a delinquere (contestato al capo a), i delitti di concorso in truffa pluriaggravata continuata ex artt. 110 e 81 c.p., art. 640 c.p., comma 2, n. 1, art. 61 c.p., n. 7 e 9, (contestati ai capi b), c) e d) ed, in via alternativa, di concorso in peculato aggravato ex artt. 81,110 e 314 c.p. e art. 61 c.p., n. 7 (contestati ai capi b-bis), c-bis) e d-bis); nei confronti del solo L.L. è stato contestato anche il reato di falso in atto pubblico continuato ed aggravato ex art. 81, art. 61 c.p., n. 2 e art. 479 c.p. (capo e). Tutti i delitti contestati, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbero stati commessi in (OMISSIS). 2. In particolare al L., dirigente della Direzione Risorse Finanziarie del Comune di (OMISSIS), veniva contestato, alternativamente come peculato o truffa aggravata, di aver liquidato ed agli altri imputati, funzionari e dipendenti della stessa direzione, di aver percepito, attraverso le condotte fraudolente a ciascuno ascritte, emolumenti non dovuti a titolo di "progetti-obiettivo" per prestazioni lavorative che in realtà rientravano nell'attività ordinaria d'istituto e che erano già remunerate attraverso i normali emolumenti stipendiali. Secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata e dalla sentenza di primo grado, infatti, i compensi di produttività erano stati previsti dagli artt. 15 e 17 del Contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto il 10 aprile 1999 e, per quanto riguarda il Comune di Taranto, anche dalla Delib. Giunta 7 febbraio 2011, n. 93, con la quale era stata approvato l'accordo sindacale integrativo sottoscritto in sede decentrata in data 25 gennaio 2001. Tale accordo prevedeva la introduzione all'interno delle strutture comunali di un sistema di incentivazione premiante volto a gratificare le "prestazioni lavorative tendenti al reale miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia dei servizi, in funzione del tipo di attività svolte nelle stesse strutture" e contemplava espressamente "attività non rientranti negli ordinari compiti di istituto" aventi "lo scopo di assicurare il raggiungimento degli obiettivi che saranno individuati". 3. Secondo l'ipotesi di accusa, pertanto, il L., nella propria veste dirigenziale, in un arco temporale ricompreso tra il 2001 ed il 2005, aveva adottato cinquantuno determine, mediante le quali, aveva certificato falsamente l'avvenuta esecuzione delle attività ed il conseguimento del risultato apprezzabile dei progetti-obiettivo, in mancanza di qualsivoglia relazione finale o atto equipollente sull'espletamento dell'attività nei tempi previsti, sugli apporti individuali e sul risultato finale, nonchè aveva attestato la conformità, invero inesistente, dei progetti-obiettivo alla legge; in tal modo aveva liquidato, autorizzandone il pagamento, ingenti somme di danaro, a titolo di compensi accessori (per progetti obiettivo relativi a compiti ordinari), in favore di tutti gli altri imputati (in servizio presso la medesima Direzione, ad eccezione dei soli G., U., T. e Z., in servizio presso la Direzione Risorse Umane), somme di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio. A tutti gli imputati veniva, inoltre, contestato il concorso nella indebita percezione di tale somme, qualificato alternativamente come peculato o truffa aggravata, e di essersi associati con il L. al fine di accedere al fondo di produttività o ad altri capitoli di spesa ed appropriarsi del danaro pubblico. 4. Il Tribunale di Taranto, all'esito del giudizio dibattimentale di primo grado, con sentenza emessa in data 8 marzo 2013, ha ritenuto sussistente l'associazione a delinquere contestata ed ha qualificato i delitti scopo contestati quali episodi di peculato, ritenendo correlativamente assorbiti i delitti, contestati in via alternativa, di truffa. Il Tribunale di Taranto ha, pertanto, condannato tutti gli imputati (ad eccezione del c., medio tempore deceduto) a pene che variavano dai tre anni e sei mesi di reclusione a cinque anni di reclusione, dichiarando estinti i delitti di falso contestati al solo L. per intervenuta prescrizione. Il Tribunale ha, inoltre, disposto, ai sensi dell'art. 322-ter c.p., la confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili degli imputati sottoposti a sequestro sino alla concorrenza dell'importo di Euro 5.771.190,48, esclusi i beni sequestrati al c., dei quali disponeva la restituzione agli aventi diritto. 5. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto-, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Taranto in data 8 febbraio 2013 ed appellata dagli imputati A.L., An.Gi., Bi.Co., B.N., Br.Co., C.A.M., Ca.Il., Cu.Gi., Fi.An.Ra., F.A., G.F., L.L., m.M., M.V., Ma.Or., ma.Ro., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., Pe.Pi.An., Pl.It., Po.Fr., Pr.Fe., Q.L., Qu.An., R.C., S.M., Sa.Ca., Sp.Lu., T.G., U.V., V.A., Vi.Pa. e Z.M.C.: - ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati in ordine ai reati di truffa aggravata ex art. 640 c.p., comma 2, n. 1 e art. 61 c.p., n. 7, loro alternativamente ascritti ed assorbiti nel capo b), perchè estinti per intervenuta prescrizione già alla data della pronuncia della sentenza di primo grado, con eliminazione delle relative statuizioni civili ed esclusione dei fatti di peculato contestati a loro carico; - ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti degli imputati medesimi in ordine al reato di associazione per delinquere di cui al capo a) della rubrica, perchè lo stesso è estinto per intervenuta prescrizione, maturata già alla data della pronuncia della sentenza di primo grado limitatamente agli imputati cui risultava contestata la mera partecipazione, nonchè nei confronti di U.V., T.G. e Z.M.C., per questi ultimi con esclusione del ruolo qualificato loro ascritto; - ha confermato le statuizioni civili nei confronti dei soli L.L., B.N., Cu.Gi., Ma.Or., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., R.C., M.V. e G.F. limitatamente alla sola condanna generica al risarcimento dei danni inerente a tale capo d'imputazione, con esclusione della riconosciuta provvisionale; - ha revocato la confisca per equivalente; - ha condannato L.L., B.N., Cu.Gi., Ma.Or., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., R.C., M.V. e G.F. alla rifusione delle spese del grado in favore della parte civile costituita, che ha liquidato in complessivi Euro 5.940,00, oltre accessori di legge; - ha confermato nel resto la sentenza impugnata. 6. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Lecce - Sezione Distaccata di Taranto - ricorre per cassazione avverso tale sentenza e ne chiede l'annullamento, deducendo due motivi. Con il primo motivo il ricorrente si duole della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e della manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla diversa qualificazione operata dalla sentenza impugnata, che, ritenendo che i delitti contestati integrassero ipotesi truffa aggravata e non già di peculato, ne aveva dichiarato la prescrizione. Con il secondo motivo il Procuratore generale ricorrente lamenta la inosservanza e la erronea applicazione della legge penale con riferimento alla revoca della confisca per equivalente disposta in conseguenza della declaratoria di prescrizione del reato senza distinguere tra i vari beni (danaro e beni immobili) che erano stati sequestrati agli imputati. La Corte di Appello aveva, infatti, obliterato i principi affermati dalle Sezioni Unite nel caso Lucci (Sez. U, n. 31617 del 26/07/2015, Lucci, Rv. 264434), atteso che ricorrevano i presupposti per disporre la confisca diretta del danaro sequestrato sui conti correnti degli imputati, pur in costanza della declaratoria di prescrizione; vi era stata, infatti, una precedente sentenza di condanna e l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità degli imputati ed alla qualificazione dei beni da confiscare come profitto del reato erano rimasto inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio. 7. La parte civile Comune di Taranto, a mezzo del ministero del proprio difensore Avv. Pasquale Annichiarico, ricorre avverso la sentenza impugnata e, con unico motivo, ne chiede l'annullamento. Deduce la parte civile la inosservanza e la erronea applicazione della legge penale e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti, alle statuizioni civili ed alla declaratoria di prescrizione. La Corte territoriale aveva, infatti, obliterato che il L. era entrato in possesso del danaro pubblico dal momento dell'approvazione da parte della Giunta Comunale del bilancio di previsione annuale. Il L., infatti, non era sottoposto ad alcun vincolo o controllo da superare al fine di indurre taluno in errore, in quanto all'imputato, in vi. della propria qualifica dirigenziale, spettavano, come previsto dall'art. 107 T.U.E.L., autonomi poteri di spese nell'ambito della Direzione Risorse Finanziarie. Le condotte appropriative poste in essere del L. e dai funzionari concorrenti nelle stesse, pertanto, dovevano essere qualificate come peculato e non già come truffa. 8. L'avv. Domenico Rana, nell'interesse di B.N., Cu.Gi., G.F., M.V., Ma.Or. e Me.Lu., ricorre per cassazione avverso tale sentenza e ne chiede l'annullamento, articolando due motivi. I ricorrenti, con il primo motivo, lamentano la inosservanza o la erronea applicazione dell'art. 416 c.p. e, con il secondo, il vizio di mancanza, di contraddittorietà e di manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di una associazione per delinquere. La Corte di Appello aveva, infatti, "piegato" gli elementi costitutivi del delitto di associazione a delinquere, pretermettendo la differenza tra lo stesso ed il concorso di persone nel reato continuato. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato, e deducono che la sentenza impugnata aveva sostituito alla necessaria motivazione a sostegno dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 416 c.p. il riferimento ad elementi che attenevano specificamente all'assetto organico, nelle sue articolate espressioni, del Comune di Taranto. Tale impostazione rivelava, pertanto, la assoluta carenza motivazione in ordine all'elemento strutturale del contestato delitto associativo. 9. L'avv. Francesco Paolo Sisto, nell'interesse di L.L.C., ricorre avverso tale sentenza e deduce, con unico motivo, la violazione di legge in ordine all'art. 416 c.p.. Nessuna condotta del L. poteva essere inquadrata nello schema del delitto di associazione a delinquere ed, in particolare, difettavano l'accordo tra i coimputati e la struttura associativa della organizzazione criminale; quest'ultima, in particolare, non poteva coincidere con la struttura amministrativa della Direzione Risorse Finanziarie. La Corte territoriale aveva, inoltre, obliterato che il L. non aveva tratto alcun vantaggio dalle condotte contestate, che i progetti obiettivo constavano di tutti i requisiti richiesti e che l'obiettivo stabilito era stato realizzato nei tempi prefissati. 10. L'avv. Rocco Maggi, nell'interesse di T.G., ricorre avverso la sentenza impugnata, deducendo la nullità della stessa in relazione alla inosservanza dell'art. 129 c.p.p., comma 2, nonchè la mancanza e, comunque, la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla evidente insussistenza delle fattispecie di reato contestate al T.. Il ricorrente aveva, infatti, partecipato a soli sei progetti obiettivo, nell'ambito dei quali aveva posto in essere prestazioni lavorative a titolo di straordinario e non aveva percepito compensi abnormi. In data 11 gennaio 2017 il difensore depositava memoria nella quale evidenziava, mediante la produzione degli atti amministrativi richiamati, come l'atto di liquidazione era sempre stato preceduto da una relazione con la quale si evidenziava la necessità del progetto obiettivo e l'autorizzazione alla esecuzione dello stesso e, pertanto, si era in presenza di due atti distinti, l'uno propedeutico all'altro. Rilevava, inoltre, come stante la propria natura sanzionatoria, la confisca per equivalente non potesse essere disposta in presenza di una declaratoria di prescrizione dei reati accertati. 11. In data 11 gennaio 2017 l'avv. Domenico Rana proponeva nuovi motivi nell'interesse dei ricorrenti B.N., Cu.Gi., G.F., M.V., Ma.Or., Me.Lu., Bi.Co., V.A. e Vi.Pa. deducendo la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. I ricorrenti si dolevano che la prescrizione del delitto di associazione a delinquere nei loro confronti era stata esclusa in quanto ai medesimi era stato riconosciuto il ruolo di organizzatori; tale ruolo era stato, tuttavia, affermato esclusivamente sulla base del ruolo di capo ufficio o di capo servizio competente dai medesimi rivestiti nell'amministrazione comunale. La qualifica rivestita nell'ambito della organizzazione dell'amministrazione comunale era, pertanto, stata assunta dalla Corte di appello a parametro valutativo della sussistenza del reato, facendone derivare quale ulteriore conseguenza il ruolo di promotore o organizzatore nei confronti degli imputati. 12. In pari data l'avv. Rana depositava memoria difensiva ex art. 611 c.p.p., nell'interesse di B.N., Cu.Gi., G.F., M.V., Ma.Or., Me.Lu., Bi.Co., V.A. e Vi.Pa., chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto. Il delitto di peculato era, invero, insussistente, in quanto le somme percepite non erano nella previa disponibilità, neanche giuridica, dei ricorrenti, che avevano operato in condizioni di previa trasparenza e con l'approvazione di tutti gli organi di controllo della amministrazione comunale. Manifestamente infondato era, inoltre, anche il motivo formulato dal Procuratore generale in ordine alla revoca della confisca, in quanto la stessa nella specie era solo facoltativa e non già obbligatoria ed, al fine di disporre la misura ablatoria, era pur sempre necessaria la dimostrazione, nella specie insussistente, del nesso di derivazione diretta tra la somma oggetto di ablazione ed il reato. 13. Con memoria depositata in data 13 gennaio 2017, l'avv. Fabio Alabrese, in qualità di difensore di Qu.An., Po.Fr. e Sp.Lu. chiedeva il rigetto dei ricorsi presentati dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto e dal Comune di Taranto. Il L., infatti, solo mediante l'approvazione dei progetti obiettivo, peraltro fondata su un falso presupposto, aveva potuto acquisire la disponibilità giuridica delle somme e dei fondi non appartenenti alla propria Direzione. I revisori dei conti avrebbero, del resto, potuto bloccare, in qualsiasi momento, l'erogazione dei fondi, ove avessero ravvisato irregolarità. La Corte di Cassazione, del resto, con sentenza n. 9786 del 21 febbraio 2007, nel pronunciarsi in sede cautelare, in ordine ai ricorsi presentati nell'interesse di Pa.Ca. e di P.L. in questa medesima vicenda, aveva ritenuto corretta la qualificazione della condotta contestata come truffa, ritenendo i progetti obiettivo "...meri espedienti documentali per attingere denaro dalle finanze comunali". 14. Con memoria depositata in data 23 novembre 2017, An.Gi. presentava personalmente una memoria difensiva con la quale chiedeva la declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto. Esponeva l' An. che, negli anni 2001-2005, pur avendo continuato a svolgere la medesima attività lavorativa nel Comune di Taranto, parte della stessa non era stata più computata quale "straordinario", bensì quale "progetto obiettivo" ed era stato ignaro della procedura posta in essere per pervenire all'ottenimento di tali somme. Le proprie mansioni, inoltre, non comprendevano l'elaborazione degli impegni stipendiali, come era stato confermato nelle indagini preliminari dagli imputati L., R. e Cu.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi del Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce e della parte civile Comune di Taranto devono essere accolti. 2. Con il primo motivo il Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce ed il Comune di Taranto, con l'unico motivo, deducono la inosservanza e la erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla diversa qualificazione operata dalla sentenza impugnata, che, riqualificando i delitti contestati da peculato a truffa aggravata, ne aveva dichiarato la prescrizione. Entrambi i ricorrenti, pur con diversità di accenti, concordemente lamentano che le condotte appropriative poste in essere dai funzionari imputati dovevano essere qualificate come peculato e non già quale truffa aggravata. La Corte di Appello aveva, infatti, pretermesso che le somme oggetto di appropriazione erano già nella disponibilità del L. prima della adozione delle determine e, segnatamente, per effetto della iscrizione delle stesse nel bilancio di previsione e della sua successiva approvazione da parte della Giunta Comunale; il L., pertanto, poteva attingere alle medesime liberamente senza dover rendere conto ad alcuno. Gli artifizi ed i raggiri posti in essere dal L. ed accertati nel corso della istruttoria dibattimentale, pertanto, non servivano per appropriarsi del danaro, traendo in inganno, bensì per occultare la commissione di illeciti già consumati attraverso la erogazione di emolumenti non dovuti e risultati contra legem. Nella sentenza impugnata si era, inoltre, addivenuti ad una inammissibile dissezione dell'unitario contenuto provvedimentale delle determine, scorporando la parte della "approvazione del progetto" da quella della "liquidazione dei compensi" ed assegnando alla prima effetti appropriativi delle somme, peraltro antecedenti agli effetti dispositivi dell'atto. Le determine, invece, dovevano essere considerate nella loro unicità, quali atti promananti da uno stesso soggetto ed aventi un contenuto complesso ed effetti che non potevano essere cronologicamente separati. Il L., infatti, con l'adozione delle determine, aveva erogato del denaro che era già nella propria disponibilità giuridica per ragioni del suo ufficio e gli artifizi e raggiri posti in essere non erano stati finalizzati ad indurre in errore alcuno, bensì esclusivamente ad assegnare il danaro che era già nelle casse del Comune e di cui l'imputato aveva la gestione. Le condotte appropriative poste in essere dovevano, pertanto, essere qualificate come peculato e non già come truffa, in quanto le condotte di falsificazione erano successive alla appropriazione e non vi era alcun deceptus nella specie. Le statuizioni della sentenza n. 9786 emessa dalla Corte di Cassazione in data 21 febbraio 2017, che, adita a seguito di impugnazione presentava da alcuni imputati in sede cautelare, aveva qualificato i delitti predetti quali truffa aggravata, non potevano, inoltre, spiegare alcun effetto di merito o di giudicato interno, essendo stata emessa in una diversa fase, nella quale il delitto di peculato non era stato ancora contestato. 2.1. Tali censure si rivelano fondate e devono essere accolte. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non vi è ragione per discostarsi, l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata dall'abuso funzionale, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, deve essere individuato non già nella precedenza cronologica dell'appropriazione rispetto al falso o viceversa, ma nel modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del denaro o dell'altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. Nel peculato tale acquisizione del possesso o della disponibilità avviene in maniera legittima, in quanto trova causa nelle ragioni di ufficio; nella truffa, invece, l'acquisto del possesso è conseguente ad una condotta fraudolenta dell'agente ed è strumentale alla conseguente illecita appropriazione. Nel peculato, infatti, il possesso, che preesiste alla condotta incriminata, viene conseguito legittimamente "per ragioni di ufficio", nella truffa fraudolentemente e, pertanto, solo a cagione dell'inganno perpetrato e mezzo di artifici e raggiri (tra tante: Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano, Rv. 241186; Sez. 6, n. 5799 del 21/03/1995, Ummaro, Rv. 201680). Il peculato può, pertanto, essere ravvisato solo quando il pubblico ufficiale ha già il possesso del bene oggetto di appropriazione, e la eventuale condotta fraudolenta non è finalizzata a conseguire il possesso del bene ma ad occultare l'illecito (ex plurimis: Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 41093 del 18/09/2013, Anselmino, Rv. 258681; Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Baglivo, Rv. 256595); mentre è integrato il delitto di truffa aggravata quando l'impossessamento del denaro o di altra utilità costituisce conseguenza logica e temporale degli artifizi e raggiri posti in essere dal funzionario altrimenti privo della possibilità di acquisirne direttamente l'importo, non avendone autonomamente la disponibilità (Sez. 6, n. 14599 del 17/07/2013, Fasoli, Rv. 258687; Sez. 6, n. 41361 dell'11/07/2013, Dragonetti). Il peculato, pertanto, postulando la preesistenza del possesso della cosa, si consuma con l'appropriazione della stessa, laddove la truffa si consuma con il conseguimento della cosa ottenuto con la frode o l'inganno, essendo in tale momento che il funzionario consegue l'ingiusto profitto con altrui danno. Per converso, nelle ipotesi di peculato, le condotte di falsificazione documentale o gli artifici eventualmente posti in essere, avendo una funzione strumentale alla consumazione del reato, costituiscono una sorta di post factum non punibile in quanto sono compiuti al fine di conseguire un risultato ulteriore e diverso, finalizzato all'occultamento o al perfezionamento della materiale appropriazione della res. Ne consegue che, in linea di principio, deve essere escluso il concorso materiale tra il reato di peculato e quello di truffa; le fattispecie incriminatrici possono, invece, coesistere, con l'aggravante del nesso teleologico di cui all'art. 61 c.p., n. 2, là dove siano state poste in essere distinte condotte di cui una fraudolenta per predisporre una situazione atta alla successiva appropriazione della cosa ed un'altra di concreta appropriazione. In tale contesto interpretativo viene, pertanto, ad assumere valenza centrale la nozione di disponibilità o, comunque, di possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio, che deve intendersi fondato non solo sulla competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (ex multis: Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525). 2.2. L'art. 314 c.p., dunque, punisce l'abuso del possesso, non la fraudolenta acquisizione, e necessita di una situazione possessoria che preceda la condotta antigiuridica. Se, pertanto, la falsa documentazione adempie esclusivamente allo scopo di favorire il materiale trapasso del bene, del quale il pubblico funzionario abbia già la disponibilità giuridica, ricorrerà l'ipotesi delittuosa del peculato. A tale criterio si richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità per distinguere l'ambito applicativo della truffa aggravata dall'abuso funzionale di cui all'art. 61 c.p., n. 9 dal peculato in tutte le ipotesi nelle quali l'appropriazione di danaro sia conseguita dal funzionario pubblico mediante falsificazioni poste in essere nel contesto di procedimenti amministrativi per celare il fatto illecito a fronte di verifiche o controlli o nella ipotesi, concettualmente distinta, in cui l'atto che in concreto produce l'effetto di appropriazione spetti ad un organo collegiale, oppure si inserisce in una procedura articolata, ove più soggetti sono chiamati ad intervenire perchè si determini la distrazione. In particolare, nei casi di procedure complesse, ove l'atto dispositivo sia di competenza di altri funzionari e presenti un valore costitutivo (e, cioè, non si sia in presenza di un controllo meramente formale, di tipo automatico, ripetitivo ovvero privo dei poteri di effettiva verifica sul merito), al punto da richiedere al reo una condotta di frode, la mancanza di un previo possesso del danaro impone di configurare l'art. 640 c.p.. Quando l'atto che in concreto produce l'effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata, nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l'agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi è, dunque, configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell'abuso funzionale ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, e non quello di peculato, pertanto, (Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505). La qualificazione delle condotte muta in peculato, invece, per quei funzionari che abbiano la disponibilità del danaro pubblico per ragioni del proprio ufficio, pur in assenza del possesso materiale dello stesso, e che abbiano la competenza a porre in essere atti dispositivi. E' il caso, ad esempio, dei cosiddetti "ordinatori di spesa" ovvero dei funzionari che gestiscono, direttamente o su delega, le somme sui capitoli di bilancio e che pongono in essere atti dispositivi diretti alla banca tesoriera, contenenti l'ordine di pagamento, che viene materialmente eseguito da quest'ultima. Nel caso di maneggio di pubblico danaro, infatti, la procedura di pagamento di spese avviene oramai prevalentemente attraverso l'emissione da parte dei cosiddetti "ordinatori di spesa" di atti dispositivi diretti alla banca incaricata del servizio di tesoreria, contenenti l'ordine di pagamento, che viene materialmente eseguito da quest'ultima (Sez. 6, n. 50074 del 27/09/2016, Maione, Rv. 269524, relativamente a condotte di peculato poste in essere dal responsabile del servizio ragioneria del Comune). L'emissione dell'ordine di pagamento da parte del funzionario pubblico presuppone, del resto, necessariamente la indicazione di una causale ovvero della fonte dell'obbligo giuridico per l'ente pubblico di pagare una determinata somma (che potrà essere un atto amministrativo, un contratto o una sentenza di condanna); in tale contesto procedimentale la ricognizione di tale obbligo viene effettuata con l'assunzione dell'impegno di spesa (per gli enti locali, le cosiddette "determinazioni", di cui all'art. 183 T.U.E.L.) e con l'apposizione del vincolo sulle disponibilità finanziarie, che precede la liquidazione del dovuto, la ordinazione e il pagamento (per gli enti locali ai sensi dell'art. 182 T.U.E.L.). In tale contesto le eventuali falsificazioni poste in essere dal funzionario ordinatore di spesa al fine di coonestare la procedura posta in essere, necessarie per giustificare sul piano formale la spesa e superare i controlli previsti dalle norme di contabilità pubblica, non escludono, tuttavia, la ricorrenza del peculato. 2.3. Nella sentenza impugnata si è ritenuta la sussistenza del delitto di truffa aggravata in luogo di quello di peculato in quanto il L. ha potuto adottare le determine di liquidazione ed ha potuto firmare i mandati di pagamento solo perchè a seguito dell'approvazione dei progetti-obiettivo e in virtù della falsa rappresentazione della straordinarietà delle prestazioni oggetto dei progetti medesimi, aveva acquisito una disponibilità del danaro pubblico che, senza i progetti obiettivo non avrebbe avuto. Proseguendo in tale linea interpretativa, la Corte di Appello ha aggiunto che "sebbene ciascuna determina risulta inserita in un atto materiale... le determinazione del dirigente in realtà sono due: l'approvazione del progetto obiettivo e la liquidazione dei compensi, la prima propedeutica alla seconda" e, quindi, "solo attraverso l'approvazione del progetto-obiettivo...il L. ha acquisito, in modo illegittimo e falso, la disponibilità giuridica dei fondi". Nella motivazione della sentenza impugnata viene, dunque, delineata una divisione tra un primo momento, definito come "approvazione del progetto", ed un secondo, definito come di "liquidazione dei compensi". Secondo la Corte di Appello, pertanto, solo "l'approvazione del progetto" avrebbe consentito al L. di entrare nella disponibilità del danaro pubblico e la "liquidazione dei compensi" avrebbe rappresentato l'atto dell'erogazione del danaro dell'ente acquisito fraudolentemente grazie ai progetto-obiettivo. 2.4. Fondati si rivelano, tuttavia, i rilievi critici del Procuratore Generale ricorrente e della parte civile in quanto il L., nella propria veste di Dirigente della Direzione Risorse Finanziarie del Comune di Taranto, aveva la disponibilità giuridica del denaro pubblico di cui si controverte già all'atto dell'iscrizione delle predette somme nel bilancio di previsione e della sua successiva approvazione da parte della Giunta Comunale. Nel caso di specie, pertanto, non si era in presenza di un procedimento articolato, nel senso sopra precisato, in quanto l'imputato, nella propria veste di Dirigente della Direzione Risorse Finanziarie del Comune di Taranto, come evidenziato dalla sentenza di primo grado, aveva il potere di adottare gli atti di liquidazione dei compensi aggiuntivi per attività progettuale (peraltro rimessa alla sua approvazione ed a attestazione finale di regolarità) e, pertanto, con le determine indicate in dettaglio nelle imputazioni, ha liquidato somme di danaro di cui aveva già la disponibilità per ragioni di ufficio. Il L., peraltro, per quanto accertato nella sentenze di merito, ha proceduto ad adottare le determine nell'ambito delle prerogative inerenti l'ufficio ricoperto e nell'esercizio della autonomia che normativamente è riconosciuta al soggetto che ricopre la posizione organizzativa apicale della competente struttura amministrativa. L'art. 107 del T.U.E.L., del resto, espressamente attribuisce ai dirigenti autonomi poteri di spesa al fine di esercitare la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, oltre che provvedere alla organizzazione della risorse umane, strumentali e di controllo. Il L., pertanto, mediante l'emanazione delle determine di liquidazione, ha erogato danaro già nella propria disponibilità giuridica per ragioni del suo ufficio. Le condotte di falsificazione contestate al medesimo sono state, pertanto, volte non già a trarre in inganno, bensì esclusivamente a dissimulare la causale degli atti dispositivi posti in essere contra legem, in quanto non vi era alcun vincolo o controllo diretto da superare. La "approvazione del progetto" e la "liquidazione dei compensi", del resto, nel contesto del contenuto provvedimentale delle determine erano contestuali e non è possibile configurare una truffa nella quale la induzione in errore e l'atto dispositivo siano simultanei, atteso che nella fattispecie di cui all'art. 640 c.p. la prima deve causare il secondo. Nessuna efficacia vincolante possono, da ultimo, assumere sul punto le statuizioni della sentenza n. 9786 del 21 febbraio 2007 della Corte di Cassazione, in quanto le stesse sono rese in una fase procedimentale nella quale il meccanismo operativo delle appropriazioni era ancora in fase di compiuto accertamento. 2.5. In accoglimento dei ricorsi del Procuratore generale e della parte civile, Comune di Taranto, devono, pertanto, essere qualificati come peculato i fatti di truffa ascritti a A.L., An.Gi., Bi.Co., B.N., Br.Co., C.A.M., Ca.Il., Cu.Gi., F.A., Fi.An.Ra., G.F., L.L., m.M., M.V., Ma.Or., ma.Ro., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., Pe.Pi.An., Pl.It., Po.Fr., Pr.Fe., Q.L., Qu.An., S.M., Sa.Ca., Sp.Lu., T.G., U.V., V.A., Vi.Pa., Z.M.C.. L'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), nella formulazione modificata dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, prevede la pronuncia di sentenza di annullamento senza rinvio "se la corte ritiene di poter decidere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, o di rideterminare la pena sulla base delle statuizioni del giudice di merito o di adottare i provvedimenti necessari, e in ogni altro caso in cui ritiene superfluo il rinvio". Tale norma, che deve ritenersi immediatamente applicabile a tutti i processi pendenti alla data della sua entrata in vigore (ex plurimis: Sez. 6, n. 44874 del 11/09/2017, Dessì, Rv. 271484), non può, tuttavia, essere utilmente invocata nel caso di specie. Non è, infatti, possibile rideterminare la pena per i delitti accertati, previa espunzione degli episodi di peculato che risultano estinti per intervenuta prescrizione, attraverso la mera disamina delle statuizioni delle sentenze di merito; si rende necessario a tal fine un esame diretto degli atti dei processi di primo e secondo grado e la conseguente formulazione di giudizi di merito, in ordine al tempus commissi delicti di ciascuna condotta accertata, obiettivamente incompatibili con i limiti delibatori propri della giurisdizione di legittimità. Tali rilievi impongono, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata perchè venga celebrato un nuovo giudizio dalla Corte di Appello di Lecce in ordine a tali reati e che proceda a verificare, nella piena autonomia dei relativi apprezzamenti di merito, per quali condotte sia medio tempore intervenuta la prescrizione, a determinare il trattamento sanzionatorio per le ipotesi delittuose residue ed a provvedere alle conseguenti statuizioni civili. 3. La riqualificazione in peculato delle condotte giudicate nella sentenza impugnata quale ipotesi di truffa aggravata consente, inoltre, l'accoglimento del secondo motivo di ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di Lecce relativamente alla confisca. Con il secondo motivo il Procuratore generale ricorrente lamenta la inosservanza e la erronea applicazione della legge penale con riferimento alla revoca della confisca per equivalente disposta in conseguenza della declaratoria di prescrizione del reato senza distinguere tra immobili) che erano stati sequestrati agli imputati. La Corte di appello, infatti, nel disporre la equivalente, aveva pretermesso che ricorrevano i presupposti per disporre la confisca diretta del danaro sequestrato sui conti correnti degli imputati, pur in costanza della declaratoria di prescrizione. Tali censure devono essere accolte in quanto fondate. Le Sezioni Unite nel caso Lucci (Sez. U, n. 31617 del 26/07/2015, Lucci, Rv. 264434) hanno, infatti, sancito che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240 c.p., comma 2, n. 1, la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322-ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/07/2015, Lucci, Rv. 264434). Le Sezioni Unite, inoltre, nella sentenza Gubert (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 268647), hanno affermato che "deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta" e tale principio è stato condiviso anche dalle Sezioni Unite Lucci, precisando che si "ritiene di aderire, nella sostanza, alla impostazione fatta propria dalla sentenza Gubert" al p. 16 del considerando in diritto. Nel giudizio di rinvio, pertanto, la Corte di appello di Lecce provvederà anche a determinare l'importo della confisca diretta in ragione del profitto di reato da ciascun imputato illecitamente lucrato. 4. Tutti gli imputati ricorrenti, ad eccezione del T., hanno dedotto la violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di associazione a delinquere. B.N., Cu.Gi., G.F., M.V., Ma.Or. e Me.Lu., con il primo motivo e con i motivi nuovi, lamentano la inosservanza o la erronea applicazione dell'art. 416 c.p. e, con il secondo, il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di una associazione per delinquere. La Corte di Appello aveva, infatti, "piegato" gli elementi costitutivi del delitto di associazione a delinquere, pretermettendo la differenza tra lo stesso ed il concorso di persone nel reato continuato. In particolare, operando una inversione metodologica, aveva valorizzato il reato scopo, trasformandolo da elemento sintomatico ad elemento costitutivo del delitto associativo contestato. Non era, inoltre, ravvisabile alcun accordo criminoso e la struttura organizzativa idonea al perseguimento ed alla realizzazione degli obiettivi criminosi era stata confusa con l'organizzazione dell'ente locale. 4.1. Con il secondo motivo gli imputati ricorrenti censurano la manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato, e deducono che la sentenza impugnata aveva sostituito alla necessaria motivazione a sostegno dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 416 c.p. il riferimento ad elementi che attenevano specificamente all'assetto burocratico, nelle sue articolate espressioni, del Comune di Taranto. Tale impostazione rivelava, pertanto, la assoluta carenza di motivazione in ordine all'elemento strutturale del contestato delitto associativo. La attività lavorativa prestata in esecuzione dei progetti obiettivo era, peraltro, stata sottoposta ai controlli previsti per legge e gli emolumenti percepiti dagli imputati erano stati sottoposti al regime fiscale e previdenziale. 4.2. Analogamente l'avv. Francesco Paolo Sisto, nell'interesse di L.L.C., ha dedotto, con unico motivo, la violazione di legge in ordine all'art. 416 c.p., rilevando come nessuna condotta del L. potesse essere inquadrata nello schema del delitto di associazione a delinquere. Difettavano, infatti, l'accordo tra i coimputati e la struttura associativa della organizzazione criminale; quest'ultima, in particolare, non poteva coincidere con la struttura amministrativa della Direzione Risorse Finanziarie. La Corte territoriale aveva, inoltre, obliterato che il L. non aveva tratto alcun vantaggio dalle condotte contestate, che i progetti obiettivo constavano di tutti i requisiti richiesti e che l'obiettivo stabilito era stato realizzato nei tempi prefissati. 4.3. Tali censure si rivelano infondate e, pertanto, devono essere disattese. La sentenza impugnata, alle pagg. 148-149, ha congruamente argomentato la sussistenza del delitto di associazione a delinquere rilevando che la sistematicità delle condotte appropriative, secondo lo stesso schema operativo ripetuto nel tempo per ben cinque anni, "con il coinvolgimento continuato degli stessi soggetti, alcuni dei quali con ruoli qualificati (...) implicanti specifica conoscenza e capacità di comprensione di certi meccanismi burocratici sottesi all'impiego del danaro pubblico (ed infatti il L. figura come dirigente firmatario di tutte le 51 determine, e il capo ufficio M. e gli altri capi servizio, a secondo dei casi, rivestono il ruolo di proponente, responsabile o coordinatore responsabile del progetto), delinea sul piano oggettivo l'esistenza di un sodalizio criminoso, rivolto alla commissione di più reati di truffa, promosso ed organizzato da L., nonchè da M., B., Cu., Ma., Me., P., Pa., R. e G., e con la partecipazione, in qualità di meri associati, degli altri imputati". Non certo illogicamente la Corte di appello ha rilevato, alla stregua delle risultanze processuali diffusamente descritte, che l'accordo tra gli imputati era ravvisabile proprio nella partecipazione degli stessi soggetti, sistematica e ripetuta nel tempo, ai progetti-obiettivo, secondo lo stesso schema operativo, "noto nella sue concrete dinamiche anche perchè diffuso, partecipazione che traccia ed esprime una inevitabile intesa tra gli stessi partecipanti, verso il raggiungimento dello stesso fine costituito dalla percezione di compensi "aggiuntivi". Il programma criminoso era, inoltre, costituito dal proposito comune ai partecipanti di attingere denaro dalle finanze comunali in modo illecito, attraverso il ricorso allo schermo dei progetti-obiettivo. La struttura organizzativa era, inoltre, riconducibile alla stessa struttura amministrativa nell'ambito della quale si erano mossi ed aveva operato gli imputati come dipendenti comunali, strumentalizzata ed asservita a fine di illecita locupletazione. Dal punto di vista dell'elemento psicologico del reato, l'affectio societatis doveva parimenti ritenersi sussistente in ragione della abnormità e sproporzione degli importi percepiti in busta-paga, che aveva reso ciascun imputato partecipe del sistema dei progetto-obiettivo e ben consapevole di far parte di un meccanismo che portava alla percezione di somme notevoli non giustificate dalla concreta prestazione lavorativa eseguita. Nè pare manifestamente illogico l'aver delineato il diverso ruolo degli imputati nel contesto associativo in ragione delle maggiori responsabilità assunte nel contesto della Direzione amministrativa e, pertanto, in ragione del diverso grado di coinvolgimento nella attività illecita descritta. Ritiene il Collegio che tali valutazioni si rivelino congrue ed immuni dalle censure dedotte dai ricorrenti. La giurisprudenza di legittimità, del resto, pacificamente ammette tale forma di associazione a delinquere, avendo ripetutamente avuto modo di affermare la sussistenza del delitto di cui all'art. 416 cod. pen., in presenza di una preesistente struttura organizzata, in sè pienamente lecita, piegata tuttavia agli scopi criminosi della consorteria. Ai fini della configurabilità di un'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la P.A., infatti, non si richiede l'apposita creazione di un'organizzazione, sia pure rudimentale, ma è sufficiente l'attivazione di una struttura che può essere anche preesistente all'ideazione criminosa e già dedita a finalità lecita; nè è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di stabilità, essendo sufficiente che esso, a prescindere dalla sua durata nel tempo, non sia a priori circoscritto alla consumazione di uno o più reati predeterminati. (Sez. 6, n. 10886 del 28/11/2013, Grasso, Rv. 259493, fattispecie relativa alla strumentalizzazione della struttura organica di un Istituto di vendite giudiziarie, infiltrata da uomini di fiducia del soggetto promotore, per la commissione di una pluralità di reati di turbativa d'asta, peculato, falso documentale e corruzione in atti giudiziari; Sez. 6, n. 9117 del 16/12/2011, Tedesco, Rv. 252387, fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto sussistente il delitto associativo per avere l'organizzazione utilizzato, per commettere una pluralità di reati contro la p.a. nel settore sanitario, la struttura organizzativa di una USL, occupando con uomini di propria fiducia la pianta organica della stessa e piegandola ai fini illeciti grazie all'opera di soggetti collegati dal comune progetto criminoso). 5. Con unico motivo, T.G. deduce la nullità della sentenza impugnata in relazione alla inosservanza dell'art. 129 c.p.p., comma 2, nonchè per mancanza e, comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla evidente insussistenza delle fattispecie di reato contestate. Il ricorrente aveva, infatti, partecipato a soli sei progetti obiettivo, nell'ambito dei quali aveva posto in essere prestazioni lavorative a titolo di straordinario e non aveva percepito compensi abnormi. Dall'esame del certificato di servizio del T. emergeva, inoltre, che le attività cui il medesimo era preposto presso la Direzione Personale (e non presso la Direzione Finanziaria, come gli altri imputati) esulavano da quelle dei progetti obiettivo che gli erano stati contestati. L'attività relativa a tali progetti era incontrovertibilmente ultronea rispetto alle ordinarie attività assegnate al medesimo e, pertanto, il risultato aggiuntivo rispetto a quello atteso dalla normale prestazione lavorativa (richiesto per la qualificazione delle attività come progetto obiettivo) risultava perfettamente realizzato. Era, peraltro, stata depositata tutta la documentazione relativa all'attività resa e non era stata contestata dal Pubblico Ministero nè sotto il profilo qualitativo, nè sotto il profilo quantitativo. Il ricorso deve, tuttavia, essere disatteso in quanto proposto per motivi diversi da quelli ammessi dall'art. 606 c.p.p. e, comunque, infondato. Il ricorrente, infatti, lungi dal dimostrare i vizi di legittimità dedotti, si limita a prospettare una diversa ricostruzione dei fatti posti a fondamento della presente decisione. La proposizione di una tesi alternativa, prescindendo dalla evidenziazione delle aporie logiche contenute nella sentenza impugnata è attività non consentita in sede di legittimità. 6. Da ultimo, deve essere dichiarato l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di R.C., perchè i reati sono estinti per morte dell'imputato. 7. Gli imputati B.N., Cu.Gi., G.F., L.L., M.V., Ma.Or., Me.Lu. e T.G., stante il rigetto del proprio ricorso, devono essere condannati ai sensi dell'art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali ed, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, Comune di Taranto, che si liquidano in complessivi Euro 5.000, più spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa. P.Q.M. In accoglimento dei ricorsi del P.G. e della parte civile, qualificati come peculato i fatti di truffa ascritti a A.L., An.Gi., Bi.Co., B.N., Br.Co., C.A.M., Ca.Il., Cu.Gi., F.A., Fi.An.Ra., G.F., L.L., m.M., M.V., Ma.Or., ma.Ro., Me.Lu., P.L., Pa.Ca., Pe.Pi.An., Pl.It., Po.Fr., Pr.Fe., Q.L., Qu.An., S.M., Sa.Ca., Sp.Lu., T.G., U.V., V.A., Vi.Pa., Z.M.C., annulla la sentenza impugnata in ordine ai suddetti reati, nonchè alla confisca e rinvia per nuovo giudizio su tali capi e punti alla Corte di appello di Lecce. Rigetta i ricorsi dei suddetti imputati, che condanna al pagamento delle spese processuali e, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, Comune di Taranto, che liquida in complessivi Euro 5.000, più spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R.C., perchè i reati sono estinti per morte dell'imputato. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2017. Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2018
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