IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermava la sentenza con cui il Tribunale di Nuoro, in data 8.3.2022, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato Pa.So. alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni morali derivanti da reato nella misura di Euro 3000,00, in favore della costituita parte civile, in relazione al reato ex art. 595 c.p., in rubrica ascrittole, commesso, con le modalità indicate nel capo d'imputazione, in danno di Fa.Gi., sindaco del comune di S.
La corte territoriale, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ricostruito i fatti per cui si procede nei seguenti termini. La Pa.So., che, unitamente al marito Co.Cl., contestava le opere di arredo urbano disposte dall'amministrazione comunale, la cui esecuzione avrebbe coinvolto l'area su cui insisteva l'esercizio commerciale gestito dal Co., offendeva l'onore e la reputazione del Fa.Gi., attraverso un'azione combinata.
L'imputata, infatti, prima aveva ripreso quest'ultimo, mentre si trovava nei pressi del cantiere allestito per l'esecuzione delle opere, con il proprio "smartphone", accompagnando le riprese dalla simultanea utilizzazione delle espressioni offensive della personalità del sindaco riportate nel capo d'imputazione, per poi pubblicare, nello stesso giorno, i video contenenti le immagini riprese e i commenti offensivi sul profilo "Instagram" dell'hotel I Narcisi, di proprietà della stessa Pa.So., che erano stati rimossi il giorno successivo, "come si evince dallo screenshot della pagina, consegnato dalla parte civile alla polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali" (cfr. pp. 2-3 della sentenza di appello).
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, articolando quattro motivi di ricorso.
2.1 Con il primo motivo, la Pa.So. lamenta mancanza, contraddittorietà, o manifesta illogicità della motivazione ovvero motivazione apparente, in quanto, con riferimento al Compact Disc allegato alla querela della persona offesa, contenente le riprese video in precedenza indicate, manca o è comunque contraddittoria la motivazione sulla circostanza che si tratta di videoriprese pubblicate su "Instagram", sia perché non corrispondono all'estrapolazione digitale da documenti informatici secondo le forme previste dalla legge, sia perché, a fronte del mancato riconoscimento della pubblicazione su "Instagram" da parte dell'effettivo autore, che, sia in primo, sia in secondo grado, ne ha sempre contestato l'esistenza, la sentenza impugnata ha omesso di colmare il vuoto motivazionale che ha accertato l'esistenza documentale del video (o dei video), ma non la storica diffusione di esso (o di essi) mediante uno specifico canale informatico (quello indicato dal querelante), così inficiandone l'utilizzabilità ai fini probatori e decisori, senza tacere che vi è difetto di motivazione anche circa i criteri di riconoscimento della voce ai sensi dell'art. 239A c.p.p., attribuita all'imputata, in assenza di elementi, sia pure labiali, di riconducibilità individuale e soggettiva. La ricorrente eccepisce la mancanza di motivazione anche in ordine ai criteri impiegati dalla corte territoriale per il rigetto dell'istanza di acquisizione di consulenza tecnica di parte, formulata ex art. 603 c.p.p., posto che il giudice di appello, che non ha accolto la richiesta ritenendo la consulenza tardiva e l'acquisizione non necessaria, perché avrebbe richiesto un'ulteriore indagine da parte della corte, avrebbe dovuto, piuttosto, precisare non tanto perché la consulenza in questione fosse tardiva e non necessaria ai fini della decisione, quanto, piuttosto, perché, ritenuta tardiva, non fosse assolutamente necessaria ai fini della decisione, alla luce della dirimente circostanza che la consulenza risultava depositata e non avrebbe richiesto nessuna ulteriore indagine, apparendo, inoltre, sotto il profilo dell'inutilizzabilità del documento, intrinsecamente contraddittoria la motivazione della corte di appello quando allude al CD quale documento anonimo, affermandone, al tempo stesso, la natura documentale, ma non dichiarativa. Ulteriore vizio motivazionale viene individuato nel fatto che la corte territoriale ha confuso la prova dell'esistenza di una videoripresa (o più videoriprese) e la prova della fonte di diffusione su "Instagram", nel senso che la prima è data dalla mera esistenza della videoripresa depositata dalla persona offesa, quanto alla seconda, la mera esistenza della videoripresa non può, automaticamente, costituire fonte di prova della pubblicazione su "Instagram", non tanto perché sulle dichiarazioni de relato della parte civile deve operarsi una puntuale valutazione critica, quanto piuttosto perché la sentenza non ha risolto la questione principale, ossia quella se il documento informatico che ne è la fonte originale sia mai stato effettivamente diffuso attraverso il social network ovvero andato distrutto o disperso, come segnalato dalla difesa in sede di merito, potendosi, solo in tal caso, procedere all'acquisizione e alla valutazione di eventuale copia.
La corte territoriale, ad avviso della ricorrente, trascura di motivare le ragioni per le quali la videoripresa di cui si discute sia una copia del video pubblicato su "Instagram", non essendovi in esso alcun riferimento al suddetto social network ed essendo il video esclusivamente la prova di sé stesso o, semmai, la copia della videoripresa originale, ma non di quella del social network, di cui non risulta agli atti neppure un'estrapolazione.
La ricorrente, inoltre, lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla circostanza che sia stata proprio la Pa.So. a realizzare i video di cui si discute; a immetterli in presa diretta su "Instagram", mentre effettuava le riprese; a divulgarli attraverso la pagina web dell'hotel I Narcisi, circostanza quest'ultima smentita dalle dichiarazioni della signora Gu.Sa..
2.2. Con il secondo motivo di ricorso, la Pa.So. lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto, la corte territoriale ha operato un vero e proprio travisamento della prova, incorrendo in un travisamento del fatto, nell'attribuire all'imputata l'ulteriore diffusione e permanenza dei video su "Instagram", non potendo rispondere di diffamazione il soggetto che, pur essendo autore di frasi denigratorie, non le abbia comunicate a terzi ovvero, essendo come nel caso di specie autore di un video, non ne abbia divulgato il contenuto in assenza dell'offeso, essendo piuttosto configurabile nella condotta della prevenuta, con riferimento non solo al segmento delle frasi offensive rivolte all'indirizzo del sindaco in presenza di quest'ultimo e terze persone nel corso delle riprese, ma anche alla fase successiva della pretesa diffusione via "Instagram", in cui del pari l'offeso deve ritenersi comunque presente, non venendo mai a mancare il rapporto tra autore e destinatario delle espressioni denigratorie per come percepito da chi assiste all'esterno, che vede o ascolta ciò che, una volta per tutte, vi è riprodotto, il fatto di ingiuria, aggravata dalla presenza di più persone, non più previsto dalla legge come reato.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso, la Pa.So. lamenta violazione di legge, in punto sia di mancato riconoscimento dell'esimente del diritto di critica politica nei confronti della scelta del sindaco di essere presente all'esecuzione dei lavori pubblici, in tal modo esacerbando la conflittualità che caratterizzava i pregressi rapporti tra le parti, essendo il Fa.Gi. da sempre ostile, per ragioni politiche, all'imputata e alla sua famiglia, sia della mancata applicazione della scriminante della provocazione, di cui all'art. 599, c.p., che si giustifica alla luce della presenza del sindaco in luoghi già interessati da accese diversità di vedute in merito alla proprietà pubblica o privata dei terreni oggetto dei lavori eseguiti da un'impresa privata per conto del comune di S.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso, la Pa.So. lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di determinazione dell'entità del danno da risarcire.
3. Con requisitoria scritta del 17.4.2024, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa Paola Filippi, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile. Con conclusioni scritte del 19.4.2024, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore e procuratore speciale della costituita parte civile chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile o rigettato, con condanna dell'imputata alla refusione delle spese sostenute nel grado, come da allegata nota spesa.
Con conclusioni scritte del 2.5.2024, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore dell'imputata, nel replicare alla requisitoria scritta del pubblico ministero, insiste per l'accoglimento del ricorso, reiterando le proprie doglianze.
4. Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da motivi in parte infondati, in parte inammissibili.
5. Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso, esso si pone ai confini dell'inammissibilità, essendo fondato su censure che si risolvono in gran parte nella semplice reiterazione di quelle già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla corte di merito, con la cui motivazione sul punto, immune da vizi, la ricorrente in realtà non si confronta, dovendosi, pertanto, le stesse considerare non specifiche ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710).
Il tema posto nel primo motivo di ricorso, con argomentazione non sempre di agevole comprensione, attiene all'impossibilità di dedurre dal contenuto del supporto magnetico (CD) prodotto dalla persona offesa in allegato alla querela proposta nei confronti della Pa.So., che i filmati diffamatori in esso riversati fossero stati effettivamente pubblicati sul profilo "Instagram" dell'hotel I Narcisi, come affermato dal Fa.Gi. Si tratta di una questione che non investe direttamente l'acquisizione agli atti del procedimento, in conseguenza della scelta dell'imputata di avvalersi del giudizio abbreviato, del supporto magnetico di cui di discute, che appare del tutto legittima alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
Come è stato affermato da un condivisibile arresto, infatti, ai fini dell'utilizzabilità della trascrizione delle conversazioni via "wathsapp" effettuata dalla persona offesa, la necessità di acquisire il supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione deve essere valutata in concreto, tenendo conto della credibilità della persona offesa e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni accusatorie.
Nella fattispecie esaminata la Corte di Cassazione ha affermato che correttamente il giudice di merito aveva ritenuto superflua la richiesta difensiva di accertamento tecnico e di estrazione dei dati del traffico telefonico delle utenze interessate, non essendovi ragione di dubitare dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in merito alla provenienza e al contenuto dei messaggi (cfr. Sez. 5, n. 2658 del 06/10/2021, Rv. 282771).
E sul punto non può non rilevarsi come non siano state articolate specifiche censure sull'attendibilità di quanto dichiarato dalla persona offesa in merito alla provenienza, al contenuto e alla diffusione dei messaggi diffamatori su "Instagram", se non attraverso un generico richiamo alla circostanza che il Fa.Gi., essendosi costituito parte civile, è portatore di un concreto interesse all'affermazione di responsabilità della Pa.So.
Inoltre, come si vedrà meglio in seguito, la diffusione dei filmati su "Instagram" e la riconducibilità di tale diffusione all'imputata, sono state affermate dalla corte territoriale con motivazione affatto carente, manifestamente illogica o contraddittoria, ma, piuttosto, dotata di intrinseca coerenza logica.
Sempre a proposito della legittima acquisizione e, di conseguenza, della piena utilizzabilità ai fini della decisione del CD prodotto dalla persona offesa e di quanto in esso contenuto, si segnala che la giurisprudenza di legittimità, in altro condivisibile arresto, ha ritenuto corretta l'acquisizione da parte del giudice di merito di messaggi inviati attraverso i social networks Whatsapp e Facebook dall'imputato alla persona offesa e da quest'ultima messi a disposizione della polizia giudiziaria al momento della presentazione della querela, posto che per documento proveniente dall'imputato si intende, ai sensi dell'art. 237, c.p.p., il documento del quale è autore l'imputato ovvero quello che riguarda specificamente la sua persona, ancorché da lui non sottoscritto, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto, (cfr. Sez. 3, n. 38681 del 26/04/2017, Rv. 270950).
Non può non rilevarsi, inoltre, l'esistenza di un costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l'estrazione di dati archiviati in un supporto informatico, non costituisce accertamento tecnico irripetibile, e ciò neppure dopo l'entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l'obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici acquisiti a quelli originali, con la conseguenza che né la mancata adozione di tali modalità, né, a monte, la mancata interlocuzione delle parti al riguardo comportano l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ferma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 38909 del 10/06/2021, Rv. 282072; Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, Rv. 266477). Va, infine rilevato, non da ultimo, che, in tema di giudizio abbreviato, non possono formare oggetto di valutazione solo gli atti affetti da nullità assoluta e da inutilizzabilità patologica, non essendo prevista alcuna deroga alla rilevabilità di ufficio ed alla insanabilità di tali vizi (cfr. Sez. 1, n. 20834 del 01/03/2023, Rv. 284539), laddove i vizi denunciati dalla ricorrente non sono riconducibili a tali categorie.
Il parametro delle inutilizzabilità nel giudizio abbreviato, invero, assume rilievo limitato in ragione della scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine compiuti senza il rispetto delle forme di rito (cfr. Sez. 2, n. 42917 del 27/06/2019, Rv. 277891).
Orbene, in assenza di violazione di un divieto probatorio, non è configurabile, nel caso in esame, alcuna inutilizzabilità patologica (cfr. Sez. 5, n. 47064 del 10/10/2019, Rv. 277542), posto che l'inutilizzabilità cosiddetta "patologica", rilevabile, a differenza di quella cosiddetta "fisiologica", anche nell'ambito del giudizio abbreviato, costituisce un'ipotesi estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell'ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell'imputato (cfr., Sez. 3, n. 882 del 09/06/2017, Rv. 272258), evenienze del tutto insussistenti nel caso che ci occupa.
Quanto all'eccezione relativa alla mancata acquisizione della consulenza tecnica di parte, essa appare manifestamente infondata, posto che, come affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento con le forme del rito abbreviato del giudizio di primo grado, è consentito al giudice disporre "ex officio", ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti costituenti oggetto di decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria allo stesso spettanti (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 30776 del 10/05/2023, Rv. 2849479).
Sul punto, l'ordinanza resa dalla corte territoriale, il cui contenuto è riportato nella sentenza oggetto di ricorso (cfr. p. 22), contiene un esplicito riferimento all'inutilità dell'esame che il giudice avrebbe dovuto svolgere, ove avesse acquisito la consulenza tecnica di parte, non essendo tale esame assolutamente necessario ai fini della decisione, valutazione del tutto conforme al contenuto probante delle acquisizioni processuali.
Infatti, passando a esaminare il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale per affermare come avvenuta ad opera della Pa.So. la diffusione dei filmati diffamatori su "Instagram", si osserva, come già accennato, che la motivazione del giudice di appello è priva dei denunciati vizi.
Non appare fondato, in particolare, il rilievo difensivo volto a contestare che la prevenuta con il suo "smartphone" abbia proceduto a filmare il Fa.Gi. mentre quest'ultimo, accompagnato da personale della polizia municipale di S e dell'Arma dei Carabinieri, si trovava sul luogo di esecuzione dei lavori pubblici contro cui si opponevano la Pa.So. e il marito, accompagnando le riprese con la pronuncia di frasi offensive rivolte all'indirizzo del sindaco, ché, anzi, proprio su tale circostanza l'imputata fonda la tesi difensiva secondo cui la sua condotta andrebbe ricondotta alla fattispecie, ormai penalmente irrilevante, dell'ingiuria aggravata dalla presenza di più persone.
Al riguardo si osserva che la corte territoriale ha illustrato con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica le ragioni che militano a sostegno dell'ipotesi accusatoria, posto che, sin dalla visione dei tre filmati contenuti nel supporto magnetico allegato alla querela, non solo si evince come sia stata la Pa.So. ad effettuare le riprese, ma anche come sia a lei addebitabile la diffusione delle immagini filmate attraverso "Instagram".
Da un lato, infatti, rileva la corte di appello, "la voce femminile fuori campo accompagna in maniera sincronica le inquadrature, segno inequivocabile che una sola ne è l'autrice e che questa si identifica proprio nella Pa.So., tenuto anche conto che nel primo filmato, mentre ella si trova all'esterno del bar-tabacchi di proprietà del marito Co.Cl., dall'interno si sente una persona che discute animatamente" e la voce femminile si rivolge proprio a lui con il suo nome di battesimo ("Claudio") per rassicurarlo circa l'incapacità del sindaco di portare a compimento l'obiettivo contrastato dai coniugi Co.-Pa.So. ("Stai tranquillo che non fa proprio un cazzo"), continuando a riprendere il Fa.Gi. e, al tempo stesso, a rivolgergli espressioni offensive, mentre nel corso del terzo video, ripreso all'interno dell'esercizio commerciale del Co., la stesa voce femminile si rivolgeva al barista per assicurarsi, ricevendone conferma, che l'audio della ripresa che stava avviando proprio in quel momento si sentisse, per poi rivolgere di nuovo la videocamera verso il Fa.Gi. e le persone che lo accompagnavano, "dando il buon giorno ai cittadini di S ed informandoli della presenza del Sindaco, al quale attribuisce ancora una volta una serie di caratteristiche e condotte disdicevoli".
Tali essendo le modalità di comunicazione, non appare revocabile in dubbio che, come ritenuto dalla corte territoriale, l'autrice dei video stesse comunicando "in diretta" con la generalità dei cittadini di S, per stigmatizzare il comportamento del Primo Cittadino, anche perché, in aggiunta a quanto già osservato, nel secondo video la stessa voce femminile dimostra tutta la sua soddisfazione per avere ricevuto molte manifestazioni di appoggio al primo filmato ("... rieccoci, vi volevo aggiornare, visto che ho ricevuto tanti messaggi... Siamo riusciti a mandarlo a casa").
In questo contesto si inserisce, il giorno successivo alla realizzazione dei tre video, l'ulteriore acquisizione, rappresentata dalla pubblicazione di un "post" sul profilo "Instagram" dell'hotel I Narcisi, di proprietà dell'imputata, il cui "screenshot" è stato prodotto dal Fa.Gi., nel quale, dopo avere difeso le proprie ragioni e ringraziato per il sostegno ricevuto, l'autore così concludeva: "Per questo motivo ho deciso di togliere il post di ieri nella speranza di aver fatto sentire tutti i Siniscolesi nella mia situazione, anche se solo per qualche ora". Orbene, premesso che è legittima l'acquisizione come documento di una pagina di un "social network" mediante la realizzazione di una fotografia istantanea dello schermo ("screenshot") di un dispositivo elettronico sul quale la stessa è visibile (cfr. Sez. 5, n. 12062 del 05/02/2021, Rv. 280758), dal contenuto di tale "post" si desume inequivocabilmente che il medesimo autore il giorno precedente aveva pubblicato e lasciato sullo stesso profilo "Instagram" un diverso "post", il cui scopo era quello di far immedesimare tutti i cittadini di S nella battaglia che stava conducendo e che intendeva continuare seguendo "la strada del diritto", esprimendosi nei seguenti termini: "Davanti all'arroganza dell'ignoranza capita che ci si senta disarmati (anche se supportati dalla certezza delle carte in mano) e si scoprano limiti che neanche immaginavamo ci appartenessero. Limiti che una volta ripiegati in sé stessi ci ricordano che non dobbiamo abbrutirci come i nostri persecutori, ma dare esempio di civiltà".
Appare, pertanto, del tutto conforme a logica ritenere che proprio dalla constatazione che il "post" del giorno precedente potesse rivelare un "abbrutimento" del suo autore, in uno con l'avvertita esigenza di fornire un esempio di "civiltà", sia derivata la decisione presa dal medesimo autore di rimuoverlo dal profilo "Instagram" dell'albergo I Narcisi.
Se ciò è vero, come è vero, ne consegue che non appare né manifestamente illogico, né contraddittorio attribuire alla Pa.So. la diffusione dei video in precedenza indicati sul menzionato profilo "Instagram" dell'hotel I Narcisi, attraverso il "post" poi rimosso, in quanto: 1) risulta accertata e non contestata dalla ricorrente l'esistenza di un rapporto conflittuale della Pa.So. e del Co. nei confronti del Sindaco, in merito all'esecuzione dei lavori pubblici di cui si è parlato, che era sfociato in una controversia innanzi al giudice amministrativo; 2) le videoriprese accompagnate dalle espressioni offensive rivolte da una voce femminile all'indirizzo del Fa.Gi. il giorno in cui quest'ultimo si era presentato, insieme con appartenenti alle forze dell'ordine, proprio nel luogo di esecuzione dei lavori osteggiati dai coniugi Pa.So.-Co., sono state eseguite sia all'esterno, che all'interno dell'esercizio commerciale del Co., da una donna, che aveva agito in presa diretta, individuando i destinatari delle riprese nei cittadini di S, con i quali aveva interloquito direttamente e dai quali aveva ricevuto, mentre riprendeva, messaggi di sostegno; 3) sussiste un'evidente consequenzialità, cronologica e logica, tra le videoriprese in questione e la pubblicazione sul profilo "Instagram" dell'albergo I Narcisi del "post" di cui si è già parlato, in quanto intervenuta ad appena un giorno di distanza dalla realizzazione dei filmati, attraverso il profilo "Instagram" di un'attività imprenditoriale direttamente riconducibile a uno dei due soggetti, la Pa.So., che contrastavano l'esecuzione dei lavori pubblici voluti dal Fa.Gi., con modalità di comunicazione che facevano ancora una volta, come avvenuto per le videoriprese, riferimento ai cittadini di S, ringraziati per il sostegno fornito in un conflitto, che, tuttavia, ora deve proseguire esclusivamente "sulla strada del diritto", evidentemente non seguita nel "post" poi rimosso. La corte territoriale, inoltre, con motivazione anche in questo caso dotata di intrinseca coerenza logica, ha escluso che possa scagionare la Pa.So. quanto riferito da Gu.So., collaboratrice dell'hotel I Narcisi, posto che la sua affermazione di detenere in via esclusiva le credenziali di accesso al menzionato profilo "Instagram", risulta nei fatti contraddetta dalla contestuale affermazione di avere escluso "di essere l'autrice e tantomeno l'inserzionista del post di ringraziamento" (cfr. p. 27 della sentenza di appello), la cui pubblicazione, dunque, dimostrata dalla produzione dello screenshot prodotto dalla parte civile, rende evidente che altri, cioè, per le ragioni esposte, la Pa.So., disponeva delle credenziali dì accesso.
Orbene il percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale appare del tutto conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione della prova indiziaria, secondo cui il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) e l'intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 8863 del 18/11/2020, Rv. 280605).
5.1. Inammissibile appare il secondo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente deduce, al tempo stesso, travisamento della prova e travisamento del fatto.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di Cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, essendo estranea al giudizio di legittimità la reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
L'insistenza con cui la ricorrente lamenta il travisamento del fatto (cfr. pp. 12; 14; 15 del ricorso), rende evidente l'inammissibilità anche della doglianza con cui si eccepisce il travisamento della prova. Come affermato, infatti, dall'orientamento da tempo dominante nella giurisprudenza di legittimità, nel caso, come quello in esame, di cosiddetta "doppia conforme", il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, Rv. 283777; Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Rv. 281665), laddove, come si è già detto, la Pa.So. con le sue censure propone una reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione.
Appare, comunque, opportuno affermare la correttezza della qualificazione giuridica della condotta della Pa.So., operata dai giudici di merito.
Una volta dimostrata la pubblicazione su "Instagram" dei filmati contenenti le frasi offensive e la permanenza in tale spazio per l'intero giorno precedente a quello in cui ne venne operata la rimozione, risulta integrata la fattispecie di reato di cui all'art. 595, c.p. Come affermato, infatti, dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di un "social network" (come "Instagram" o "Facebook") integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (cfr. Sez. 5, n. 13979 del 25/01/2021, Rv. 281023; Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015, Rv. 264007; Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, Rv. 269090). Né, come preteso dalla ricorrente, appare configurabile nel caso che ci occupa la diversa fattispecie di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, delitto depenalizzato ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità, con uniforme orientamento, ha chiarito che, in tema di delitti contro l'onore, si versa nell'ipotesi depenalizzata dell'ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quando siano contestualmente presenti - fisicamente, nella stessa unità di tempo e di luogo, o "virtualmente", nel caso di utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione - l'offeso, i terzi e lo stesso offensore, mentre, ove manchi la possibilità di interlocuzione diretta tra autore e destinatario dell'offesa, che resti deprivato della possibilità di replica, vale a dire quando tra l'offensore e l'offeso non sia possibile instaurare un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest'ultimo un contraddittorio immediato, attuato con modalità tali da assicurare una sostanziale "parità delle armi", si configura il delitto di diffamazione (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 17563 del 23/03/2023, Rv. 284592; Sez. 5, n. 5982 del 10/11/2022, Rv. 284220).
In applicazione di tali principi è stato così affermato che integra il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, l'invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una "chat" condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito (cfr. Sez. 5, n. 28675 del 10/06/2022, Rv. 283541).
Di tali principi la corte territoriale ha fatto buon governo, evidenziando come una volta terminate le videoriprese in presenza del sindaco - che, dunque, almeno astrattamente in questa fase avrebbe avuto la possibilità di replicare, ove si fosse accorto di essere ripreso e offeso dalla Pa.So. - "dato luogo alla pubblicazione di quei video, l'imputata ha consentito la successiva diffusione degli stessi a un numero indeterminato dei fruitori del socialnetwork, che hanno potuto visionarli in assenza della persona offesa, come tale impossibilitata ad interloquire".
Conclusa la fase delle riprese in diretta su "Instagram", rileva con logico argomentare la corte di appello, per la persona offesa è venuta meno ogni possibilità di replica immediata, di instaurazione di un contraddittorio immediato con la Pa.So., in posizione di parità, "poiché i video sono rimasti on-line, dunque suscettibili di essere visualizzati in differita da parte di un numero indeterminato di soggetti", come dimostrato dalla circostanza che il Fa.Gi. è stato raggiunto da svariati messaggi, provenienti non solo da cittadini di S, per commentare quanto era accaduto (cfr. pp. 28-29 della sentenza oggetto di ricorso).
5.2. Infondato appare il terzo motivo di ricorso.
Sul punto ritiene il Collegio di aderire all'orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di delitti contro l'onore, costituisce legittimo esercizio del diritto dì critica politica la diffusione, con mezzo di pubblicità, di giudizi negativi circa condotte biasimevoli poste in essere da amministratori pubblici, purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale (cfr. Sez. 5, n. 4530 del 10/11/2022, Rv. 283964).
Con particolare riferimento a quest'ultimo profilo, si è opportunamente chiarito che, in tema di diffamazione, nel caso di condotta realizzata attraverso "social network", nella valutazione del requisito della continenza, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi sempre superati quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo (cfr. Sez. 5 , n. 8898 del 18/01/2021, Rv. 280571).
La fattispecie concreta portata all'attenzione della Suprema Corte nel caso citato da ultimo riguardava non a caso la pubblicazione di commenti "ad hominem" umilianti e ingiustificatamente aggressivi su una bacheca "facebook", pubblica "piazza virtuale" aperta al libero confronto tra gli utenti registrati.
Tali si presentano le espressioni sprezzanti, che superano il limite della continenza, utilizzate dalla Pa.So. nei video pubblicati su "Instagram", con cui l'imputata si rivolge al Fa.Gi., chiamandolo "pagliaccio"; "cane"; "cialtrone"; gli annuncia che il suo destino sarebbe stato quello di "tornare a cuccia", come i cani; afferma che il Fa.Gi. era in grado di raggiungere sessualmente l'orgasmo solo presenziando all'esecuzione dei lavori avversati dalla ricorrente e dal marito; deride il fisico del sindaco, insistendo sul fatto che quest'ultimo era talmente ingrassato "che il Prefetto era stanco di mandargli le fasce tricolore e gliene ha mandata una elasticizzata" (sull'idoneità delle offese riferite all'aspetto fisico della vittima a integrare il reato di cui all'art. 595, c.p., cfr. Sez. 5, n. 27922 del 22/02/2018, Rv. 273229).
Identiche considerazioni valgono per l'invocato riconoscimento della causa di non punibilità della provocazione.
Al riguardo è sufficiente rammentare che in tema di diffamazione, la causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma 2, c.p., sussiste, non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018, Rv. 273131). In questa prospettiva, con altro condivisibile arresto, si è specificato che, in tema di diffamazione, ai fini della applicabilità della causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma secondo, c.p., l'illegittimità intrinseca che deve connotare il "fatto ingiusto" altrui non può essere individuata sulla base dei criteri che presiedono al riconoscimento dell'illegittimità di un atto amministrativo, ma si configura solo in comportamenti che "ictu oculi" non possano, neppure astrattamente, trovare giustificazione in disposizioni normative ovvero nelle regole comunemente accettate della convivenza civile (cfr. Sez. 5, n. 4943 del 20/01/2021, Rv. 280333).
Appare pertanto evidente come la scelta del Sindaco di presenziare all'esecuzione dei lavori pubblici di cui si è parlato, pur in presenza di una situazione di conflittualità con la ricorrente e il marito, non possa qualificarsi in termini di ingiustizia, essendo frutto di una valutazione del tutto legittima dell'autorità politico-amministrativa locale, "determinata dalla necessità di verificare la situazione denunciata dall'impresa esecutrice delle opere - che comunicava all'ente appaltante l'atteggiamento ostile dei coniugi Co.-Pa.So. teso a ostacolare l'esecuzione dei lavori - e di cercare di provi rimedio", rileva il giudice di appello (cfr. p. 31), e certo, per le modalità con cui si è svolta, non contraria alle regole comunemente accettate della convivenza civile. 5.3. Inammissibile, perché generico e manifestamente infondato si appalesa, infine, l'ultimo motivo di ricorso.
Come affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, invero, in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l'obbligo motivazionale mediante l'indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l'ammontare del risarcimento (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018, Rv. 274229), sicché la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (cfr. Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Rv. 258170).
A tanto la corte territoriale ha provveduto, nel confermare la condanna al risarcimento dei danni morali nella misura di 3000,00 euro, pronunciata dal giudice di primo grado, facendo riferimento alla gravità della condotta posta in essere dalla Pa.So., desunta sia dal contenuto, sia dalle modalità di diffusione, particolarmente invasive, delle frasi diffamatorie, ed esprimendo anche un ragionevole giudizio di adeguatezza del quantum risarcitorio, rispetto al danno di immagine patito dalla persona offesa (cfr. pp.34-35).
6. Al rigetto del ricorso, segue la condanna della Pa.So., ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla costituita parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 3600,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, la ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 3.600,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 7 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2024.