RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'Appello di Catania confermava la pronuncia di condanna di primo grado di Fe.Vi. per i delitti di cui agli artt. 13 della legge n. 47 del 1948, 595 e 596-bis cod. pen., commessi in danno di Ra.Vi.
Per i medesimi contenuti, il ricorrente Se.Pi. è stato chiamato a rispondere quale direttore responsabile della testata #(Libero)# Quotidiano.
2. Avverso la richiamata sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione Fe.Vi. e Se.Pi., con il comune difensore di fiducia, avv. #(Valentina Ramella)#, affidandosi a tre motivi, di seguito ripercorsi, entro i limiti di cui all'art. 173-bis disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente Fe.Vi. denuncia la sentenza impugnata ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), b) e c), cod. proc. pen., per violazione del principio di correlazione tra la prospettazione accusatoria e la sentenza nonché con riferimento alla ritenuta integrazione dei delitti a fronte del legittimo esercizio del diritto di cronaca e critica politica, nonché per mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Con questo primo, articolato motivo, il Fe.Vi. censura, innanzi tutto, la decisione della Corte territoriale laddove ha disatteso il motivo di appello con il quale aveva denunciato che, in realtà, sia nella querela che nel capo di imputazione non si faceva specifico riferimento al contenuto dell'articolo apparso sul quotidiano #(Libero)#, bensì soltanto al titolo, al sovratitolo ed al c.d. catenaccio.
In particolare lamenta che la pronuncia impugnata, nell'assumere che il solo richiamo all'articolo apparso in prima pagina fosse sufficiente ad evocarne il contenuto, ha violato il fondamentale principio di correlazione tra prospettazione accusatoria e sentenza e ha così illegittimamente ritenuto integrata la sua responsabilità penale, che, invero, non avrebbe potuto essere affermata per contenuti, come quelli esultanti il testo dell'articolo, derivanti solo dalle scelte del direttore responsabile, carica che egli all'epoca non rivestiva nella testata #(Libero)# Quotidiano. D'altra parte, la stessa querela non faceva riferimento, così non consentendo il relativo esercizio dell'azione penale, al contenuto dell'articolo.
Sotto altro versante, il Fe.Vi. deduce l'illogicità e la carenza di motivazione della decisione impugnata laddove ha ritenuto integrata la sua responsabilità penale per il delitto di diffamazione, senza riconoscere, pur in presenza dei relativi presupposti, l'esimente di cui all'art. 51 cod. pen.
A riguardo premette che aveva redatto un editoriale e non un articolo di cronaca, il che gli avrebbe consentito una maggiore libertà espressiva.
Di qui sottolinea che, quanto al profilo della verità della notizia, sarebbe stato travisato il contenuto dell'articolo che si limitava a fare riferimento alle indagini penali che al tempo avevano attinto il Sindaco di Roma ed avevano avuto un'ampia eco sulla stampa, al punto da non rendere necessaria un'attività di riscontro degli stessi, in quanto erano ormai ampiamente noti al momento della pubblicazione.
D'altra parte, sarebbe stato erroneo il riferimento, al fine dì escludere la verità sul piano putativo del narrato, all'assoluzione della Ra.Vi., intervenuta solo negli anni successivi.
Il ricorrente contesta, inoltre, la motivazione della decisione impugnata nella parte in cui ha assunto il superamento dei limiti della continenza espressiva in ragione del titolo "Patata bollente" e di espressioni come "Tubero incandescente", che non avevano alcuna connotazione sessista ma si riferivano solo all'analogia dei problemi che aveva avuto la Ra.Vi. rispetto a Be. assumendo che, almeno a titolo di dolo eventuale, il Fe.Vi. avrebbe dovuto prevedere che un lettore medio avrebbe attribuito detta connotazione a tali espressioni.
La difesa dell'imputato pone in rilievo, ulteriormente, che la propria responsabilità penale per il titolo e per il corredo grafico dell'articolo, che pure vengano individuati dal direttore responsabile e dal titolista, è stata desunta dalla sua partecipazione alla riunione di redazione nella quale si parlò del titolo solo perché nell'incipit dell'articolo si faceva nuovamente riferimento alla stessa espressione con quella "Ci risiamo con le patate bollenti".
Sotto un distinto profilo il Fe.Vi. lamenta di essere stato ritenuto penalmente responsabile anche per la riproduzione del suo editoriale sia sulla testata telematica #("#(LiberoQuotidiano.it")# che sui canali facebook e twitter della medesima testata, attraverso un travisamento delle dichiarazioni del teste Ce. il quale aveva riferito di essere completamente estraneo a tali forme di divulgazione degli articoli, inferendo, invece, che non poteva che essere consapevole di tali ordinarie forme di diffusione dei contenuti del quotidiano cartaceo.
2.2. Con il secondo motivo Se.Pi. lamenta violazione dell'art. 62-bis cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in relazione a tale disposizione, nella misura in cui è stato confermato dalla sentenza di appello il diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Ciò in quanto detto diniego è stato argomentato per la sua sola posizione di direttore responsabile, il che vorrebbe dire che sarebbe precluso in astratto a chi la rivesta di avere un'attenuazione del trattamento sanzionatorio, e per non avere egli riconosciuto l'addebito, argomentazione, questa, in contrasto con il noto brocardo nemo tenutur se detegere.
2.3. Mediante il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione degli artt. 185 c.p. e 1227 c.c., per carente motivazione sul motivo di appello relativo alle statuizioni civili.
A riguardo osservano che la Corte territoriale si sarebbe limitata a confermare pedissequamente la decisione di primo grado omettendo di confrontarsi con le argomentazioni difensive e con il compendio probatorio in atti in ordine alla sussistenza del danno ed al nesso di causalità con la pubblicazione asseritamente diffamatoria.
In particolare, la sentenza di secondo grado non avrebbe vagliato i plurimi elementi addotti dalla difesa in senso contrario al pregiudizio non patrimoniale subito dalla Ra.Vi. a fronte delle numerose manifestazioni di sostegno e di vicinanza delle quali era stata destinataria da parte di figure pubbliche e politico-istituzionali nonché della reazione ufficiale sui propri canali social ufficiali nella quale aveva chiarito di non sentirsi affatto vittima.
Inoltre, la Corte avrebbe errato nel non ritenere che il mancato esercizio del diritto di rettifica da parte della persona offesa escludesse il danno o comunque costituisse un comportamento rilevante ex art. 1227 c.c. ai fini della riduzione dello stesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre premettere che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, a vagliare la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145 - 01; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706 - 01).
2. Il primo, articolato motivo di ricorso proposto da Fe.Vi., non è fondato.
Quanto alle censure con le quali è dedotta una motivazione carente e/o manifestamente illogica da parte della Corte territoriale, va ricordato che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 - 01).
2.1. Ciò posto, con riferimento alla mancanza di querela della parte civile anche rispetto all'articolo in sé e per sé considerato nonché all'assenza di riferimenti specifici allo stesso capo di imputazione, la decisione impugnata ha correttamente ritenuto, per un verso, che nella querela presentata da Ra.Vi., si faceva espresso riferimento a pag. 2 al contenuto dell'articolo (laddove era posto in rilievo che "dalla premessa e dall'intero articolo Fe.Vi. afferma la seguente equazione la Ra.Vi.o è come Ru.Ru., ovvero la Ra.Vi. ha portato uno scandalo identico a quello che suscitò la prostituta/escort Ru.Ru. nella nota vicenda con Be.) e, per un altro, che nel capo di imputazione è richiamato anche l'articolo apparso in prima pagina sul quotidiano #(Libero)# il 10 febbraio 2017.
D'altra parte, va aggiunto, a quest'ultimo riguardo che, indiscusso l'esercizio della querela da parte della Ra.Vi. anche con riferimento al contenuto dell'articolo, il riferimento ad esso, senza specificazioni sul contenuto diffamatorio delle espressioni ivi contenute, nel capo di imputazione ha comunque posto adeguatamente l'imputato in grado di difendersi dalla prospettazione accusatoria, essendo egli ben consapevole della portata dell'articolo che aveva redatto e di dover interloquire anche su di esso.
2.2. Anche la parte del motivo con la quale il ricorrente Fe.Vi. si duole che gli sia stata attribuita una responsabilità che non poteva essergli ascritta, quale semplice articolista, per il titolo, il sovra-titolo e il c.d. catenaccio, contenenti espressioni e frasi ad effetto nei confronti della parte civile, non è fondata, per il complesso delle ragioni di seguito indicate.
Non vi è dubbio che la responsabilità per la veicolazione complessiva dell'informazione su una testata è del direttore responsabile che, assumendo la paternità di ciò che viene pubblicato, si pone, ex art. 57 cod. pen., in una posizione di garanzia, in virtù dell'obbligo di controllo diretto ad impedire che, con la pubblicazione, siano commessi reati, mentre il direttore editoriale detta le linee di impostazione programmatica e politica del quotidiano - in rappresentanza dell'azienda editrice del giornale - successivamente elaborate e realizzate dal direttore responsabile, senza, tuttavia, condividerne la responsabilità di cui all'art. 57 cod. pen., prevista espressamente solo per il direttore responsabile (Sez. 5, n. 42309 del 02/05/2016, Rv. 268460 - 01; Sez. 5, n. 42125 del 11/07/2011, Rv. 251705 - 01).
Tuttavia, la difesa del FE.VI. non si confronta con la circostanza, di carattere decisivo, che le pronunce di merito ne hanno affermato la responsabilità penale anche per il titolo, l'occhiello e gli altri elementi grafici che corredano l'editoriale, quale concorrente nel delitto del direttore responsabile, in forza di concorrenti e logiche argomentazioni.
Invero, come congruamente evidenziato da tali decisioni, l'imputato ha partecipato alla riunione con la redazione nella quale è stato scelto il titolo, e, inoltre, vi è un'evidente corrispondenza tra il titolo "Patata bollette" e l'incipit dell'editoriale scritto dallo stesso Fe.Vi.
2.3. Quanto alla verità putativa delle notizie e al superamento dei limiti della continenza espressiva, il ricorso del Fe.Vi. ha indugiato sulla natura dell'articolo in discussione, quale editoriale e non articolo di cronaca.
Il collegio deve di qui prendere posizione sulla possibilità per il giornalista che redige un editoriale di poter avere una maggiore libertà espressiva al fine del vaglio dei presupposti di cui all'art. 51 cod. pen.
La risposta non può essere affermativa, dovendo anzi affermarsi che detti presupposti devono essere valutati con rigore ancora maggiore nel caso di un editoriale sia in ragione dell'autorevolezza della firma di chi lo sottoscrive (che induce il c.d. lettore medio a riporre maggiore fiducia nel contenuto dell'articolo), sia del peculiare rilievo che ad un contributo di tal fatta è dato nell'ambito del giornale, elementi dai quali deriva di norma una maggiore offesa al bene protetto della reputazione della persona offesa.
2.3.1. Orbene, ciò posto, con riferimento al requisito della verità putativa, se è vero che in quel momento il sindaco di Roma era attinto da un'indagine già nota sulla regolarità del conferimento di alcuni incarichi nell'ente territoriale, la questione con la quale la difesa del ricorrente FE.VI. neppure si confronta è che in realtà alcuna verità, neppure putativa, poteva essere ascritta alla reale notizia che l'articolo voleva veicolare, ossia alla correlazione tra un'ipotetica irregolarità e la relazione privata della Ra.Vi. con un proprio collaboratore.
Con riferimento ai limiti della continenza espressiva, occorre considerare che in data 10 febbraio 2017 è apparso sul quotidiano "#(Libero)#" l'editoriale per cui è processo, corredato dal titolo "Patata bollente", preceduto dal sopratitolo "La vita agrodolce della Ra.Vi.", seguito dal c.d. catenaccio "La sindaca di Roma nell'occhio del ciclone per le sue vicende comunali e personali. La sua storia ricorda l'epopea di Be. e delle Olgettine, che finì malissimo".
A pagina 3 dello stesso quotidiano l'editoriale di Fe.Vi. è stato ripreso con il titolo "Una patata bollente può bruciare Ra.Vi." e con il catenaccio "La Ra.Vi. ha mostrato un debole per un dipendente comunale che gli ha dato l'aumento: meglio il Cav. che pagava di tasca propria".
All'interno dell'editoriale, sempre a pag. 3, inoltre, è poi tra l'altro scritto: "Finire sulla brace è un rischio per tutte le belle signore e perfino per quelle che belle non sono"; "Il dramma della quale (Ra.Vi.) cominciò il giorno in cui la signora fu colta dal fotografo mentre si intratteneva, come la famosa gatta sul tetto che scotta del Campidoglio, con un dipendente comunale. La gente si pose un malizioso quesito: ma che cazzo ci faceva madame e il suo cavalier servente sulle tegole del nobile edificio che si erige sul Mons. Capitolinus?"; "Giuro che non sono mai salito con una fidanzata, se pure precaria, su un tetto per conversare, si fa per dire"; "Intendiamoci, personalmente non condanno i peccati della carne e neppure quelli del pesce. Il moralismo non è il mio forte. Pertanto mi limito a sottolineare che le debolezze accertate del Cavaliere meritano la medesima considerazione di quelle supposte della sindaca. Le valutiamo con lo stesso metro di giudizio: l'erotismo è legittimo ed è materia su cui non vale la pena di indagare. Ciascuno ha il diritto di coricarsi con chi gli garba. Si dà però il caso che Be. pagava di tasca i propri vizietti, mentre Ra.Vi. detta Giulietta ha attinto ai soldi pubblici per triplicare lo stipendio a Romeo"; "Ho già scritto di lei che sembra la commessa di un negozio di intimo (non intimissimo) e non insisto".
Tali espressioni costituiscono non certo un parallelismo politico con le vicende giudiziarie che avevano riguardato Be. secondo l'impostazione della difesa dell'imputato bensì si risolvono in un'incontrollata aggressione della persona offesa, di carattere chiaramente sessista, che supera ogni tollerabile limite della continenza nell'esercizio del diritto di cronaca e finanche in quello di critica (cfr. Sez. 5, n. 29730 del 04/05/2010, Rv. 247966 -01).
Infatti ricorre l'esimente dell'esercizio dei diritti di critica e di satira politica nel caso in cui le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, laddove esse non si risolvano, come accaduto nel caso in esame, in un'aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale (ex ceteris, Sez. 5, n. 9953 del 15/11/2022, dep. 2023, Rv. 284177 - 01; Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Rv. 282871 - 01; Sez. 1, n. 5695 del 05/11/2014, dep. 2015, Rv. 262531 - 01).
Ed, invero, è evidente dal tenore dell'articolo, del quale si sono riportati alcuni significativi passaggi, che il Sindaco di Roma era descritto, alla stregua di quanto correttamente evidenziato in sede di merito, come una donna incapace di frenare le proprie pulsioni sessuali al punto da compromettere l'imparziale esercizio delle sue funzioni istituzionali per dare un incarico ad un presunto amante.
Questa connotazione sessista dell'articolo è resa assolutamente evidente dalla circostanza che l'espressione "patata bollente" riferita alla Ra.Vi., tanto nel titolo che nell'incipit dell'articolo a firma dell'imputato Fe.Vi. creava con il "Ci risiamo con le patate bollenti" un effetto/parallelismo alla stregua di quanto esposto già nell'atto di querela con l'escort Ru.Ru. piuttosto che con il politico Be..
L'utilizzo di espressioni così forti era proprio diretto a creare nel lettore l'effetto diffamatorio ottenuto dacché alcuna violazione dell'art. 43 cod. pen. sul piano dell'elemento soggettivo del delitto, peraltro punito a titolo di dolo generico, può ritenersi integrata.
2.4. Prive di fondamento sono, infine, le doglianze del ricorrente Fe.Vi. quanto alla sua carenza di responsabilità per la diffusione dell'articolo sulla testata on line e profili facebok e twitter.
A riguardo, come si è evidenziato, l'imputato assume un travisamento delle dichiarazioni del direttore Ce..
Ribadito che il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova (tra le altre, Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370 - 01), nella fattispecie per cui è processo mediante la deduzione di un travisamento della prova il ricorrente chiede a questa Corte, in realtà, una diversa valutazione della prova con il teste Ce..
Invero, la decisione impugnata non ha travisato nei termini che si sono indicati le dichiarazioni rese dallo stesso, limitandosi a valorizzare, nell'ambito di un apprezzamento che, se congruamente argomentato, come nella fattispecie in esame, è riservato al giudice di merito, quanto riferito dal Ce. sulla circostanza che il Fe.Vi., quale direttore editoriale, e già fondatore della testata, non poteva che essere consapevole della diffusione degli articoli più importanti del quotidiano #(Libero)# sia sulla testata on line che sui profili social.
3. Il motivo proposto dal Se.Pi. con il quale lamenta l'omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche è manifestamente infondato.
Infatti, occorre considerare che il ricorrente in appello si era limitato a valorizzare la sua incensuratezza, elemento che, dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, non è più ex se sufficiente ai fini della concessione della diminuente (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489 - 01).
E sebbene il SE.PI. abbia dedotto anche la correttezza della sua condotta processuale, non ha neppure esplicitato nell'atto di appello in cosa tale correttezza si sarebbe concretizzata, dovendosi del resto considerare che, anche qualora tale condotta fosse stata precisata, di per sé e salve peculiari situazioni, essa non è un elemento positivo idoneo valutabile per la concessione delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62-bis cod. pen., poiché fa parte della complessiva strategia processuale dell'imputato (cfr. Sez. 2, n. 22 del 24/11/2021, dep. 2022, Rv. 282509 - 02).
4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
4.1. Sotto un primo profilo, come ha congruamente posto in rilievo la sentenza impugnata a seguito dell'istruttoria espletata, è emerso, in forza delle dichiarazioni della persona offesa, che la stessa era stata particolarmente turbata dall'articolo, al punto che per lo stress conseguente era finita al pronto soccorso.
Giova ricordare, in proposito, come da lungo tempo, le Sezioni Unite della Corte di cassazione abbiano chiarito che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 -01).
Sicché, se le dichiarazioni della persona offesa che si è costituita parte civile devono essere valutate con particolare rigore, nella fattispecie per cui è processo le stesse sono state corroborate dalle concordanti propalazioni dibattimentali del teste oculare Fu.Te.
4.2. Con riferimento all'incidenza del mancato esercizio del diritto di rettifica da parte della Ra.Vi. sulla quantificazione del danno, nella giurisprudenza civile di questa Corte è stato osservato, con un principio cui il collegio intende conformarsi, che l'istanza di rettifica costituisce una facoltà attribuita all'interessato dall'art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, avente la finalità di evitare che la pubblicazione offensiva dell'altrui prestigio e reputazione possa continuare a produrre effetti lesivi, ma non elimina i danni già realizzati (Sez. 3 civ., n. 9038 del 15/04/2010, Rv. 612718 - 01).
E' pur vero che il mancato esercizio di questa facoltà può incidere, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., sulla quantificazione del danno, ove si accerti che avrebbe potuto essere attenuato con la rettifica (cfr. Sez. 3 civ., n. 9038 del 15/04/2010, Rv. 612718 - 01).
Tuttavia, gli imputati non hanno alcun interesse giuridicamente rilevante a far valere tale doglianza poiché nei gradi di merito si è proceduto solo alla condanna generica degli stessi al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi nella sede civile dove ben potranno far valere, ove ritengano, dette questioni afferenti la quantificazione del danno.
5. Pertanto il ricorso di Fe.Vi. deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, mentre il ricorso di Se.Pi. deve essere dichiarato inammissibile. Segue pertanto la condanna di tale ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
6. Gli imputati devono inoltre essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 5.500,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di Fe.Vi.e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali;
Dichiara inammissibile il ricorso di Se.Pi.e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende;
Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 5.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 19 giugno 2024.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2024.