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Diffamazione: necessario il carattere denigratorio delle parole per configurare il reato

Diffamazione

Cassazione penale sez. V, 09/04/2024, n.21869

Ai fini della sussistenza del delitto di diffamazione, è necessario che le parole utilizzate siano attributive di qualità sfavorevoli alla persona offesa, ovvero che gettino, comunque, una luce negativa su quest'ultima, sicché è privo di rilevanza penale l'aver qualificato, in cartella clinica, come "improprio" il ricovero di una paziente in un reparto ospedaliero. (In motivazione, la Corte ha precisato che la predetta annotazione da parte dell'imputato costituiva solo espressione di dissenso rispetto alla scelta del collega che aveva disposto il ricovero, non potendosi attribuire carattere denigratorio alla mera attribuzione ad altri di un errore).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 14 febbraio 2023 la Corte di appello di Napoli, all'esito del gravame interposto da Ru.Lu., ha confermato la pronuncia in data 15 novembre 2021 con la quale il Tribunale di Napoli ne aveva affermato la responsabilità per il delitto aggravato di diffamazione (art. 595, commi 1 e 3, cod. pen.) - commesso in pregiudizio di An.De. - e, concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, lo aveva condannati alla pena di Euro 300 di multa, con le conseguenti statuizioni civili in favore dello stesso De.. In particolare, al Ru. (medico in servizio presso l'ospedale Fatebenefratelli di Napoli) è stato contestato il delitto in imputazione per aver annotato sul diario clinico della cartella sanitaria di Er.Sc. la seguente espressione: "la paziente è stata IMPROPRIAMENTE ricoverata nel reparto medicina", così offendendo l'onore del De. (medico del medesimo nosocomio) che aveva ordinato tale ricovero. 2. Avverso la sentenza di appello il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, articolando cinque motivi (di seguito esposti nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, d. att. cod. proc. pen.). 2.1. Con il primo motivo sono stati denunciati la violazione dell'art. 595 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, anche in relazione al rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. A fronte del contenuto neutro - e, dunque, non denigratorio - dell'avverbio "impropriamente", i Giudici di merito avrebbero tratto la sussistenza del fatto valorizzando l'intenzione offensiva ascritta al ricorrente, ossia sovrapponendo l'elemento soggettivo del reato all'elemento oggettivo; in particolare, la Corte territoriale avrebbe attribuito rilievo al contesto comunicativo in cui si colloca l'espressione e alla potenziale e concreta comunicazione di essa a più persone, senza tuttavia indicare alcuna circostanza relativa a tale contesto (limitandosi piuttosto a fare riferimento a quello che dovrebbe essere il contenuto della cartella clinica), non constando piuttosto alcun elemento che deponga per la portata allusiva dell'espressione (costituita da un unico avverbio) ed anzi essendo risultato corrispondente al vero che nella specie, alla luce delle condizioni cliniche della paziente, il suo ricovero nel reparto di medicina fosse inidoneo a tutelarne la salute ed essendo emerso dalla deposizione del primario dello stesso reparto, dott. Fo., che l'affermata improprietà del ricovero non è stata ritenuta denigratoria verso la persona offesa. Sotto tale ultimo profilo, in maniera illogica e sostanzialmente priva di motivazione sarebbe stata rigettata la richiesta di esaminare nuovamente il dott. Fo., nonostante essa - nel presupposto che la diffamazione è un reato di evento - si fondasse proprio sulla necessità che l'espressione in imputazione fosse stata in effetti percepita da terzi come denigratoria. 2.2. Con il secondo motivo sono stati dedotti la violazione degli artt. 595 e 51 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato e all'esclusione della scriminante del diritto di critica. La Corte di merito avrebbe disatteso la prospettazione difensiva, secondo cui l'annotazione dell'imputato era meramente ricognitiva e volta a documentare le ragioni della presenza di una paziente in grave pericolo di vita in una struttura sanitaria e in un reparto inidonei a garantirle la sopravvivenza, attribuendo al ricorrente un "dolo censorio" in ragione di fattori esterni al vocabolo "impropriamente", affermando in maniera illogica che l'annotazione in discorso (relativa al ricovero disposto dal De. senza neppure compulsarlo sulla delicata situazione della paziente, che necessitava di un intervento urgente di neurochirurgia, nonostante il Ru. fosse l'unico neurologo in servizio nel nosocomio) non avesse alcuna utilità e non contenesse alcun elemento di novità (quando, invece, essa era doverosa nell'ottica della prescritta chiarezza e completezza della cartella clinica, anche rispetto ai sanitari che successivamente avrebbero avuto in cura la Sc.). Ed anche a ritenere che l'imputato abbia avuto un intento censorio, erroneamente si è escluso che abbia esercitato il proprio diritto di critica con un termine "contenuto", avendo al riguardo la Corte di merito ritenuto - in maniera del tutto irrazionale (considerata la tempestività richiesta dal caso in esame) e senza argomentare compiutamente sulle allegazioni addotte con l'atto di appello - che il Ru., al più, avrebbe dovuto investire della questione i propri superiori. 2.3. Con il terzo motivo sono stati addotti la violazione dell'art. 59, comma 4, cod. pen. e il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza di un errore incolpevole che avrebbe determinato l'agire del Ru., in particolare in relazione al mancato espletamento di una consulenza neurochirurgica: sotto tale profilo, la Corte di appello avrebbe offerto una lettura illogica dei plurimi elementi emersi in dibattimento, pienamente idonei a fondare la falsa rappresentazione della realtà da parte del ricorrente, rigettando la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale; ed altrettanto illogicamente avrebbe escluso in ogni caso rilievo a tale falsa rappresentazione. 2.4. Con il quarto motivo sono stati prospettati la violazione dell'art. 599 cod. pen. e il vizio di motivazione in ordine all'esclusione della provocazione e alla mancata rinnovazione dell'istruttoria: la Corte di merito avrebbe ritenuto priva di proporzione la condotta del Ru. (così riconoscendo la sussistenza di un comportamento provocatorio del De.) senza tuttavia motivare e senza contemplare, nel giudizio di proporzione, il timore dell'imputato di incorrere in responsabilità a causa di una scelta terapeutica non ordinaria del De.. Erroneamente si sarebbe ritenuta superflua l'acquisizione di una denuncia infondata sporta dalla persona offesa nei confronti dell'imputato, parametrandone la rilevanza alla sussistenza della condotta diffamatoria e non invece alla prospettata provocazione. 2.5. Con il quinto motivo sono stati dedotti la violazione dell'art. 131 - bis cod. pen. e il vizio di motivazione con riguardo all'esclusione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, irragionevolmente fondata sul contesto professionale nel quale esso si colloca senza considerare che è stato proprio tale contesto a imporre la verifica dell'adeguatezza del reparto per la tutela della salute della paziente all'imputato, il cui fatto sarebbe "minimo" alla luce dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen.. 3. Il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte di cassazione ha presentato memoria con la quale ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ragione del difetto di offensività dell'espressione in imputazione, che costituirebbe "la semplice stigmatizzazione di un errore che, obiettivamente, non può determinare una seria lesione del bene - interesse protetto" e, comunque, in quanto nella specie "nemmeno era agevole ricollegare l'addebito ad un determinato individuo" e segnatamente al dott. De.. La parte civile ha depositato memoria di replica (con allegati) alla requisitoria, contestando la fondatezza di quanto in essa rassegnato, segnatamente in quanto: non potrebbe analizzarsi correttamente la portata diffamatoria della frase in contestazione in maniera avulsa rispetto al contesto nel quale è stata vergata (nel quale verrebbe intesa, secondo la comune sensibilità dell'uomo medio, in senso negativo, ossia nel senso che "il sanitario che ha effettuato il ricovero ha commesso un errore", escluso dal primario del reparto di medicina); e alle modalità stesse dell'annotazione; la motivazione espressa dai Giudici di merito sarebbe conforme alle regole cui deve uniformarsi la compilazione della cartella clinica; lo stesso imputato avrebbe ammesso di aver sbagliato ad utilizzare l'espressione "impropriamente" e la persona offesa ha rappresentato, nel corso della propria escussione, di essersi sentito offeso. La parte civile ha pure assunto la corretta esclusione dei presupposti di cui all'art. 131 - bis cod. pen.. CONSIDERATO IN DIRITTO Il primo motivo di ricorso è fondato, nei limiti di seguito chiariti, rimanendo assorbite tutte le ulteriori censure. 1. Anzitutto, deve ribadirsi che "in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato" (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019 - dep. 2020, Fabi, Rv. 278145 - 01; Sez. 5, n. 486 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; cfr. pure Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706). 1.2. Ciò posto, l'art. 595 cod. pen. incrimina chiunque, comunicando con più persone, offenda l'altrui reputazione (nei casi in cui la comunicazione non sia diretta all'offeso che vi resta estraneo; cfr. Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742 - 01; Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019, Vicaretti, Rv. 276502 - 01). Questa Corte ha già rilevato che: - "il bene giuridico tutelato dall'art. 595 cod. pen. è l'onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell'ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona, e l'evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (…). Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell'espressione offensiva" (Sez. 5, n. 39059 del 27/06/2019, Bel pietra, Rv. 276961 - 01, che richiama, tra le altre, Sez. 5, n. 47175 del 04/07/2013, Aquilio Ulizio, Rv. 257704); - "ai fini della configurabilità del delitto di diffamazione, è necessario che le parole utilizzate siano attributive di qualità sfavorevoli alla persona offesa, ovvero che gettino, comunque, una luce negativa su quest'ultima" (Sez. 5, n. 17944 del 07/02/2020, Versaci, Rv. 279116 - 01), ossia si sostanzino in un'affermazione che "contiene una carica dispregiativa" tale da essere avvertita nel "comune sentire" come espressione lesiva della reputazione (Sez. 5, n. 4448 del 16/10/2019 - dep. 2020, Girolametti, Rv. 278153 - 01), che può cogliersi anche quando "il contesto (…) determini il mutamento del significato apparente di una o più frasi, altrimenti non diffamatorie, attribuendo ad esse un contenuto allusivo percepibile" dal soggetto medio (cfr. Sez. 5, n. 37124 del 15/07/2008, De Luca, Rv. 242019 - 01, in materia di diffamazione a mezzo stampa, i cui principi sono valevoli in generale per il delitto in discorso; cfr. pure, in motivazione, Sez. 5, n. 47041 del 10/07/2019, Faelutti, Rv. 277742 - 01). Tanto che, coerentemente, la giurisprudenza ha già affermato che "non ha natura diffamatoria l'espressione "pazzo" riferita al titolare di uno studio professionale e pronunciata, nel contesto di una discussione tra colleghi avente ad oggetto l'organizzazione e la funzionalità del lavoro, quale rappresentazione della conduzione scorretta dell'ufficio, foriera di gravi conseguenze sullo stesso" (Sez. 5, n. 17672 del 08/01/2010, Paglietti, Rv. 247218 - 01). 1.2. Nel caso in esame, è dirimente considerare quanto segue Alla luce della ricostruzione del fatto compiuto dai Giudici di merito, in parte qua non oggetto di censura, l'annotazione da parte del Ru. (sia pure in carattere maiuscolo e sottolineato) dell'improprio - ad avviso dello stesso imputato - ricovero nel reparto presso cui prestava servizio della menzionata paziente (disposto dal De.) costituisce un'espressione di dissenso rispetto alla scelta terapeutica del collega ma non ha alcun contenuto denigratorio dell'agire di quest'ultimo poiché non contiene alcuna carica dispregiativa verso di lui e verso la sua competenza professionale, non avendogli attribuito alcuna qualità sfavorevole (evenienza che non può ravvisarsi nella mera qualificazione come erronea di una determinazione non condivisa, per l'appunto, da chi così si esprime, ossia nella mera attribuzione ad altri di un errore), neppure in termini allusivi, che, in effetti, la sentenza impugnata non descrive: difatti, la Corte di merito - richiamando la decisione di primo grado - ha rimarcato l'intenzione diffamatoria (che ha tratto dall'uso del carattere maiuscolo e sottolineato), che tuttavia attiene al profilo soggettivo del reato e non può ex se connotare l'espressione (sotto il profilo oggettivo) quale offensiva, e ha fatto riferimento all'impropria apposizione della scritturazione nella cartella clinica passibile di essere letta da un numero indeterminato di persone, profili questi ultimi neppure correlabili a una modificazione del significato dell'espressione in imputazione, di per sé non offensiva (secondo quanto appena esposto), in termini invece denigratori secondo il comune sentire. 1.3. Si impone, allora, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Ai sensi dell'art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003, si dispone che sia apposta a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza, l'annotazione prevista dall'art. 52, comma 3, cit., volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 9 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.
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