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Diffamazione: la continenza espressiva consente termini offensivi se funzionali alla critica

Diffamazione

Cassazione penale sez. V, 22/05/2024, n.29661

Il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione - pur non vietando l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, non hanno adeguati equivalenti ed hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Pavia confermava la pronunzia del Giudice di Pace di Pavia dell'1.06.2022, che condannava Pe.Do. per il reato di cui all'art. 595 cod. pen., consistito nell'avere inviato, a mezzo pec, al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Pavia un esposto nei confronti dell'avv. Ro.Ci., contenente espressioni offensive dell'onore e del decoro della stessa quali "...l'avv. Ro.Ci. ha dimostrato una insufficiente conoscenza delle più elementari cognizioni della materia universitaria..." "incompetenza dal punto di vista giuslavoristico..." "...veniale... aggressiva". In particolare, l'odierno ricorrente, direttore generale (Omissis) e datore di lavoro, in seguito a delibera e incarico del Consiglio di Amministrazione, ha inviato un esposto al Consiglio dell'Ordine degli avvocati nei confronti dell'avv. Ro.Ci., capo dell'Ufficio legale dell'Università, che si era occupata, commettendo diversi errori, di difendere per la P.A. patrocinata un bando per le progressioni economiche orizzontali dei trecento dipendenti di Ateneo da una serie di contestazioni. Nell'esposto si affermava che l'avv. Ro.Ci., nella qualità, proponeva ed otteneva la distribuzione del contenzioso assegnando le cause e i fascicoli a sé e all'altro patrocinatore dell'Ateneo - l'avv. Li.Gi. - anteponendo il mero guadagno personale a un'equa ripartizione, in spregio a quanto previsto dal vigente regolamento universitario e, ancora, profittando del proprio ruolo, alterava la corretta gestione dell'azione amministrativa, subornando ed assumendo un comportamento intimidatorio nei confronti dei colleghi dirigenti e funzionari, minacciando costantemente ed apoditticamente querele ed azioni legali ad personam, di fatto comprometteva il sereno operato degli uffici ed alterava il regolare corso del trattamento del contenzioso, con continue provocazioni ed imposizioni delle proprie pretese di ordine economico e professionale. 2. Avverso l'anzidetta sentenza, l'imputato propone ricorso a mezzo del difensore di fiducia, avv. Veronica Raimondo, affidato a tre motivi qui di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. per inosservanza e/o errata applicazione della legge penale con riferimento all'art. 598 cod. pen. quanto al mancato riconoscimento dell'esimente applicabile alle offese contenute in scritti presentati in sede disciplinare al Consiglio dell'Ordine Forense. 2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 606 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 51 cod. pen., quale espressione dell'esercizio del diritto di critica e dell'adempimento di un dovere, quanto alla mancata applicazione della causa di non punibilità, deducendo che le dichiarazioni offensive contenute nell'esposto devono essere lette nell'ottica di far emergere le criticità dell'operato del professionista di cui si chiede un giudizio in termini di violazione delle regole deontologiche e la causa di giustificazione dovrebbe ritenersi sussistente laddove il soggetto abbia assolto l'onere di deduzione di fatti nella convinzione anche erronea del rilievo dei medesimi ai fini richiesti. 2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. per inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 51 cod. pen., nonché inosservanza delle norme processuali con riferimento all'art. 192 cod. proc. pen., denunziando l'omessa motivazione in relazione alla valutazione della prova ed ai criteri utilizzati, nonché l'erronea valutazione delle doglianze disciplinari come non contenute e sproporzionate. 3. Si e proceduto con rito cartolare e le parti hanno concluso come riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e fondato per le ragioni qui di seguito esposte. 2. Va analizzato in primo luogo il motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione dell'art. 606 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale con riferimento alla mancata applicazione della scriminante dell'art. 51 cod. pen. quale espressione dell'esercizio del diritto di critica. 2.1. Va premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché e compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, Sentenza n. 2473 del 10/10/2019 - dep. 22/01/2020 - Rv. 278145-0; in senso conforme, n. 41869 del 2013 rv. 2S6706-01, n. 4B698 del 2014 rv. 261284-01, n. 832 del 2006 rv. 233749-01); e ciò ovviamente il giudice di legittimità può e deve fare anche sotto il profilo del dolo e della sussistenza della scriminante del diritto di critica, allorquando gli stessi elementi evidenziati nella sentenza impugnata depongono per il difetto della componente soggettiva del reato (Sez. 5, Sentenza n. 2473 del 10/10/2019). 2.2. Ciò posto, si osserva che nel caso di specie il fatto deve ritenersi scriminato dall'esercizio del diritto di critica. Se puo convenirsi con i giudici di merito sul fatto che le espressioni riportate nell'esposto abbiano portata lesiva della reputazione dell'avv. Ro.Ci., traducendosi in giudizi negativi, secondo il comune sentire, ed implicando "qualità negative" sotto il profilo professionale, va rilevato, tuttavia, che il giudice d'appello avrebbe dovuto dettagliatamente verificare se, nel caso in esame, alla luce del contesto conflittuale indicato e del contenuto complessivo dell'atto firmato dall'imputato, fosse configurabile la scriminante dell'esercizio del diritto di critica, di cui all'art. 51 cod. pen. Ciò in quanto la scansione del procedimento logico - giuridico da seguire implica in primo luogo la valutazione diretta a stabilire se il contenuto della comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della reputazione altrui, che costituisce il proprium del reato contestato e, una volta stabilito il concorso degli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, l'attenzione del giudicante deve spostarsi sull'apprezzamento della linea difensiva volta a giustificare il fatto sotto il profilo della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. e, quindi, sulla verifica di sussistenza dei requisiti di verità e continenza. Questa Corte ha avuto già modo di osservare che non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che invii un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale del proprio legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Sez. 5 n. 33994 del 05/07/2010, Rv. 248422; Sez. 5, Sentenza n. 42576 del 20/07/2016, Rv. 268044). 2.3. Nel caso di specie l'iniziativa dell'imputato (direttore generale dell'(Omissis) e datore di lavoro della parte offesa, capo dell'Ufficio legale della stessa Università) di invio di un esposto al Consiglio dell'Ordine degli avvocati e avvenuto su incarico e delibera del Consiglio di Amministrazione, in quanto finalizzata ad ottenere il controllo da parte dell'Organo competente di eventuali violazioni del codice deontologico forense poste in essere dalla dipendente. In particolare, va rilevato che, a fronte di brani ed espressioni espunti dal contesto e riportati in sentenza, l'esposto ha un contenuto ben più ampio, in quanto ripercorre il contenzioso intercorso tra l'Ateneo, rappresentato dal Direttore Generale ricorrente, e l'avv. Ro.Ci., seguito alla compromissione del rapporto fiduciario, soprattutto in ambito giuslavoristico, in relazione ad una pluralità di lamentate violazioni di obblighi deontologici (dovere di diligenza, dovere di segretezza, conflitto di interessi, riserbo e segreto professionale, rapporto con i collaboratori e assunzione di incarichi, pur se non formalmente, contro una parte già assistita), nonché a comportamenti intimidatori nei confronti dei colleghi dirigenti e funzionari, diffide, minacce di querele ed azioni legali ad personam, che alteravano la corretta gestione dell'azione amministrativa. Nell'atto a firma del ricorrente si fa pure riferimento a provocazioni, imposizioni di proprie pretese di ordine economico e professionale che, se non esaudite, davano inizio ad una campagna denigratoria contro il proprio datore di lavoro, con espressioni quali "attività vessatoria, illegittima, contra legem, marginalizzazione, mobbing"; si fa, altresì, riferimento a comportamenti che tendevano ad estromettere il Direttore Generale, rivolgendosi in via esclusiva al Rettore, che violavano le regole deontologiche e il contratto di lavoro, con compromissione del sereno operato degli uffici ed alterazione del regolare corso del trattamento del contenzioso. In tale contesto, la condotta di Pe.Do. Doria, che - si ripete- ha agito su incarico e previa delibera del Consiglio di Amministrazione dell'Ateneo, di invio di un esposto al Consiglio dell'Ordine degli avvocati, e stata esclusivamente preordinata ad ottenere il controllo sulla correttezza professionale dell'avvocato dirigente l'ufficio legale dello stesso Ateneo, segnalando la eventuale violazione di regole deontologiche della dipendente. Si tratta, pertanto, di un'iniziativa rientrante nel legittimo esercizio di prerogative dell'ente interessato, rappresentato dal Pe.Do. E evidente, allora, che debbano ritenersi sussistenti requisiti normativamente previsti per l'applicazione della esimente di cui all'art. 51 cod. pen., non avendo l'imputato inteso divulgare a chicchessia fatti strettamente attinenti alla persona offesa oggetto delle proprie censure ma solo investire l'organo competente della valutazione della correttezza dell'operato del legale. 2.4. Né l'erroneità del convincimento da parte del ricorrente dell'antigiuridicità del fatto denunciato - la condotta scorretta tenuta dalla dipendente nella distribuzione del contenzioso in spregio a quanto previsto nel regolamento universitario, e nella gestione dell'azione amministrativa - appare idonea ad incidere sull'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non avendo, peraltro, il prevenuto voluto rappresentare un fatto falso. D'altronde, il Consiglio dell'Ordine, cui l'esposto del ricorrente e stato destinato, ne ha potuto accertare l'infondatezza svolgendo gli accertamenti di competenza, così come ha potuto valutare la mancanza di rilevanza penale della condotta della persona offesa, per vero, rappresentata dall'imputato solo in termini dubitativi, confidando nel giudizio di un organo dotato di una competenza qualificata in materia. 2.5. La Corte di appello, valutando l'esposto in esame, non ha fatto buon governo dei principi della consolidata giurisprudenza in materia di esercizio del diritto di critica. Giova innanzitutto richiamare il principio secondo cui nella presentazione di un esposto, con il quale si richieda l'intervento della autorità amministrativa su un fatto del dipendente "ritenuto" contrario alla deontologia, anche se nel comunicato vengono usate espressioni oggettivamente aspre e polemiche, non e configurabile il delitto di diffamazione (Sez. 5, Sentenza n. 7410 del 28/09/2012, Rv. 255212-01; Sez. 5, n. 13549 del 20.2.2008, Rv 239825). Infatti, nel bilanciamento tra due beni costituzionalmente protetti, il diritto di critica (art. 21 Cost.) e l'interesse della parte alla tutela della propria reputazione non può subire un trattamento diverso, per la sostanziale persistente compromissione della reputazione a causa degli eventi veri comunque rappresentati (Sez. 6, n. 11842 del 24/04/1978, Rv. 140038-01; Sez. 5, Sentenza n. 46193 del 26/10/2004, Rv. 230458-01). Va, d'altronde, ribadito che, in tema di diffamazione, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione - pur non vietando l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, non hanno adeguati equivalenti ed hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, Sentenza n.39778 del 5 luglio 2023; Sez. 5, Sentenza n. 17243 del 19/02/2020, Rv. 279133-01). Nella specie, le espressioni offensive adoperate, collocate nel contesto di un più ampio contenzioso tra le parti in cui vengono denunciate plurime violazioni di obblighi deontologici del professionista dipendente dell'Ateneo nonché condotte minacciose ed intimidatorie nei confronti di colleghi, dirigenti e funzionari, provocazioni ed imposizioni di proprie pretese di ordine economico e professionale, assumono la giusta valenza che esse hanno nella vicenda in esame. D'altronde la stessa natura e destinazione dell'esposto incriminato, inviato dal ricorrente a soggetti in buona sostanza deputati a tutelare le ragioni del medesimo, si risolvono in ulteriore elemento di cui tener conto nella valutazione del fatto che è mancata nella sentenza impugnata. Non si può trascurare, inoltre, che quelle affermazioni sono state espresse in termini dubitativi o comunque tali da sottintendere delle lesioni della dignità. oltre che delle prerogative lavorative di chi le ha scritte. Le espressioni usate nell'esposto, correttamente contestualizzate, devono ritenersi strettamente funzionali alla finalità della disapprovazione della condotta della professionista dipendente, consistita anche in continue minacce ad una molteplicità di dipendenti e colleghi aventi ad oggetto la promessa a titolo ritorsivo di azioni legali e querele, e di investire l'organo a ciò deputato della valutazione della correttezza dell'operato del legale. 2.6. Per quanto concerne, poi, il rispetto del limite della continenza, va ribadito che esso non risulta rispettato qualora l'agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione e solo intese a screditare l'avversario mediante la evocazione di una sua presunta indegnità od inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni (Sez. 5, Sentenza n. 17243 del 19/02/2020, Rv. 279133-01; Sez. 5, Sentenza n. 15089 del 29/11/2019, Rv. 279084-01; Sez. 5, Sentenza n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174-01). Orbene, nel caso in esame, tale situazione non si è verificata, posto che le sollecitazioni e le segnalazioni effettuate dal ricorrente con l'esposto in contestazione, sebbene abbiano visto l'utilizzo di termini aspri, non appaiono senz'altro gratuiti, siccome utilizzati nella prospettiva di argomentare e sollecitare una richiesta di intervento per porre rimedio alla ritenuta ingiustificata intempestiva verifica. 2.7. Conclusivamente, dunque, va affermato che non integra il delitto di diffamazione l'invio di un esposto al Consiglio dell'Ordine degli avvocati da parte del Direttore Generale di un Ateneo, su delibera e previo incarico del Consiglio di Amministrazione, nei confronti del legale professionista dipendente, preordinato a segnalare violazioni di regole deontologiche nonché condotte minacciose ed intimidatorie nei confronti di colleghi dirigenti e funzionari, provocazioni ed imposizioni di proprie pretese di ordine economico e professionale, laddove le espressioni adoperate siano strettamente funzionali alla finalità della disapprovazione della condotta e di investire l'organo deputato alla valutazione della correttezza dell'operato del legale. 3. L'accoglimento del motivo di ricorso sulla configurabilità dell'esimente del diritto di critica, di cui all'art. 51 cod. pen., rende superfluo l'esame delle altre doglianze proposte, che, pur fondate, risultano assorbite. 4. A quanto sopra esposto consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Così deciso in Roma il 22 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2024.
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