RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza resa in data in 11 luglio 2023, la Corte d'appello di Venezia ha confermato la decisione di primo grado che aveva assolto Ch.Pa. e Pa.Gi. dal reato di diffamazione, aggravato ai sensi dell'art. 595, secondo comma, cod. pen.
Secondo la rubrica, gli imputati - entrambi avvocati - con atto di citazione in revocatoria ordinaria nei confronti del notaio Bu.Ca. offendevano la reputazione di quest'ultimo con la seguente espressione: "le ripetute azioni giudiziali del Dott. Bu.Ca. provocavano nei genitori sofferenze tali e tante sofferenze, patimenti e dolori morali che nel settembre 2015 portavano alla morte la signora Ma.El. (madre del Dott. Bu.Ca.)", in tal modo accusandolo di essere la causa diretta della morte della propria madre, deceduta, invece, a causa di un'emorragia cerebrale in seguito a un'accidentale caduta. L'atto di citazione veniva portato a conoscenza di più persone in quanto trascritto su Pubblici Registri Immobiliari, assumendo perciò stesso carattere di "atto pubblico".
2. Nell'interesse della parte civile, Bu.Ca., è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi, di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Col primo motivo, si deduce violazione di legge per erronea applicazione dell'art. 598 cod. pen., non ricorrendo, nel caso di specie, le due condizioni richieste dall'esimente in parola. L'offesa espressa nell'atto di citazione in revocatoria ordinaria non aveva, infatti, alcun nesso con l'oggetto di tale atto giudiziario, nel quale gli imputati si sono dilungati in maniera del tutto superflua sulle vicende familiari e patrimoniali tra le parti in causa, al di là di qualsivoglia nesso di funzionalità con le pretese poste a base dell'azione civile e al solo fine di ledere la reputazione del Bu.Ca. con le espressioni già riferite. Ai fini dell'azione revocatoria - osserva il ricorrente - sarebbe stato sufficiente far riferimento al procedimento risarcitorio in corso. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, l'azione revocatoria dipende, infatti, dall'esito di quella risarcitoria; è soltanto in quest'ultima che si decide la fondatezza e l'entità del credito, mentre il giudice della revocatoria non svolge alcuna valutazione al riguardo.
L'assenza delle due condizioni richieste dall'art. 598 cod. pen. sarebbe dimostrata anche dalla cancellazione della frase incriminata ordinata, ex art. 89, secondo comma, cod. proc. civ. (a norma del quale il giudice può disporre con ordinanza che si cancellino le frasi offensive o sconvenienti) dal Tribunale civile di Padova, che aveva ritenuto quella frase priva di qualsivoglia connessione con l'oggetto della causa.
Alcun rilievo esimente riveste, inoltre, il dato della sollecitazione, ricevuta dai due imputati, dalla loro cliente (la sorella del ricorrente) a infierire sul fratello, posto che l'esigenza difensiva non può costituire pretesto per svillaneggiare la controparte processuale.
2.2 Col secondo e terzo motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'esimente di cui all'art. 598 cod. pen.
La mancanza di nesso funzionale tra l'espressione incriminata e l'azione giudiziale, illogicamente trascurata dalla Corte d'appello, risulta evidente anche ove si consideri che a quell'espressione è stata data massima visibilità attraverso la pubblicazione nei Registri Immobiliari e delle imprese e, in particolare, con la trascrizione della revocatoria presso la Conservatoria di E , sede storica dello studio notarile del ricorrente. Anche in tal caso, viene in rilevo l'assenza del nesso funzionalità di cui all'art. 598 cod. pen., atteso che, in quel luogo, non vi erano beni immobili da aggredire tramite l'azione revocatoria. Dalla consultazione dei registri immobiliari non è possibile ricostruire la vicenda sottesa all'azione revocatoria promossa dagli imputati, con la conseguenza che chiunque vi acceda non potrà trovare alcuna informazione utile sulle reali cause della morte della madre del Bu.Ca. A tal proposito, non riveste pregio alcuno l'osservazione dei giudici d'appello, secondo cui il ricorrente avrebbe ben potuto difendersi dall'assunto difensivo della responsabilità per la morte della madre, documentando la causa del decesso di quest'ultima ("il provvedimento del giudice civile ha poi disposto la cancellazione, intatti eventuali profili risarcitori"). Infatti, la possibilità di difendersi ex post dall'espressione diffamatoria, non vale a scriminare il reato già consumato in precedenza, soprattutto considerando la platea indeterminata di persone che hanno accesso ai pubblici registri immobiliari.
La motivazione è, infine, carente, per avere la Corte territoriale ignorato le deduzioni difensive relative alle false affermazioni degli imputati circa le "ripetute azioni giudiziali" intraprese dal ricorrente, che avrebbero causato patimenti e dolori ai propri familiari. Il ricorrente è stato infatti destinatario, non già autore, di aggressioni giudiziarie; le sue iniziative in giudizio sono state funzionali al giustificato intento di difendere i propri diritti, come dimostra la sentenza del giudice civile di Padova del 23.3.2017, che ha escluso qualsiasi profilo di mala fede, colpa o imprudenza in capo al ricorrente.
3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28-10-2020, n. 137, conv. con L. 18-12-2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Antonio Balsamo, il quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso; b) memoria difensiva dell'Avv. De Toni, nell'interesse degli imputati; c) conclusioni da parte dell'avv. Sandro Mason, nell'interesse del ricorrente, e nota spese (5000 Euro).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato. Le tre censure convergono sull'esimente di cui all'art. 598 cod. pen. - in tesi difensiva, erroneamente applicata dai giudici di merito - e possono essere, quindi, esaminate congiuntamente.
In via di premessa, occorre ricordare che la ratio legis sottesa all'art. 598 cod. pen. è quella di consentire la massima libertà nella esplicazione del diritto di difesa (Sez. 5, n. 22743 del 23-03-2011, P. g. in proc. (Omissis), Rv. 250401); la causa di non punibilità ivi prevista, costituendo applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 cod. pen. (vale a dire, l'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) copre, potenzialmente, tutti gli atti funzionali all'esercizio del diritto di difesa, che devono esser ricondotti al principio della immunità giudiziale (Sez. 5, n. 7000 del 03-12-2001, dep. 2002, Rv. 221388 01).
Come ricordato dal ricorrente stesso, in tema diffamazione, ai fini della applicabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 598 cod. pen., sono necessarie due condizioni, vale a dire che le offese concernano l'oggetto della causa o del ricorso pendente dinanzi alla autorità giudiziaria o a quella amministrativa (Sez. 5, n. 30439 del 16-06-2006, (Omissis), Rv. 235327 -01), e che le stesse abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta.
Tuttavia - e qui il ricorso disvela la propria contrarietà rispetto ai principi posti dall'esegesi di questa Corte sul tema in esame - deve escludersi la necessità che le offese abbiano anche un contenuto minimo di verità, o che la verità sia in qualche modo deducibile dal contesto, in quanto l'interesse tutelato è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa, a prescindere dalla fondatezza o meno dell'argomentazione (Sez. 5, n. 40452 del 21-09-2004, (Omissis), Rv. 230063 -01). Peraltro, si è ritenuta sussistente la causa di non punibilità in parola anche nei casi in cui le espressioni ingiuriose non siano né necessarie né decisive ai fini dell'economia generale dell'argomentazione, purché inserite nel contesto difensivo (Sez. 5, n. 8421 del 23-01-2019, (Omissis), Rv. 275620 -01; Sez. 5, n. 6495 del 28-01-2005, (Omissis), Rv. 231428 -01; V. anche Sez 5, n. 45722 del 9-11-2022, n.m.: "La causa di non punibilità prevista dall'art. 598 cod. pen., opera su un piano diverso dalla scriminante di cui all'art. 51 cod. pen., dato che non esclude l'antigiuridicità del fatto, ma solo l'applicazione della pena e ricomprende anche condotte di offesa non necessarie, purché inserite nel contesto difensivo".
Si veda anche Sez. 5, n. 14542 del 07-03-2017, (Omissis), Rv. 269734). Né è necessario che le frasi incriminate abbiano una particolare continenza espressiva (tra le altre, v. Sez. 5, n. 6701 del 08-02-2006, Rv. 234008 -01).
Da tali principi, deriva la mancata decisività dell'assunto difensivo, che insiste 1) sulla falsità dell'affermazione relativa alla causa scatenante il decesso della madre del ricorrente 2) sull'essenza diffamatoria dell'espressione indicata nel capo d'imputazione, in quanto non funzionale rispetto a quanto sostenuto nell'atto di citazione in revocatoria ordinaria.
Tale assunto non riesce a scardinare la ragionevole obiezione opposta dai giudici di merito, coerente con i principi giurisprudenziali sopra esposti, secondo cui i due imputati, in quanto avvocati difensori dei familiari del Bu.Ca., miravano a sensibilizzare il giudice nel modo più convincente possibile circa la pretesa risarcitoria dei genitori e circa l'intenzione del ricorrente di sottrarre loro i beni all'imminente aggressione (come ricordato a p. 4 della parte motiva). Tale è il nucleo che rende inattaccabile la motivazione dell'impugnata sentenza e, rispetto a tale nucleo, le varie eccezioni difensive (tra cui quella che insiste sull'asserita, particolare visibilità della frase incriminata attraverso la pubblicazione nei Registri Immobiliari e delle imprese) sono destinate a soccombere. In particolare, è irrilevante l'eccezione secondo cui l'espressione offensiva fosse contenuta in un'azione revocatoria, anziché risarcitoria, posta la relazione tra due azioni (come ricordato dalla Corte territoriale) e posto, soprattutto, quanto ricordato poc'anzi a proposito dello spettro ad ampio raggio con cui opera l'esimente di cui all'art. 598 cod. pen. rispetto a tutti gli atti funzionali all'esercizio del diritto di difesa. In tale prospettiva, non è irragionevole quanto ritenuto dalla Corte d'appello, secondo cui l'oggetto della controversia era connesso alla pretesa economica nei confronti dell'odierno ricorrente.
Del pari non decisivo è il tema dell'asserita rilevanza della cancellazione, ordinata dal giudice civile di Padova, ex art. 89, secondo comma, cod. proc. civ., della frase incriminata, decisione correttamente ritenuta dai giudici di merito non vincolante ai fini del processo de qua, in quanto rispondente a canoni valutativi differenti. Sebbene la motivazione sia, sul punto, concisa, essa è sufficiente a cogliere le ragioni che hanno portato a disattendere l'eccezione difensiva; e, ciò, proprio in virtù del riferimento alla diversità dei "canoni valutativi" che guidano i giudici nell'applicazione delle due diverse disposizioni.
In linea generale, può osservarsi che tale diversità si radica, a monte, nel bene tutelato dalla norma - l'art. 595 cod. pen. - rispetto alla quale la disposizione di rilievo in questa sede, vale a dire l'art. 598 cod. pen., si pone quale causa di giustificazione (ciò che esclude l'illiceità del fatto; in ogni caso, tale qualificazione non è indiscussa in dottrina, configurando la disposizione, secondo alcuni, una causa di non punibilità in senso stretto, che non esclude l'illiceità del fatto. Sul punto, v. Sez. 5, n. 6701 del 08-02-2006, (Omissis), Rv. 234007 -01, in motivazione).
Inoltre, dal punto di vista dell'interpretazione sistematica, è significativa la collocazione degli artt. 595 e 598 cod. pen. nel titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, e nel capo II, che contempla i "delitti contro l'onore"; laddove, l'art. 89 cod. proc. pen., è collocato nel capo III, titolo II, dedicato ai "doveri delle parti e dei difensori." Ora, le espressioni "sconvenienti od offensive", di cui all'art. 89 cod. proc. civ."., delle quali il giudice può ordinare la cancellazione, non necessariamente coincidono con le espressioni "lesive dell'altrui reputazione" di cui all'art. 595 cod. pen., che ha un oggetto ben più specifico. E, infatti, la reputazione, tutelata dalla legge penale, è da intendersi non già come la mera considerazione che ciascuno ha di sé, o come il semplice amor proprio (che possono essere certo scalfiti da un'espressione "sconveniente" o "offensiva"), posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale; tant'è vero che la tutela penale in tanto si giustifica in quanto l'aggressione sia dotata di potenzialità diffusiva ("chiunque, comunicando con più persone...": così l'art. 595 cod. pen). Potenzialità diffusiva non richiesta, almeno non espressamente, dall'art. 89 cod. proc. civ."
A conferma del diverso impatto (sui diritti della difesa, oltre che sul soggetto offeso) dell'art. 89 cod. proc. civ., da un lato, e dell'art. 598, cod. pen., dall'altro, può inoltre ricordarsi che, mentre la violazione dell'art. 598 può ben essere dedotta con ricorso per cassazione, come dimostra il caso in esame, non vale il reciproco: costituisce, infatti, orientamento consolidato nella giurisprudenza della Cassazione civile quello secondo cui l'omesso esame dell'istanza di cancellazione di frasi o parole ingiuriose, contenute negli scritti difensivi, non può formare oggetto di ricorso per cassazione (Cass. civ., Sez. 1, n. 38730 del 06-12-2021, Rv. 663116 -01: "l'apprezzamento del giudice di merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all'oggetto della lite, nonché l'emanazione o meno dell'ordine di cancellazione delle medesime, a norma dell'art. 89 c.p.c., integrano esercizio di potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità").
Infine - e tale è il profilo che più rileva in questa sede - la diversa portata dell'art. 89 cod. proc . civ. - e dell'art. 598 cod. pen., è stata descritta dalla giurisprudenza di questa Corte nei termini seguenti: il riferimento alle offese che non riguardano l'oggetto della causa, contenuto nell'art. 89 c.p.c., va inteso come riferibile alle offese "non necessarie alla difesa", sebbene a essa non estranee; invece, il riferimento alle "offese che concernono l'oggetto della causa" contenuto nell'art. 598 c.p. va inteso come riferibile a quelle offese che, pur non necessarie, siano comunque strumentali alla difesa. Sicché il nesso, pur non necessario con l'oggetto della causa, esclude comunque la punibilità del fatto (Sez. 5, n. 6701 del 08-02-2006, (Omissis), cit., in motivazione).
Ne discende che le offese non necessarie, pur non essendo giustificate nell'ambito processual-civilistico, rientrano nell'ambito applicativo dell'art. 598 cod. pen., sempre che concernano l'oggetto della controversia.
Tale soluzione non è irragionevole, in quanto l'operatività dei rimedi civilistici strumentali ad assicurare l'adempimento dei doveri di lealtà e probità nell'esercizio delle funzioni difensive (art. 88 cod. proc. civ.) è logicamente attestata su una soglia più intensa di tutela correlata alla portata disciplinare e privatistica delle conseguenze previste, laddove il principio di sussidiarietà del diritto penale giustifica la scelta di circoscrivere l'irrogazione della pena ai casi più gravi, nei quali l'offesa sia priva di qualunque nesso funzionale con l'oggetto del procedimento.
2. Per i motivi fin qui esposti, il Collegio ritiene che il ricorso vada rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196-03 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196-03 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 5 aprile 2024
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024