IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Torino, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato P.R., N.L. e O.F., ciascuno alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore delle costituite parti civili, in relazione ai reati in materia tributaria e fallimentare, loro rispettivamente ascritti ai capi A); B); C) e D) dell'imputazione, in qualità, la P., di amministratore unico, il N. e l' O., di amministratori di fatto della società "(Omissis) S.r.l.", dichiarata fallita dal tribunale di Torino con sentenza del (Omissis); il N. e l' O., inoltre, anche nella qualità di amministratori unici, in diversi momenti di tempo, della società "(Omissis) S.r.l", dichiarata fallita dal tribunale di Torino con sentenza dell'(Omissis), dichiarava non doversi procedere nei confronti della P. e del N., in ordine al reato tributario di cui al capo B), perché estinto per prescrizione, con conseguente rideterminazione dell'entità del trattamento sanzionatorio in favore dei predetti imputati; eliminava la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici inflitta alla P. e riduceva la durata delle pene accessorie fallimentari applicate ai tre imputati.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati, con autonomi atti di impugnazione.
2.1. La P. e il N., in particolare, nel ricorso a firma del loro difensore d'ufficio, avv. Marco Borio, lamentano: 1) manifesta illogicità della motivazione in ordine all'accertamento della responsabilità penale e violazione di legge, con riferimento all'art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000, in relazione all'art. 546, lett. e), c.p.p.; 2) manifesta illogicità della motivazione in ordine all'accertamento della responsabilità penale e violazione di legge, con riferimento agli artt. 216, comma 1, n. 1) e n. 2), 219,223, L. Fall., in relazione all'art. 546, lett. e), c.p.p.; 3) vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, invece che di equivalenza, sulle circostanze aggravanti.
2.2. L' O., nel ricorso a firma del difensore di fiducia, avv. Daniele Natali, lamenta: 1) mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla confermata declaratoria di responsabilità dell'imputato, nonché violazione di legge, con riferimento agli artt. 530, comma 2, 533, comma 1, c.p.p.; 2) mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto sub capo D), n. 4, nonché violazione di legge, con riferimento agli artt. 216,219,223,224, comma 1, n. 2), L. Fall.
3. Con requisitoria scritta del 13.1.2023, depositata sulla base della previsione dell'art. 23, comma 8, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, che consente la trattazione orale in udienza pubblica solo dei ricorsi per i quali tale modalità di celebrazione è stata specificamente richiesta da una delle parti, i cui effetti sono stati prorogati fino al 31 dicembre 2022, per effetto dell'art. 16, comma 1, del D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla L. n. 15 del 25 febbraio 2022, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, chiede che la sentenza impugnata sia annullata con rinvio, limitatamente al primo motivo di impugnazione articolato dagli imputati P. e N., il cui ricorso, nel resto, va rigettato, e che venga dichiarato inammissibile il ricorso dell' O..
Con atto del 18.1.2023 il difensore dell' O. articola nuovi motivi di ricorso in punto di sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
Con conclusioni scritte del 25.1.2023 il medesimo difensore, nel replicare alle conclusioni del pubblico ministero, insiste per l'accoglimento del ricorso.
4. Diversi sono i profili che militano a sostegno dell'inammissibilità dei ricorsi presentati dagli imputati.
5. Con particolare riferimento al ricorso presentato nell'interesse dell' O., si osserva che, con il primo motivo di impugnazione, il ricorrente deduce un'inadeguata valutazione delle risultanze processuali da parte della corte territoriale, evidenziando come l'affermazione di responsabilità dell'imputato si fondi su mere congetture, del tutto apodittiche e non univoche, in quanto la corte territoriale ha operato una sorta di presunzione di conoscenza, inaccettabile, in capo all' O., configurando un automatismo tra la carica di amministratore di diritto da lui ricoperta e la sua penale responsabilità, che in tal modo diventa una responsabilità di posizione, giungendo, con una motivazione apparente, a condannare il ricorrente ritenendo apoditticamente scontato che egli conoscesse o avesse potuto conoscere la dissoluta gestione sociale della (Omissis), dimenticando che proprio la pregressa conoscenza tra l'imputato e quest'ultima ben può giustificare il di lui colpevole affidamento.
Si tratta, in tutta evidenza, di un motivo versato in fatto.
Il ricorrente, invero, non tiene nel dovuto conto che, secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza della Suprema Corte, ormai costituente diritto vivente, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, dunque, è precluso il percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
La corte territoriale, del resto, con motivazione immune da vizi, si è soffermata specificamente sul ruolo dell' O., evidenziando come l'imputato sia stato amministratore di diritto della "(Omissis)" dal 20.5.2009 al 31.12.2010, in un periodo in cui "e' stata omessa la dichiarazione fiscale relativa all'anno di imposta 2008 e presentata in bianco quella relativa all'anno 2009, non è stato redatto, approvato e depositato il bilancio 2009 ed erano maturati consistenti debiti di carattere fiscale", disinteressandosi completamente della sorte della società fallita, circostanze tutte che, unitamente agli stretti rapporti di lavoro che lo legavano all'amministratrice di fatto (Omissis), con cui condivideva lo studio professionale, il giudice di secondo grado, sulla base di un ragionamento dotato di intrinseca coerenza logica, ha valutato complessivamente come rivelatrici della condivisione dolosa delle finalità illecite perseguite dalla (Omissis).
Conclusione, quella cui perviene la corte territoriale, peraltro, del tutto conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui sussiste la responsabilità dell'amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta, con l'amministratore di fatto non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma 2, c.p., l'evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita.
Nel in esame l' O. aveva la possibilità e il dovere di attivare i poteri di controllo connaturati alla carica rivestita, in considerazione delle irregolarità della gestione societaria in precedenza richiamate, di cui egli, in ragione delle sue competenze professionali, non poteva non cogliere la gravità, integrando la sua condotta per tale ragione, anche l'elemento soggettivo dei fatti di bancarotta fraudolenta documentale e di bancarotta fraudolenta da operazioni dolose a lui contestati nel capo D, n. 1) e n. 4), dell'imputazione.
Del pari inammissibile deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente chiede di qualificare la condotta dell'imputato, ai sensi dell'art. 224, comma 1, n. 2), L. Fall., sul presupposto che, a tutto voler concedere, l' O. avrebbe aggravato il dissesto della società a causa di un comportamento solo negligente, evidenziando come la corte territoriale non abbia fornito risposta sulla relativa doglianza avanzata con l'atto di appello.
Si tratta, in tutta evidenza di un rilievo del tutto generico e versato in fatto, che, inoltre, non tiene conto della contestazione di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo D), n. 1.
D'altro canto giova rammentare, che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, con costante insegnamento, l'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica, come nel caso che ci occupa, le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell'appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. (cfr. Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).
E, come si è detto, appare evidente come la corte territoriale abbia escluso in radice che la condotta dell'imputato possa qualificarsi in termini di semplice negligenza.
L'originaria inammissibilità dei motivi di ricorso, rende inammissibili anche i motivi nuovi proposti dall' O., giusto il disposto dell'art. 585, comma 4, c.p.p.
6. Inammissibili appaiono anche i motivi di impugnazione proposti nell'interesse della P. e del N..
Generico e manifestamente infondato risulta il primo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti deducono vizio di motivazione e violazione di legge, con riferimento all'affermazione di responsabilità per il reato ex art. 5 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di cui al capo A).
Vero è che il pubblico ministero nella sua requisitoria scritta del 13.1.2023 si è pronunciato per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata sul punto, ma tale assunto non può condividersi per le seguenti ragioni.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in materia di reati tributari, ai fini dell'individuazione della soglia di punibilità del delitto di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 vigente "ratione temporis", deve farsi riferimento al momento della consumazione del reato, che va fissato nel termine di novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale relativa all'imposta sui redditi o all'I.v.a. (In motivazione, la Corte ha precisato che la soglia di punibilità era originariamente fissata in una evasione di Euro 77.000 con riferimento a taluna delle singole imposte; poi, è stata rideterminata in Euro 30.000 dall'art. 2, comma vicies semel, lett. f), del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in L. 14 settembre 2011 e, da ultimo, è stata stabilita in Euro 50.000 (cfr. Sez. 3, n. 19647 del 20/02/2019, Rv. 275747)
Ciò posto, nella giurisprudenza della Suprema Corte si confrontano due orientamenti in tema di elemento soggettivo del reato per cui si procede. Si è affermato, infatti, che nel delitto di omessa dichiarazione, previsto dall'art. 5 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa ha natura di elemento costitutivo del reato e, come tale, deve formare oggetto di rappresentazione e volizione, anche a titolo di dolo eventuale, da parte dell'agente (cfr. Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, Rv. 272578).
In senso contrario, si e', invece, sostenuto che nel reato di omessa dichiarazione, il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisce una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente (cfr. Sez. 3, n. 25213 del 26/05/2011, Rv. 250656).
E a tale precedente ha fatto riferimento la corte territoriale in motivazione per disattendere il rilievo difensivo sul punto.
Orbene, pur sembrando prevalere in giurisprudenza l'orientamento secondo cui, nei reati tributari, il superamento della soglia di punibilità deve formare oggetto del dolo (in questo senso di veda, con riferimento al reato di omesso versamento di IVA, previsto dall'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000, Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015, Rv. 265939), si osserva che, in ogni caso, la condotta di cui si discute è ascrivibile ai ricorrenti quanto meno a titolo di dolo eventuale, costituito, come è noto, dalla consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall'accettazione di tale rischio, che potrà essere graduata a seconda di quanto maggiore o minore l'agente consideri la probabilità di verificazione dell'evento (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, Rv. 281385).
Sul punto non è revocabile in dubbio che tale consapevolezza ha contraddistinto l'atteggiamento psicologico degli imputati, che hanno omesso dolosamente di presentare, pur essendovi obbligati, la dichiarazione relativa all'anno di imposta 2011, omettendo di dichiarare elementi attivi di notevole entità, pari a 721.213,00, Euro, accettando, dunque, il rischio, come si ricava per implicito dalla motivazione della corte di appello, che l'ammontare dell'imposta evasa fosse superiore alla soglia di punibilità di Euro 50.000, 00, come effettivamente avvenuto, posto che tale ammontare è risultato pari a circa 88.000,00 Euro.
Sicché nessun difetto di motivazione o violazione di legge è ravvisabile nel caso in esame, potendosi affermare che la decisione della corte territoriale, da un lato, non è affetta da manifesta illogicità, vizio che si configura solo nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una
premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999,
Rv. 215132), dall'altro appare conforme a entrambi gli orientamenti presenti nella giurisprudenza di legittimità sull'elemento soggettivo del reato di cui si discute, in precedenza richiamati.
Del tutto generici, infine, si appalesano i rilievi difensivi sulla mancanza di fonti probatorie che giustifichino la decisione dei giudici di merito e sulla omessa considerazione delle istanze difensive volte a contrastare l'affermazione di responsabilità dei prevenuti, dovendosi ribadire, al riguardo, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l'omessa valutazione, da parte del giudice dell'appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 4.11.2014, n. 35964, rv. 264879).
Inammissibile, in quanto tale da sollecitare, peraltro genericamente, un'inammissibile rivalutazione delle risultanze processuali, risulta il secondo motivo di ricorso.
Sul punto il Collegio condivide le osservazioni svolte nella requisitoria scritta del 13.1.2023 dal pubblico ministero, che ha evidenziato la completezza del percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale, "atteso che quanto accertato dal curatore fallimentare è stato suffragato sia dalle documentazione bancaria che dalle ammissioni della P. in ordine ai prelievi di denaro dalle casse e dai conti della società (Omissis) per scopi personali e del marito", avendo, inoltre, la corte "evidenziato anche i ruoli in concreto svolti da ciascuno dei coniugi".
Quanto all'ultimo motivo di ricorso, i ricorrenti non tengono nel dovuto conto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (cfr. Cass., sez. IV, 06/05/2014, n. 29951).
Ne' va taciuta l'esistenza di un costante orientamento del Supremo Collegio, secondo cui ai fini del giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, anche la sola enunciazione dell'eseguita valutazione delle circostanze concorrenti soddisfa l'obbligo della motivazione, trattandosi di un giudizio rientrante nella discrezionalità del giudice e che, come tale, non postula un'analitica esposizione dei criteri di valutazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 08/07/2010, n. 36265, rv. 248535; Cass., sez. I, 09/12/2010, n. 2668, rv. 249549).
Orbene la decisione della corte territoriale si colloca a pieno titolo nel menzionato alveo giurisprudenziale, in quanto il giudice di appello ha fondato il rigetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, all'esito di una valutazione negativa sulla gravità dei fatti, dunque proprio su uno dei parametri di cui all'art. 133, c.p., sicché, sul punto, la suddetta motivazione non può ritenersi né arbitraria, né manifestamente illogica.
Ne consegue l'inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza.
7. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2023