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Maltrattamenti in famiglia: il requisito della convivenza tra comunanza e solidarietà

Maltrattamenti

Cassazione penale sez. II, 25/09/2024, n.37166

Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), il requisito della convivenza richiede una coabitazione caratterizzata da una relazione qualificata da comunanza materiale e spirituale di vita, con aspettative di reciproca solidarietà e assistenza. Non è sufficiente una semplice condivisione di spazi abitativi derivante da ragioni contingenti o legata a una mera amicizia.
La nozione di "famiglia" o "convivenza", in ambito penale, implica:
a) Una relazione stabile con radicate aspettative di mutua solidarietà.
b) Una duratura comunanza d'affetti, che può fondarsi su rapporti di coniugio, parentela, o altra stabile condivisione abitativa.
c) L’applicazione dell’art. 572 c.p. in assenza di tali elementi configurerebbe una interpretazione analogica della norma incriminatrice a sfavore del reo, preclusa dall’art. 25, comma 2, Cost.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 20 luglio 2023 dal Tribunale di Brescia, ha rideterminato a pena inflitta a Me.Em., in relazione ai reati di cui agli artt. 572,582-577 e 81-629 cod. pen., confermando nel resto. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il suddetto imputato, a mezzo del proprio difensore, articolando tre motivi di impugnazione, che qui si riassumono nei termini di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo, si deduce la carenza di motivazione in merito alla convivenza, quale prerequisito del contestato delitto di maltrattamenti, in assenza di un legame affettivo tra imputato e persona offesa. 2.2. Con il secondo motivo, la difesa censura la qualificazione dei fatti ascritti al capo c) come estorsione, sottolineando la presenza di meri atteggiamenti prevaricatori (e, in una sola occasione, di aggressione fisica), senza però che emergessero ex actis concrete pretese estorsive; d'altronde, il fratello della vittima avrebbe confermato che, durante il periodo in contestazione, i bisogni economici di quest'ultima rimasero immutati e un altro teste d'accusa ha smentito le dichiarazioni della medesima persona offesa, riferendo che la cessione dei mobili in suo favore era avvenuta a titolo gratuito. 2.3. Con il terzo motivo, la difesa si duole della mancata concessione delle attenuanti generiche, nonostante la partecipazione rispettosa alle udienze e la sottoposizione ad esame da parte dell'imputato, nonché la sua condizione di disoccupato e tossicodipendente all'epoca dei fatti, tale da consentirgli soltanto di porgere le proprie scuse, ma non di risarcire i danni, neppure parzialmente. 3. Si è proceduto con trattazione scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8, decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall'art. 94, comma 2, decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato, da ultimo, dall'art. 11, comma 7, decreto-legge 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato solo con riguardo al primo motivo ed è inammissibile nel resto. 2. Il secondo motivo, relativo all'affermazione di responsabilità per il delitto di cui all'art. 629 contestato sub c), non è consentito, in quanto postula una alternativa valutazione delle risultanze processuali. La sentenza impugnata (pp. 2-6 e 15), infatti, confermando la più ampia ricostruzione del Tribunale (pp. 6-9, 13-16, 18-19), chiarisce adeguatamente, sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa e di altri testimoni indifferenti alla sua vicenda personale, come, nell'ambito di un costante clima di prevaricazione e aggressione fisica e psicologica (anche per questioni non strettamente economiche), dopo un iniziale periodo in cui le dazioni di denaro, frequenti e non irrilevanti, erano avvenute del tutto spontaneamente, le semplici richieste di regalie dell'imputato fossero poi state sostituite da pretese, frequentissime, accompagnate strumentalmente da violenze e gravi minacce, assecondate per paura dal destinatario terrorizzato. L'approfondito scrutinio di attendibilità della narrazione della persona offesa, neppure costituitasi parte civile, è stato operato con adeguata attenzione da parte di entrambi i giudici di merito. Le marginali discrasie rispetto a talune particolarissime circostanze, come sottolineate dal ricorrente, non valgono a disarticolare la linearità logica e giuridica di tale valutazione e presuppongono un'irrituale rilettura degli atti istruttori. 3. Quanto alle circostanze di cui all'art. 62-bis cod. pen., la Corte di appello motiva del pari congruamente, stigmatizzando gli elementi - ritenuti, nella valutazione propria del giudice di merito, pregnanti e assorbenti -dell'approfittamento delle condizioni fisiche e psichiche della persona offesa, addirittura costretta ad abbandonare la propria abitazione e a ricorrere alle cure di uno specialista per il trauma subito. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-02; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899-01). Le censure sul punto sono, pertanto, non consentite e manifestamente infondate. 4. È, viceversa, fondata la doglianza inerente l'affermazione di responsabilità per il delitto ex art. 572 cod. pen. La contestazione sub a) qualifica la relazione tra imputato e persona offesa come "rapporto di mutuo soccorso". La Corte di appello descrive la loro "coabitazione" come conseguenza di un accordo tra le parti, basato sul contributo offerto da entrambi alle spese comuni. Non si sarebbe trattato, pertanto, di una locazione o di un rapporto contrattuale di altro tipo, ma di una stabile convivenza, protratta nel tempo. "Lo stesso imputato assume di essersi preso cura del Pa., persona fragile, incapace di determinarsi e che necessitava di essere stimolato e spronato e di essere aiutato durante la malattia: lo stesso imputato non prospetta una mera coabitazione ma una condivisione di vita ben più ampia... con condivisione di una comune esperienza lavorativa..., ulteriore manifestazione di condivisione di progetti futuri" (pp. 14-15). La conclusione a cui sono pervenuti i giudici di merito, in ordine alla rilevanza di tale convivenza, quale prerequisito del reato di maltrattamenti, non è corretta. Ha affermato la Corte costituzionale: "Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest'ultima come persona (già) appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza". In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost." (Sent. n. 98 del 14/04/2021). Sulla scia di questo arresto, si è rapidamente consolidato un orientamento esegetico - che il Collegio condivide e intende ribadire - secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 cod. pen., integra il requisito della convivenza soltanto la coabitazione tra individui legati da una relazione qualificata da comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di reciproca solidarietà, non già la contingente condivisione di spazi abitativi, priva di connotati affettivi e solidali, dovuta a mera amicizia (Sez. 6, n. 10621 del 20/02/2024, P., Rv. 286293-01). Nell'ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, invero, i concetti di "famiglia" e di "convivenza" vanno intesi nell'accezione più ristretta, presupponente una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà e assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continua (Sez. 6, n. 31390 del 30/03/2023, P., Rv. 285087-01; Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, P., Rv. 283120-01; Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv. 283939-01). Nel caso di specie, il rapporto tra semplici coinquilini, non connotato dalla minima relazione affettiva e fondato su mere esigenze legate alla pratica quotidianità, non può essere, dunque, qualificato, come "convivenza", se non violando il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici. In difetto, pertanto, della condizione soggettiva richiesta dalla fattispecie, occorre procedere all'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al delitto di maltrattamenti di cui al capo a), perché il fatto non sussiste. 5. L'annullamento deve essere disposto senza rinvio, dal momento che la corrispondente riduzione della pena può essere determinata direttamente da questa Corte, alla luce dell'esplicita formulazione dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen. Il trattamento sanzionatorio relativo al delitto in questione, difatti, è stato puntualmente indicato dalla Corte bresciana - che ha ridotto la sanzione irrogata in primo grado - nel corrispondente aumento di pena a titolo di continuazione per complessivi nove mesi di reclusione (i giudici di appello notano, altresì, come non sia stato applicato dal Tribunale l'aumento per la pena pecuniaria, di modo che, in difetto di impugnazione della Parte pubblica, l'errore pro reo resta intangibile). Il Collegio, pertanto, mediante una semplice operazione aritmetica e senza che sia necessaria un'ulteriore valutazione di merito, conseguentemente ridetermina la pena finale (in origine, pari a sei anni e sei mesi di reclusione ed Euro 1.210 di multa) in cinque anni e nove mesi di reclusione ed Euro 1.210 di multa, in relazione ai residui delitti di cui ai capi b) e c). 6. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel resto. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al capo a) perché il fatto non sussiste ed elimina la relativa sanzione di mesi nove di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Ridetermina la pena detentiva per le residue imputazioni in anni cinque e mesi nove di reclusione. Così deciso in Roma, il 25 settembre 2024. Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2024.
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