RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 25 maggio 2021, la Corte di Assise di Milano ha dichiarato Hr.Al. colpevole dei reati a lui ascritti di:
- (capo A) omicidio volontario del figlio Me.. di anni due, aggravato dall'essere stato commesso in occasione del delitto di cui all'art. 572 cod. pen. (sub C) per futili motivi(consistiti nel fatto che il figlio, lasciato senza pannolino, si fosse sporcato dei propri escrementi), con sevizie e crudeltà, e sotto l'azione di sostanze stupefacenti da persona dedita alle stesse; in particolare, nella notte del 22 maggio 2019, all'interno dell'abitazione familiare, percuoteva ripetutamente al capo nella regione frontale il figlioletto, cagionandogli la "frattura del tavolato interno dell'osso frontale con emorragia subdurale diffusa, emorragia subaracnoidea, e contusioni emorragiche cerebrali";
- (capo B) tortura aggravata commessa nel contesto delle condotte maltrattanti sub C) da cui sono derivate lesioni personali, perché compiva ripetuti atti di violenza grave - tutti connotati da crudeltà e dalla futilità dei motivi - consistiti nelle lesioni di cui al capo A), nonché in morsi inflitti in più parti del corpo, bruciature sotto i piedini con sigaretta accesa, e alcuni giorni prima, anche con fiamma viva che procuravano vastissime ustioni - cagionando al figlioletto acute sofferenze fisiche (Capo B);
- (Capo C)maltrattamenti pluriaggravati in danno della moglie gravida e del figlio minore Me., adoperando nei confronti di quest'ultimo sevizie consistite in plurime morsicature e bruciature diffuse su tutto il corpo) e agendo con crudeltà verso la vittima.
Il primo giudice escludeva i maltrattamenti in danno degli altri figli minori, pure contestati al capo C); quindi, riteneva i fatti avvinti in continuazione, e condannava l'imputato all'ergastolo, con isolamento diurni per mesi nove, liquidando il danno nella misura di Euro 100.000 cadauno in favore delle costituite parti civili (moglie e due figli minori).
1.1. La Corte di Assise di Appello di Milano, con sentenza del 09 marzo 2022, in parziale riforma di quella di primo grado, ha riqualificato i fatti in maltrattamenti aggravati dall'evento, ai sensi dell'art. 572 u.c., in danno del figlio minore Me.; ha ritenuto la condotta di tortura contestata nel capo B) quale circostanza aggravante della predetta fattispecie, così riqualificata, ai sensi e per gli effetti dell'art. 84 cod. pen.; ha escluso tutte le residue circostanze perché insussistenti o non sufficientemente provate, rideterminando la pena in anni 28 di reclusione; ha, inoltre, assolto l'imputato dal delitto di maltrattamenti in danno della moglie, perché il fatto non sussiste, revocando la condanna civilistica inflitta in prime cure, e ha confermato, nel resto, la sentenza impugnata.
1.2. La Corte di cassazione - prima Sezione - con sentenza del 13 gennaio 2023 n. 27321, ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di Assise di appello di Milano limitatamente alla qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi A), B), C), commessi in danno del piccolo Me., e alle relative statuizioni civili.
1.2.1. Questo il mandato rescindente:
"Si impone, pertanto, il pronunciato annullamento nei limiti indicati nel dispositivo, perché il giudice del rinvio proceda alla corretta qualificazione delle condotte contestate ai capi A), B) e C), quest'ultimo commesso ai danni del minore, secondo i principi interpretativi sin qui esposti e precisi:
- se vi è configurabilità dei maltrattamenti per la prima parte della condotta ai danni del minore (attuata a partire dai mese di marzo 2019);
- se è ravvisabile, per la condotta attuata da due a quattro giorni prima della morte e fino al 22 maggio 2019, il delitto di tortura;
- se è configurabile il delitto di omicidio volontario pluriaggravato come contestato e se vi è eventuale assorbimento della condotta di cui ai capo A), in quella di tortura seguita da morte (voluta), punita con la pena dell'ergastolo:
- se sussiste, in relazione alla fattispecie sub A), il dolo (eventuale) tenendo presenti, in tale scrutinio, tutti i criteri indicatori di cui alla sentenza delle Sezioni Unite, ric. Espenhahn citata."
1.3. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano - quale Giudice del rinvio - in parziale riforma della sentenza della Corte di Assise di Milano, previa riqualificazione dei fatti sub A) e B) come tortura aggravata dalla minorata difesa e dall'evento morte, quale conseguenza voluta, ai sensi degli artt. 61 n. 5, 613-bis cod. pen. ult. comma, secondo periodo, e, ritenuta la continuazione con il reato di cui al capo C), ha rideterminato la pena comminando l'ergastolo; ha confermato, nel resto, la prima sentenza.
2. Ricorre per cassazione l'imputato, per il tramite del difensore, procuratore speciale e domiciliatario, avvocato Giuseppe Maria De Lalla, il quale si affida a quattro motivi, enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo, deduce erronea applicazione delle norme del codice penale (in particolare, degli artt. 61 n. 1, 4, 5, art. 572; art. 613-bis ult. comma), e correlati vizi della motivazione, risultata manifestamente illogica e contraddittoria, per avere la Corte di appello di Milano, malamente recependo il mandato rescindente, erroneamente qualificato le condotte dell'imputato come tortura aggravata dalla minorata difesa e dall'evento morte, anziché come maltrattamenti caratterizzati dal motivo abietto o futile, da sevizie e crudeltà e minorata difesa, culminati nella morte del piccolo Me.
Ci si duole che la Corte di appello abbia-fondato la propria valutazione sulle dichiarazioni della moglie dell'imputato, Za.Si,. sebbene la di lei inattendibilità fosse già oggetto di sentenza divenuta cosa giudicata sul punto. Inoltre, la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare in ordine al ragionamento logico-giuridico inferenziale sotteso alla riqualificazione del fatto da maltrattamenti aggravati dall'evento morte in quello di tortura culminato nella morte della vittima, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 613-bis cod. pen. In tal senso, si sostiene che non sarebbe sufficiente il generico riferimento al maggiore disvalore della condotta per le caratteristiche di riprovevolezza, operato dalla sentenza impugnata. In particolare, il ricorrente, richiamati i punti del mandato rescindente, sostiene che, erroneamente, la Corte di appello ha affermato che il giudice di legittimità si era espresso sulla sussistenza di una cesura tra le iniziali condotte maltrattanti e quelle successive, ingravescenti, commesse nei giorni immediatamente precedenti il decesso del bimbo, cosicché, la morte era sopraggiunta quale evoluzione, non dei maltrattamenti ma di condotte di tutt'altro genere sussumibili nello schema della tortura. La Corte di cassazione - continua il ricorrente - in realtà, aveva solo rilevato un vizio della motivazione della sentenza impugnata in quella sede, da cui "appariva emergere" una frattura tra maltrattamenti ed eventi lesivi più prossimi al decesso.
Posta la illogicità della motivazione, quanto:
- al propalato della moglie dell'imputato, la cui inattendibilità era divenuta cosa giudicata a seguito del vaglio del Giudice di primo grado, che aveva evidenziato lacune e incongruenze nel suo narrato;
- alla consulenza medico-legale, che non era stata in grado di individuare l'autore dei segni lasciati sul corpo del bambino (bruciature sotto i piedi e sul corpicino, segni di morsi, escrementi che il padre gli avrebbe fatto ingoiare);
ci si duole che la Corte territoriale avrebbe omesso di effettuare la dovuta disamina delle fattispecie in scrutinio, tanto più in assenza di precedenti giurisprudenziali. Si sostiene, dunque, l'importanza di tale discernimento, giacché :
- il reato di tortura è parzialmente sovrapponibile a quello dei maltrattamenti solo ove questi ultimi siano pluriaggravati;
- manca l'individuazione di una cesura logica e fattuale, tra le prima condotte maltrattanti e l'aggravamento che ha portato alla morte;
- posto che la distinzione tra maltrattamenti e torture si incentra sull'elemento soggettivo, così come quella tra le condotte inumane e degradanti, che secondo l'elaborazione sovranazionale non sono classificabili quali tortura, i Giudici di merito non avrebbero indagato tale elemento, indagine tanto più necessaria considerato che l'ordinamento interno ha optato per una nozione più ampia di tortura. Osserva ancora il difensore ricorrente che, a fronte di maltrattamenti perpetrati per almeno due mesi in danno del figlio Me., questi aveva subito le importanti lesioni che lo hanno portato a morte nell'arco dei dieci minuti che precedettero l'exitus, le quali, quindi, si innesterebbero nella serie causale dei maltrattamenti. Invece, la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine alle ragioni per cui la condotta tenuta dall'imputato negli ultimi giorni antecedenti la morte del piccolo sia stata ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 613-bis cod. pen.
2.2. Con il secondo motivo, è denunciata violazione del combinato disposto degli artt. 43 cod. pen. e 192 cod. proc. pen. per essere stata omessa una compiuta valutazione - limitando l'analisi soltanto ad alcuni di essi - di tutti i criteri indicati dalla c.d. "prima formula di Frank", di cui alla sentenza delle sezioni unite 'Espenhan', onde scandagliare l'elemento psicologico dell'agente, erroneamente ricondotto, sulla base di una motivazione manifestamente illogica e contraddittoria, al dolo eventuale, in luogo della colpa cosciente.
Lamenta, inoltre, il ricorrente - sul rilievo che il delitto di tortura è fattispecie a dolo generico, per la quale si richiede la coscienza e volontà di volta in volta delle singole condotte - che la sentenza impugnata ha anche omesso di motivare in ordine alla sussistenza del dolo eventuale per ogni colpo inferto, compreso quello fatale.
2.3. Con il terzo motivo è denunciata violazione di legge per omessa motivazione in ordine alle richieste difensive di riqualificazione della condotta nei maltrattamenti pluriaggravati o, in subordine, in tortura aggravata dall'evento morte, quale conseguenza non voluta, e, per l'effetto lamenta la omessa applicazione della riduzione per il rito abbreviato richiesto dalla Difesa tempestivamente ed esplicitamente demandato al vaglio del Giudice territoriale dalla Corte di legittimità.
2.4. Il quarto motivo attinge il trattamento sanzionatorio, e lamenta erronea applicazione degli artt. 62-bis, 69 e 133 cod. pen. con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche, al bilanciamento delle circostanze e alla quantificazione della pena. La Corte di appello ha mancato di considerare il comportamento processuale collaborativo tenuto dall'imputato fin dall'inizio delle indagini, rilasciando dichiarazioni autoaccusatorie, il tentativo di soccorrere il figlio, l'incensuratezza e soprattutto il limitato livello intellettivo oggettivamente incidente sul quadro psicologico dell'imputato, anche nella fase rappresentativa delle conseguenze delle proprie azioni.
3. Sono state depositate due memorie nell'interesse delle parti civili, alle quali si sono riportate nelle rispettive conclusioni.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non è fondato. Il mandato rescindente è stato puntualmente osservato dal Giudice del rinvio, che ha fatto corretta applicazione di tutti i punti focalizzati dal Giudice di legittimità, pervenendo a conclusioni giuridicamente valide.
1.1. In sintesi, la Corte di appello - al pari di tutti gli altri giudici che si erano pronunciati nelle diverse fasi - ha ritenuto configurato, per un determinato periodo di tempo, un comportamento maltrattante attuato dall'imputato in danno del figlio di due anni, Me.. Ha, quindi, specificato che, dal racconto della moglie dell'imputato, e madre del piccolo, ma anche dalle parole della nonna paterna, captate nel corso delle intercettazioni attivate nell'immediatezza del fatto, oltre che dalla consulenza medico legale, era emerso che i maltrattamenti, nei giorni prossimi al decesso, avevano subito una evidente ingravescenza "come riscontrabile dai segni lasciati sul corpo in un periodo di tempo più vicino alla data del decesso" (pg. l9). Esclusa l'accidentalità delle bruciature sulla pelle del piccolo, sostenuta dall'imputato, e, ribadita l'inattendibilità della sua versione dei fatti, risultando smentita anche la tesi che la moglie, in quegli ultimi giorni di vita del figlio, lo avesse lasciato solo in casa per andare a rubare, la Corte di appello ha posto in rilievo come la gravità delle lesioni riscontrate in sede autoptica sul corpicino del bimbo (bruciature, morsi, traumatismo da calci e pugni che aveva causato, oltre a fratture, emorragia addominale e, quindi, la frattura della teca cranica, che era stata la causa diretta della morte), la loro prossimità al decesso, il rinvenimento di tracce biologiche del padre sul corpo del bimbo, oltre a sconfessare il tentativo dell'imputato di coinvolgere la moglie, deponessero univocamente nel senso della chiara ingravescenza delle condotte violente dell'uomo in danno del figlioletto (affermando "con certezza che nei giorni immediatamente precedenti il decesso vi fu un aggravamento delle condotte lesive poste in essere in danno della vittima") (pg. 21), in essa ravvisando la fattispecie criminosa della tortura "privata", e della responsabilità dell'imputato.
2. Con specifico riguardo alle singole doglianze articolate dal ricorrente, come si è premesso, la prima censura riguarda il ragionamento della Corte di appello, che avrebbe erroneamente interpretato la sentenza rescindente, quanto alla affermata esistenza di una cesura fra condotte di maltrattamento e gli eventi lesivi ben più gravi collocabili in un momento più prossimo al decesso, e, comunque, si sostiene che la Corte di appello non avrebbe spiegato perché tali condotte integrerebbero il delitto di tortura, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 6123-bis cod. pen., e non quello di maltrattamenti seguiti dalla morte della persona offesa, ai sensi del terzo comma, ultima parte, dell'art. 572 cod. pen., aggravati dalla crudeltà, dai futili motivi, e dalla minorata difesa.
2.1. Ebbene, l'obiezione difensiva incentrata sul vaglio della attendibilità della moglie dell'imputato, che sarebbe stata già ritenuta, con giudizio intangibile, inattendibile, è priva di pregio: in primo luogo, si osserva che i Giudici di merito hanno preso in considerazione alcune dichiarazioni della donna e le hanno interfacciata con altre risultanze, a riscontro delle stesse (pg. 20). Inoltre, il giudizio di inattendibilità espresso dalla prima sentenza aveva riguardato solo alcune delle condotte contestate al capo C), specificamente, quelle relative ai maltrattamenti in danno di altri figli, dalle quali, infatti, l'imputato è stato assolto, avendo il giudice di primo grado ritenuto provate esclusivamente le condotte maltrattanti in danno della moglie dell'imputato, inflittele anche quando era gravida, e del piccolo Me. Non risulta, invece, espresso, da parte dei giudici di merito, alcun giudizio negativo di attendibilità nei confronti della donna in merito ai fatti qui in discussione. Da qui, l'infondatezza dell'obiezione difensiva, alla luce del consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e l'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e le altre parti che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrate e sempre che l'inattendibilità di alcune delle parti della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante. (Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010 (dep. 2011) Rv. 249200; conf. Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, Rv. 260160; Sez. 3, n. 3256 del 18/10/2012 (dep. 2013), Rv. 254133).
2.2. Non coglie nel segno neppure la dedotta violazione del mandato rescindente, con specifico riferimento al tema della esistenza o meno di una cesura tra condotte maltrattanti e quelle integranti la tortura.
La sentenza rescindente si è espressa in termini estremamente chiari sul punto, laddove osserva che "proprio dalla motivazione della Corte territoriale (..) si ricava l'esistenza di un momento temporale in cui le condotte maltrattanti hanno subito una considerevole escalation, integrando autonome e distinte condotte, alla stregua della stessa ricostruzione che si ricava dalla sentenza di appello, per le quali, dunque, è necessario verificare, in sede di merito, la loro idoneità a configurare la autonoma fattispecie di cui all'art. 613-bis cod. pen., come contestata al capo B)" (pg. 18 della sentenza del Giudice di legittimità), e, ancora, " osserva il Collegio che emerge una cesura temporale e logica, secondo la stessa motivazione d'appello, tra le prime condotte abituali di maltrattamenti, attuate nei confronti della piccola vittima e l'evento morte, verificatosi in data 22 maggio 2019, perché in tale condotta si innesta una seconda fase caratterizzata da lesività ulteriore, descritta quale considerevole escalation violenta che ha provocato nella giovane vittima acute sofferenze" (pg. 19).
In virtù della ravvisata cesura, la Corte di cassazione aveva individuato, altrettanto chiaramente, il compito rimesso ai Giudici di merito, specificando che, nel procedere alla corretta qualificazione delle condotte, dovesse essere precisato se fosse configurabile il delitto di maltrattamenti per la prima parte della condotta ai danni del minore (attuata dal mese di marzo 2019 e nei mesi successivi), e se fosse configurabile, per la condotta tenuta da due a quattro giorni prima della morte e fino al 22 maggio, il delitto di tortura.
2.3. Priva di pregio è anche la deduzione difensiva secondo cui la consulenza non avrebbe individuato l'eziogenesi delle bruciature; a pg. 19 e ss. della sentenza impugnata, la Cotte di appello ha dato atto di quanto riferito dai consulenti, in merito alla compatibilità delle lesioni con l'utilizzo di un accendino e argomentato in merito alla ritenuta inverosimiglianza della tesi difensiva della accidentalità delle bruciature, sia per la morfologia delle lesioni sia considerando che, se fossero state involontariamente causate dalla sorellina Charlotte, come ha sostenuto l'imputato, sarebbero stati immediatamente chiamati soccorsi.
3. Il tema centrale posto dal ricorso attiene alla qualificazione giuridica del fatto, da ricondursi, secondo la prospettiva difensiva, allo schema dei maltrattamenti aggravati, e al vizio di motivazione che affliggerebbe, sul punto, la sentenza impugnata.
3.1. È bene ricordare che all'imputato è stato contestato di avere maltrattato il figlioletto Me., costretto con gli altri familiari a penosissime condizioni di vita, e di averlo, negli ultimi giorni della sua vita, anche sottoposto a tortura, agendo con reiterate condotte violente connotate da gratuita crudeltà, con le quali provocava acute sofferenze fisiche al bimbo e ne cagionava la morte.
3.2. Occorre, poi, prendere le mosse dalle indicazioni provenienti dalla sentenza rescindente, che, censurando la decisione in quella sede impugnata, ha escluso l'assorbimento del reato di tortura in quello di maltrattamenti seguito dalla morte della vittima, in assenza delle condizioni strutturali previste dall'art. 84 cod. pen., e in assenza del presupposto sostanziale della unitarietà del fatto e della comune prospettiva finalistica (cfr. sentenza rescindente pg. 21). Ha, quindi, rimesso al Giudice del rinvio la valutazione in merito alla eventuale sussistenza di un concorso materiale tra condotte maltrattanti e tortura, sulla base della ravvisata cesura "logica e temporale" tra la prima parte della condotta maltrattante in danno del figlioletto, e quella messa in pratica in prossimità dell'exitus.
3.3. Sulla scorta di tali indicazioni, la Corte di appello di Milano, nella sentenza impugnata, ha considerato come le condotte poste in essere la notte del 21 e 22 maggio 2019 (attraverso bruciature, morsicature, lacerazioni del frenulo, colpi al capo e al torace) e nei giorni immediatamente precedenti la morte del piccolo "risultano comportamenti eccedenti rispetto alla normalità causale, che hanno determinato nella vittima sofferenze corporali aggiuntive, con grave e prolungato patimento fisico" (pg. 21), aggiungendo come "non si sia trattato di un unicum, cioè di condotte di maltrattamenti, per quanto gravi, sempre uguali a sé stessi, senza alcuna modifica nella gravità o nel tipo di condotte", in quanto, invece, l'istruttoria dibattimentale aveva restituito una innegabile cesura fra condotte di maltrattamento e gli eventi lesivi ben più gravi compiuti in un arco temporale molto vicino al decesso, che avevano provocato alla piccola vittima intensissime sofferenze fisiche, le quali costituiscono l'evento del reato di tortura.
Ha spiegato la Corte di appello come, nella notte in cui poi è sopravvenuto il decesso, e nei giorni immediatamente precedenti, il bimbo si fosse trovato come "una res in balia della furia insensata del padre, che lo ha utilizzato come bersaglio della sua violenza " (sentenza impugnata pg. 23), privato della sua dignità, disumanizzato dagli agiti del padre che lo aveva utilizzato per soddisfare i suoi impulsi bestiali, e che egli non solo si era trovato in una condizione di minorata difesa in ragione dell'età, ma era stato vittima di particolare crudeltà da cui erano derivate acutissime sofferenze, cosicché "quanto contestato al capo B) non può in alcuna maniera essere ricondotto al paradigma del reato di maltrattamenti, che non è in grado di esprimere e stigmatizzare tutto il disvalore giuridico della condotta agita dall'imputato"(pg. 23 della sentenza impugnata).
Questi, in sintesi, gli argomenti utilizzati dalla Corte di appello per affermare che la morte del piccolo Me. non è sussumibile nella fattispecie dei maltrattamenti aggravati ex art. 572 comma terzo, cod. pen., poiché l'evento è stato, invece, la conseguenza delle torture subite a opera del padre, riconducibili alla fattispecie di cui all'art. 613-bis ultimo comma.
3.4. È opportuno, a questo punto dell'analisi, accennare brevemente alla natura e alla struttura del delitto di tortura (che, nella fattispecie di cui al primo comma, qui rilevante, è un reato comune, potendo essere realizzato da chiunque) ricordando che l'art. 613-bis cod. pen. ha introdotto un reato doloso formalmente vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l'evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico) e per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa). Inoltre, è richiesta una condotta plurima o abituale per talune modalità della condotta (violenze o minacce, se il fatto è commesso mediante più condotte), ma non per altre (l'agire con crudeltà). A ciò si aggiungono - sempre sotto il profilo oggettivo - due elementi (alternativi) costituiti dall'essere il fatto commesso mediante più condotte, ovvero dal comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Più specificamente, sotto il profilo oggettivo, nel delineare la condotta, la norma chiede che il soggetto attivo ponga in essere "violenze o minacce gravi" ovvero agisca "con crudeltà"; tali azioni, a loro volta, possono integrare il reato solo se "Il fatto è commesso mediante più condotte" ovvero comporti "un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Il dettato normativo, ai fini della configurabilità del reato, richiede, cioè, condotte plurime, a meno che l'unica condotta non abbia determinato "un trattamento disumano e degradante". Il legislatore ha optato, quindi, per una duplice configurazione, alternativa, della condotta integrante la tortura, sotto il profilo oggettivo: per un verso, la tortura è stata concepita come reato abituale, richiedendosi la reiterazione delle condotte di violenza e minaccia con connotati di gravità; per altro verso, la legge ha introdotto una clausola di chiusura con cui riconosce rilevanza penale anche a un unico atto che possa ledere l'incolumità fisica, la libertà individuale e morale del soggetto purché comporti "un trattamento inumano e degradante" (Sez. 5 n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544).
Sono, quindi, configurabili molteplici possibilità di integrazione della condotta, in ragione delle modalità alternative descritte dalla norma, con riferimento, innanzitutto, a quella tra le violenze, le minacce gravi o l'agire crudele; successivamente, ove sia integrato uno dì tali elementi, si potrà accertare la sussistenza del successivo binomio (di nuovo alternativo) "pluralità di condotte/trattamento inumano e degradante". Ciascuna delle possibili combinazioni dovrà produrre l'evento, anche questo alternativo, indicato dalla norma incriminatrice, vale a dire "acute sofferenze fisiche" o un "verificabile trauma psichico".
Giova ricordare che la Corte Edu, nel qualificare, in base all' intensità delle sofferenze inflitte, la tortura, i trattamenti inumani e quelli degradanti, ritiene che l'agire crudele integri la massima sofferenza infliggibile alla vittima, tanto da caratterizzarne la tortura. Sul piano semantico, l'agire con crudeltà (che, nella tortura, è elemento normativo della fattispecie, intrinsecamente dotato di forte carica valoriale, per il quale, infatti, il legislatore non richiede neppure la reiterazione) significa insensibilità (si parla, infatti, di dimensione pre-emozionale), se non compiacimento (sadismo, secondo la classificazione scientifica), nei confronti della sofferenza altrui, che accompagna il compimento di atti che mortificano, deprimono o esasperano la vittima, nella sua sfera fisica o psichica. La giurisprudenza di questa Corte che si è pronunciata in tema di tortura ha descritto la crudeltà come "un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell'autore del fatto". (Sez. 5 n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 27784102).
Dunque, sul piano strutturale, il delitto di cui al primo comma dell'art. 613-bis cod. pen. è un reato comune, a forma vincolata, di evento, eventualmente abituale improprio (poiché solo per talune modalità della condotta - ossia per le violenze o le minacce gravi, che costituiscono ex se reato - è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà), in cui la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta; il fatto deve essere commesso mediante più violenze o minacce gravi o con crudeltà, attraverso plurime condotte ovvero mediante un trattamento inumano o degradante. Dal punto di vista soggettivo, la fattispecie si configura quale reato a dolo generico.
Quanto all'oggetto giuridico, posto che l'art. 613-bis cod. pen. si colloca - nel più ampio genus dei delitti contro la persona (titolo XII del libro II) - tra i delitti contro la libertà individuale (capo III) e, più precisamente, in chiusura della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale (sezione III) - la sedes materiae prescelta indica quale bene giuridico tutelato dal reato in esame la c.d. libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell'individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche, libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive che cagionino acute sofferenze a persona in condizioni di minorata difesa, che facilitano l'azione criminale dell'agente e rendono effettiva la signoria o il controllo sulla vittima, così da limitare o annullare la capacità di reazione.
La limitazione della sfera interiore della vittima costituisce un aspetto rilevante del fenomeno della tortura, in cui il soggetto passivo vede annientata la propria capacità decisionale, e, sul piano più strettamente giuridico, la tutela della libertà morale si riflette nella descrizione della condotta in termini di "violenze o minacce gravi", quali tipiche manifestazioni di coartazione della volontà altrui, e, inoltre, nell'identificazione dei destinatari della condotta in soggetti che si trovano in particolari condizioni di subalternità o debolezza rispetto all'autore del reato.
Invero, l'oggettività giuridica criminosa specifica del delitto di tortura, ossia il bene giuridico tutelato dall'incriminazione, è connotata da una maggiore pregnanza: "consistendo la tortura nella brutale inflizione di sanzioni corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico dell'essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale in balìa dell'arbitrio altrui è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una res oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, psichica e/o psichica inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell'offesa penalmente rilevante sta nella lesione della "dignità umana"...che si traduce nell'asservimento della persona umana e, di conseguenza, nella arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili" (sez. 3 n. 32380 del 25/05/2021, n. m.).
3.5. Ciò detto sul piano astratto, nel caso di specie, per quanto emerge dalla ricostruzione dei giudici di merito, nei giorni a ridosso dell'exitus, risultano compiuti e accertati nel giudizio una pluralità di atti di grave, efferata, insensata violenza, con inflizione di sofferenze corporali, attuati dall'imputato nei confronti del figlioletto che si trovava in condizioni di minorata difesa, dovute all'età, e che hanno posto la vittima, già inerme, in una condizione di totale assoggettamento.
Tutti i descritti atti sono indubbiamente connotati da crudeltà, in quanto gratuiti per i patimenti cagionati, rivelatori dell'indole malvagia ed espressivi di totale assenza di sensibilità a ogni richiamo umanitario, i quali hanno cagionato al piccolo Me. acute sofferenze fisiche, prima ancora di portarlo alla morte.
Correttamente, dunque, la Corte di appello ha ritenuto che la morte del bimbo sia stata la conseguenza delle torture patite, a opera del padre, negli ultimi giorni della sua breve vita, poiché essa è stata l'epilogo tragico, non delle iniziali condotte maltrattanti, ma della spietata insensibilità con la quale l'imputato - in un crescendo di insensata violenza e inaudita crudeltà che ha dato luogo, una volta che già erano consumati i precedenti maltrattamenti, a una progressione criminosa, nei giorni di fine maggio 2019 - ha privato il figlio della sua dignità, lo ha spersonalizzato e disumanizzato, riducendolo a un oggetto su cui sfogare i propri impulsi bestiali.
Le valutazioni della Corte territoriale sono, allora, corrette e coerenti con il costante indirizzo interpretativo, secondo cui, in tema di maltrattamenti in famiglia, integra la circostanza aggravante della morte della vittima, di cui all'art. 572, terzo comma, cod. pen., la condotta di colui che ponga in essere fatti di maltrattamento nel cui ambito si inscriva un'azione finale, che provochi direttamente il decesso della persona offesa, quale naturale sviluppo dell'unitaria e abituale condotta stessa (Sez. 6, n. 16548 del 23/02/2021, Rv. 280944), quando, cioè, i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell'ultimo episodio di violenza, abbiano idoneità concreta ad offendere il bene vita, sicché il decesso diviene il naturale sviluppo dell'unitaria e abituale condotta di maltrattamenti (Sez. 6, n. 46848 del 20/11/2012, Rv. 254275).
Nel caso in scrutinio, come ha bene osservato la Corte di appello di Milano, pur essendo indubbi i maltrattamenti perpetrati in danno del figlioletto, da parte dell'imputato, fin dal marzo-aprile 2019 (quando il bimbo era giunto in casa dopo essere stato tenuto a balia per circa due anni), cionondimeno, non furono le condotte maltrattanti a provocarne la morte.
Le violenze perpetrate dall'imputato erano, infatti, consistite, inizialmente, nell'ingiuriare e mortificare il piccolo, nel picchiarlo con la cintura, nel forzarlo a mangiare, nel buttarlo per terra e nel minacciarlo con l'accendino, spaventandolo, al punto che Me. non riusciva neppure a piangere (cfr. pg. 18 della sentenza impugnata). Condotte, appunto, maltrattanti.
Altro è quello che è accaduto negli ultimi giorni di vita della creatura, quando le condotte paterne assunsero connotati di violenza del tutto peculiari, esplicandosi con modalità violente e degradanti, arrivando l'imputato a produrre vaste e profonde bruciature ai piedini del piccolo (con tale intensità da interessare il sottocutaneo), a riempirlo di morsi, a costringerlo a ingoiare i propri escrementi, e a colpirlo violentemente con calci e pugni (da cui derivavano molteplici fratture non mortali e l'emorragia addominale) fino a culminare, nella notte del (omissis), nell'aggressione finale che ha provocato la frattura della teca cranica, quale causa diretta della morte del piccolo.
Per il parossistico crescendo criminale che l'ha, infine, connotata, la condotta ha assunto caratteristiche che travalicano lo schema legale dei maltrattamenti, essendosi arricchita di un devastante impatto lesivo, e caratterizzata per la spietatezza dell'azione e per le profonde mortificazioni alla piccola vittima, che ne hanno annientato la dignità, disumanizzandola, elementi, questi, che integrano, come si è visto, l'oggettività giuridica del delitto di tortura.
3.6. Il tema dei rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti - integranti, entrambi, reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti - va affrontato richiamando i princìpi che regolano il concorso di reati, secondo cui, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. Un. n. 1235 del 20/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 - 01).
Ebbene, il confronto strutturale tra la fattispecie in questione depone per la configurabilità del concorso materiale di reati posto che, per l'integrazione del delitto di cui all'art. 572 cod. pen., che è reato necessariamente abituale (Sez. 3, 06/02/2020, n. 10384), possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti o, comunque, non gravi (Sez. 6, 10/03/2016, n. 13422; Sez. 6, 12/11/2014, n. 51212); si tratta di reato a forma libera e non è richiesta la condizione di minorata difesa della vittima, né la crudeltà, che possono integrare, al più, delle circostanze aggravanti. Diversamente, per la integrazione del delitto ai tortura sono richiesti comportamenti integranti, ex sé, illeciti penali (a seconda dei casi, minaccia, violenza privata, percosse, lesioni), che si caratterizzano per la loro gravità e per la idoneità a produrre gli eventi alternativi previsti dalla norma (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico), con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. (Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021, n. m.).
Tra le due norme non sussiste un rapporto di continenza, non essendovi coincidenza tra gli elementi strutturali delle due fattispecie, e risultando altresì diverso anche il bene giuridico tutelato. L'art. 613-bis cod. pen. tutela, infatti, la "dignità umana", lesa da condotte che infliggono alla vittima sofferenze fisiche o psichiche tali da determinare un assoggettamento totale della vittima, che viene "trasformata da essere umano in cosa, ossia in una "res" oggetto di accanimento". Il reato di maltrattamenti in famiglia appartiene, invece, alla categoria dei reati contro la famiglia ed anticipa il titolo relativo ai reati contro la persona. Bene giuridico tutelato è l'integrità psico-fisica di persone facenti parte di contesti familiari o para-familiari. L'inflizione di sofferenze fisiche, la crudeltà non sono affatto, o non necessariamente, elementi strutturali del delitto di maltrattamenti, così come non sono richiesti gli eventi individuati dall'art. 613-bis cod. pen.
3.7. Dunque, deve essere escluso l'assorbimento, e ammesso, invece, il concorso materiale, ex art. 71 cod. pen., tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e il delitto di tortura, stante l'impossibilità di rinvenire tra le due fattispecie incriminatrici un rapporto di continenza, considerando che la fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen. non esaurisce il disvalore delle condotte violente, che talvolta travalicano i confini della violenza domestica per sfociare nella "inflizione brutale di sofferenze corporali" rilevanti ai sensi del più grave reato di tortura privata.
3.8. Il riconoscimento del delitto di tortura, nel caso in esame, fonda sull'evidenza dei comportamenti nei quali si è tradotta la violenza inflitta al figlioletto dal padre: alla serie di atti lesivi della sua integrità fisica e psichica, che lo avevano posto in una situazione di soggezione e sottomissione (il bimbo non riusciva più a piangere in presenza del padre), sono seguiti, negli ultimi giorni di vita del piccolo, numerosi episodi di efferata violenza, con lesioni acute e ultronee rispetto alle normali modalità e all'animus con cui si erano espresse le iniziali, più lievi, angherie del padre, tali, ora, da mettere a rischio la sua stessa vita, fino ad arrivare al culmine della crudeltà, quando il piccolo è stato violentemente percosso con un calcio o un pugno che ha prodotto l'esito fatale. All'interno del primo segmento temporale sì sono articolate una serie dì condotte maltrattanti - venendo il bimbo malmenato, mortificato, terrorizzato e seviziato - le quali possono essere ricondotte, appunto, alla fattispecie del delitto di maltrattamenti, aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 1 e n. 4, cod. pen., ricorrendo i futili motivi e la crudeltà nei confronti della vittima.
Nel secondo segmento temporale, concentrato nei giorni prossimi all'exitus, si sono inverate una serie di condotte che hanno elevato qualitativamente il grado dell'offesa, rappresentando una escalation nell'aggressione fisica e psicologica messa in atto nei mesi della prima frazione temporale. Proprio all'interno di questo secondo segmento temporale, è possibile individuare, come hanno fatto i giudici di merito, un frammento di vita concreto che ha poi consentito alla condotta, già ormai consumata di maltrattamenti, di evolversi verso il reato di tortura: l'imputato, come si è visto, ha attuato, verso il figlioletto inerme, condotte di mortificazione (ha fatto ingoiare i suoi stessi escrementi) e violenza, su di lui infierendo ripetutamente con morsi profondi e numerose bruciature sui piedini, sul faccino e sulle braccine, oltre che con percosse da cui è derivato un pluri-traumatismo e un'emorragia addominale, prima della clamorosa frattura della teca cranica che lo ha portato a morte.
In tali condotte si annida, al di là del dolore fisico cagionato, un quid pluris, costituito dall'annientamento della dignità umana attraverso la paura del dolore, che si traduce nell'asservimento della persona e, di conseguenza, nell'arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali e inviolabili. Per l'effetto, deve ritenersi configurabile il concorso materiale tra i due reati in analisi, che, nel caso concreto, è giustificato anche per l'assenza di una coincidenza temporale delle condotte che le hanno integrate.
Può dunque affermarsi che tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti in famiglia è ravvisabile sia la diversità del bene giuridico tutelato, sia la non sovrapponibilità strutturale delle condotte incriminate, posto che i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un familiare acquistano autonoma rilevanza nel caso in cui, oltre ad essere funzionale a tale finalità, la condotta si estrinsechi in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.
3.8. La tesi difensiva, secondo cui la morte fu l'epilogo tragico dei maltrattamenti, non si confronta con gli argomenti già espressi nella sentenza impugnata, che ha posto in luce, per un verso, la cesura tra iniziali condotte maltrattanti e le torture subite negli ultimi giorni di vita dal bimbo, e, dall'altra, le caratteristiche strutturali affatto diverse delle due fattispecie (pg. 23).
3.9. Sussiste, quindi, concorso materiale tra i maltrattamenti in famiglia aggravati da crudeltà, futili motivi e minorata difesa, e la tortura in danno del familiare minore di età, in presenza di uno iato temporale tra i primi e la seconda, in cui la condotta dell'agente è trasmodata in atti che hanno trasformato la vittima in una res alla sua mercè, su cui accanirsi a piacimento, spersonalizzandola e disumanizzandola.
4. Non coglie nel segno il secondo motivo, incentrato sull'elemento soggettivo, denunciando violazione del combinato disposto degli artt. 43 cod. pen. e 192 cod. proc. pen. per essere stata omessa una compiuta valutazione - limitando l'analisi soltanto ad alcuni di essi - di tutti i criteri indicati dalla c.d. "prima formula di Frank", di cui alla sentenza delle sezioni unite 'Espenhahn', onde scandagliare l'elemento psicologico dell'agente, che si assume erroneamente ricondotto, sulla base di una motivazione manifestamente illogica e contraddittoria, al dolo eventuale, in luogo della colpa cosciente, con conseguente erronea applicazione della previsione legale.
4.1. Il Collegio ritiene che la sentenza impugnata abbia, invece, dato una risposta giuridicamente corretta alle censure dell'appellante, ne ravvisare il dolo eventuale e quindi nel qualificare i fatti ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 612-bis cod. pen. per essere stata volontariamente cagionata, in seguito a tortura, la morte del piccolo Me.
4.2. Le Sezioni Unite - come è noto - hanno tracciato il discrimen tra il dolo eventuale e la colpa cosciente, affermando che ricorre il primo quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e, ciononostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre, invece, la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento, ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Ud. (dep. 18/09/2014), Espenhahn e altri, Rv. 26110401). Le Sezioni unite hanno, dunque, rimarcato la centralità, nel dolo eventuale, della componente volitiva dell'elemento soggettivo, affermando che "se la previsione è elemento anche della colpa cosciente è sul piano della volizione che va ricercata la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente", laddove "La colpevolezza per l'accettazione del rischio non consentito corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso". Ai fini della configurabilità del dolo eventuale, pertanto, non basta "La previsione del possibile verificarsi dell'evento; è necessario anche - e soprattutto - che l'evento sia considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di un determinato risultato". Nella prospettiva tracciata dalle Sezioni Unite (par. 50), dirimente, ai fini della configurabilità del dolo eventuale, è un "atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all'evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta". Per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre, dunque, la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa (Sez. 5, n. 23992 del 23/02/2015 Rv. 265306).
Nella consapevolezza della complessità dell'accertamento giudiziale, le Sezioni Unite hanno enucleato alcuni indicatori del dolo eventuale, sulla cui valutazione deve fondarsi l'indagine giudiziaria volta a ricostruire l'iter" e l'esito del processo decisionale. Essi sono stati così indicati: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (c.d. formula di Frank).
Si è, dunque, in presenza di un giudizio di merito, ipotetico, affatto estraneo alla scienza penalistica, tradizionalmente pervasa da valutazioni di natura congetturale e controfattuale. L'importante è, come hanno sottolineato le Sezioni unite, che "si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l'agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell'evento illecito collaterale".(pagina 187).
A fronte a categorie, quelle del dolo eventuale e della colpa cosciente, concepite dogmaticamente come figure contigue e speculari, il ricorso alla "formula di Frank" ha, dunque, lo scopo di risolvere i casi di confine; tuttavia, è proprio questa contiguità dogmatica - ed evidentemente sistematica - a imporre al giudice del merito di compiere una verifica rigorosa degli elementi processuali sottoposti alla sua cognizione, che non lasci spazio a presunzioni o a semplificazioni probatorie, ossequiose a esigenze esclusivamente edittali (Sez. 1, n. 18220 del 11/03/2015, Rv. 263856).
L'accertamento del dolo eventuale, tuttavia, non può essere affidato solo a tale modello euristico, come affermato dalle stesse Sezioni unite, in ragione del fatto che il giudice, nel compiere una tale valutazione processuale, deve "avvalersi di tutti i possibili, alternativi strumenti d'indagine", e, come chiarito, dall'autorevole Consesso, "l'esposizione che precede indica solo alcuni degli indizi. Il catalogo è aperto e ciascuna fattispecie concreta, analizzata profondamente, può mostrare plurimi segni peculiari in grado di orientare la delicata indagine giudiziaria sul dolo eventuale" (par. 51.12), con la precisazione che, nel procedimento di accertamento controffattuale che deve compiere il giudice di merito, "in tutte le situazioni probatorie irrisolte alla stregua della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, occorre attenersi al principio di favore per l'imputato e rinunziare all'imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa, se prevista dalla legge" (pg. 188).
4.3. Ricostruita in questi termini la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, rileva il Collegio, in primo luogo, che non trova alcun fondamento giuridico la tesi difensiva per cui la Corte di appello avrebbe dovuto vagliare, al fine di estrapolare l'elemento soggettivo dell'omicidio, tutti e ciascuno degli indicatori individuati dalla giurisprudenza, nella sua massima espressione, giacché, invece, come si è visto, si tratta di elencazione del tutto esemplificativa, essendo rimessa al Giudice di merito la individuazione, in concreto, degli indicatori del dolo eventuale sui quali deve fondarsi l'indagine giudiziaria volta a ricostruire l'iter" e l'esito del processo decisionale.
4.4. Quanto alla valutazione svolta sul punto dalla Corte di appello, il Giudice a quo ha specificamente e correttamente affrontato il tema del dolo eventuale, facendo corretta applicazione dei principi testé richiamati ed enucleando alcuni degli indicatori individuati dalle Sezioni unite per ricostruire gli elementi significativi ai fini dell'accertamento dell'elemento psicologico, sul piano volitivo oltre che della previsione, dimostrando un consapevole approccio euristico: ha ben considerato la Corte di appello, appunto, come la colpa cosciente sia configurabile nel caso in cui l'agente abbia previsto in concreto che la sua condotta poteva cagionare l'evento, ma abbia agito con il convincimento di poterlo evitare, mentre ricorre il dolo eventuale quando il Giudice sia in possesso - e li indichi analiticamente, come avvenuto nel caso di specie - di elementi sintomatici da cui sia desumibile, sul piano della rappresentazione, non la prevedibilità in astratto dell'evento, bensì la sua previsione in concreto da parte dell'imputato, oltre che, sul piano volitivo, l'adesione psicologica a esso, quale conseguenza del proprio agire.
Posto che gli "indizi o indicatori non incarnano la colpevolezza, ma servono a ricostruire il processo decisionale ed i suoi motivi e particolarmente il suo culmine che, come si è visto, si realizza con l'adozione di una condotta che si basa sulla nitida, ponderata consapevolezza della concreta prospettiva dell'evento collaterale e si traduce in adesione a tale eventualità, quale prezzo o contropartita accettabile in relazione alle finalità primarie. Gli indizi, insomma, sono al servizio del giudizio che si risolve nel peculiare rimprovero doloso di cui ci si occupa" - vale la pena di ricordare che, nel tirare le somme del giudizio controfattuale, alla stregua della prima 'formula di Frank', la Corte di appello ha considerato che , "nel caso di specie abbiamo un colpo fatale, sferrato con un calcio, ovvero facendo collidere la vittima con una superficie molto dura, al punto da provocarne lo sfondamento della teca cranica; il colpo era sferrato al capo della vittima da un uomo nel pieno della sua maturità e della sua furia ai danni di un bambino di due anni, vittima da giorni di sevizi e torture, e, quindi, fortemente indebolito e debilitato nel fisico". Ha, quindi, escluso qualsivoglia incidenza sull'elemento soggettivo della lieve disabilità intellettiva di cui è portatore l'imputato, e osservato come l'imputato si fosse attivato per chiamare soccorsi ore dopo avere colpito il figlio, quando, forse, era già sopraggiunta la morte.
Neil'offrire un'ampia argomentazione in merito all'operazione euristica svolta in tema di elemento soggettivo, ha, infine, osservato la Corte di appello: "quanto alla probabilità del verificarsi dell'evento sogguardata, come richiede la Suprema Corte, dal punto di vista dell'agente e della percezione che questi ne possa aver avuto, si osserva che egli non poteva non essersi rappresentato quale conseguenza almeno altamente probabile di una notte di sevizie, di pugni e calci inferii ad un bambino di due anni, in distretti quali il capo e l'addome, culminati con lo sfondamento del cranio, che tali condotte certamente volute, portassero alla morte del piccolo con un grado di probabilità che - viste tutte le condizioni sussistenti, non ultimo lo stato di debilitazione di Me., come chiaramente visibile sul corpo martoriato - si avvicinava alla certezza" (pg. 26). D'altro canto, ha osservato ancora la sentenza impugnata, il piccolo, prima dell'ultimo colpo fatale, era stato già colpito più volte, aveva una emorragia interna e aveva delle fratture in diversi distretti del corpo che, secondo in consulenti, avevano creato una situazione che avrebbe già potuto portare alla morte; ciononostante, e cioè con la nitida consapevolezza della concreta prospettiva dell'evento morte, l'imputato non si arrestò, pur nella lampante evidenza della situazione in cui si trovava la vittima, "ormai già in bilico tra la vita e la morte".
La sentenza impugnata ha, dunque, fornito compiuta descrizione dell'elemento soggettivo che ha individuato, ovvero, appunto, del dolo eventuale, che "si ha quando il rischio viene accettato a seguito di un'opzione, di una deliberazione con la quale l'agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro. Vi è la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse da soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il soddisfacimento di tale interesse e il sacrificio di un bene diverso. In sostanza l'agente compie anticipatamente un bilanciamento, una valutazione comparata degli interessi in gioco (suoi ed altrui) ve n'è uno che sovrasta l'altro. Il risultato intenzionalmente perseguito trascina con sé l'evento collaterale, il quale viene dall'agente coscientemente collegato al conseguimento del fine", cosicché "anche l'evento collaterale appare, in tal modo, all'agente "secondo l'intenzione". (Sez. Un. cit. in motivazione).
La Corte di appello ha ben spiegato perché, alla luce di tutte le contingenze nelle quali i fatti si sono inseriti, il verificarsi della morte del figlioletto sul quale continuava a infierire fosse stato accettato e messo in conto dall'agente, pur di non rinunciare all'azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo, perché egli non poteva non essersi raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell'evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, piuttosto essendosi confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si fosse consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l'eventualità della causazione dell'offesa.
4.4. Giova aggiungere che, correttamente, la Corte di appello non ha dato rilievo all'alibi morale prospettato dall'imputato, stante l'irrilevanza in quanto tali, degli atteggiamenti della sfera emotiva, degli stati d'animo. "L'ottimismo ed il pessimismo, la speranza, naturalmente, non hanno un ruolo significativo nell'indagine sull'atteggiamento interno in rapporto alla direzione della condotta verso l'offesa del bene giuridico", come si legge nella sentenza "Espenhahn" (Pg. 183). La motivazione è limpida; la Corte di appello ha articolato molto chiaramente il ragionamento decisorio, evidenziando come l'imputato si sia rappresentato con elevata verosimiglianza l'evento morte che ha accettato quale conseguenza accessoria della sua azione principale.
5. Il terzo motivo non ha pregio. Il tema della qualificazione del fatto sub B) ai sensi dell'art. 572 comma terzo, cod. pen., come si è già osservato al par. 3, è stato affrontato dalla sentenza impugnata, dal momento che i Giudici di merito hanno dato conto dell'analisi delle fattispecie emerse nel procedimento penale e indicato le ragioni per cui non fosse configurabile il delitto di maltrattamenti aggravati dalla morte (pg. 23 della sentenza impugnata).
5.1. Una volta ravvisati - alla luce di richiamate coordinate giurisprudenziali - le condizioni di minorata difesa, per la tenera età della piccola vittima, la particolare crudeltà della condotta e le acutissime sofferenze provocate, nonché il dolo eventuale, ricostruito sulla base di una scrupolosa analisi dell'elemento soggettivo, la Corte territoriale ha escluso di potere ricondurre il fatto sub B) al paradigma del reato di maltrattamenti " che non è in grado di esprimere e stigmatizzare tutto il disvalore giuridico della condotta agita dall'imputato", sottolineando le differenze strutturali delle due fattispecie, e la insufficienza della stessa circostanza aggravante dell'avere agito con crudeltà, contestata sub C), a rappresentare la condotta con la quale il padre, oltre a maltrattare sistematicamente il figlioletto, lo aveva ridotto, negli ultimi giorni di vita del piccolo, a un oggetto, una res, sul quale accanirsi a piacimento, senza che la vittima - alla completa mercè del padre -fosse in grado di esprimere una qualsivoglia reazione. Come si è già visto, le valutazioni della Corte di appello risultano giuridicamente corrette.
5.2. L'avere ricostruito l'animus che ha sorretto l'agire criminale dell'imputato in termini di dolo eventuale, e qualificato il fatto in un reato punito con la pena dell'ergastolo, esimeva la Corte di appello dallo scrutinio della questione dell'applicazione della riduzione per il rito abbreviato (cfr. pg. 28 della sentenza impugnata).
6. Non è fondato neppure il quarto motivo, che attinge il trattamento sanzionatorio. Il ricorrente omette di considerare che il Giudice di primo grado, e la stessa Corte di appello di Milano, pronunciandosi la prima volta e pur avendo riqualificato in meljus i fatti, avevano escluso la concedibilità delle circostanze attenuanti c.d. atipiche, specificamente soffermandosi sulla personalità dell'imputato e sulla sua condotta processuale. Rispetto a tale argomentazione, il motivo di ricorso risulta finalizzato a conseguire un non consentito sindacato su scelte valutative, immuni da evidenti illogicità, compiute dai giudici di merito (ex plurimis Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
7. In conclusione, la Corte di appello ha bene argomentato la propria decisione, sia in relazione alla qualificazione del fatto sub B) in termini di tortura e non di maltrattamenti aggravati dalla crudeltà, sia, posto T'assorbimento nel delitto di tortura dell'omicidio, in merito alle ragioni per cui la morte del piccolo sia stata voluta, in termini di dolo eventuale, dall'agente. I giudici territoriali hanno, quindi, spiegato, con ragionamento fedele ai fatti e giuridicamente corretto, perché la verificata ingravescenza delle condotte attuate dall'imputato in danno del figlioletto abbia assunto una propria autonomia causale, assumendo le connotazioni giuridiche tipiche della tortura, nel cui ambito si è inserito l'evento morte.
8. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
8.1. Il ricorrente deve anche essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel giudizio di legittimità dalla costituita parte civile, da liquidarsi come in dispositivo. Poiché le parti civili sono ammesse al patrocinio a spese dello Stato, compete alla Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 541 cod. proc. pen. e 110 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, pronunciare condanna generica dell'imputato al pagamento di tali spese in favore dell'Erario, mentre è rimessa al giudice che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato, la liquidazione delle stesse mediante l'emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 del citato D.P.R. (Sez. U., Ordinanza n. 5464 del 26/09/2019 Ce. (dep. 12/02/2020), De Falco, Rv. 277760).
8.2. In caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 , art. 52 in quanto imposto dalla legge.
PQM
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle costituite parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2024.
Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2024.