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Maltrattamenti in famiglia: sussiste il reato anche se le condotte violente sono reciproche

Maltrattamenti

Cassazione penale , sez. I , 10/04/2024 , n. 19769

Il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri, poiché l' art. 572 c.p. , non prevedendo spazi di impunità in relazione ad improprie forme di autotutela, non consente alcuna compensazione fra condotte penalmente rilevanti poste in essere vicendevolmente.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 23/05/2022, la Corte di assise di Genova ha dichiarato St.Gi. colpevole: - del delitto di omicidio aggravato in danno della madre St.Lo., fatto accertato il (Omissis) e commesso mediante condotta non definibile, in ragione della avvenuta distruzione e soppressione del cadavere della vittima; - del delitto di cui all'art. 411 cod. pen., per aver soppresso e distrutto il cadavere della madre (che veniva scarnificato fino al piano scheletrico; al quale venivano asportati frammenti ossei, nonché amputate mani e piedi; che veniva eviscerato di quasi tutti gli organi, poi occultati all'interno di due secchi, ad eccezione dei piedi, smaltiti nell'immondizia e di alcuni organi, quali stomaco, esofago, milza, reni, intestino tenue e crasso, utero, ovaie, aorta, genitali esterni e mammelle, che venivano smaltiti all'interno degli scarichi dell'abitazione); - del delitto di maltrattamenti in danno della madre St.Lo., che veniva da lei quasi quotidianamente aggredita verbalmente, oltre che percossa, minacciata, ferita e costretta a trovare rifugio altrove e alla quale, peraltro, ella sottraeva il bancomat, effettuando poi con lo stesso prelievi di denaro non autorizzati, così ponendo in essere condotte di violenza fisica e morale, prevaricandola sistematicamente e costringendola a vivere in un clima di terrore e di costante umiliazione, approfittando della fragilità psichica e fisica, dovuta anche a problemi nella deambulazione, della stessa; - del delitto di cui all'art. 493-ter cod. pen., per aver indebitamente utilizzato la carta bancomat della madre, effettuando prelievi monetari e altre operazioni, fino a raggiungere l'importo complessivo di euro 31.669,76; - del delitto di omicidio aggravato, commesso il (Omissis), in danno del figlio St.Ad., di anni tre, che veniva da lei ucciso con un cuscino posto sul viso, così da provocare una asfissia meccanica da soffocamento. Per l'effetto, la Corte di assise - previa unificazione sotto il vincolo della continuazione dei reati di omicidio (quest'ultimo considerato reato più grave), di distruzione di cadavere e di maltrattamenti commessi in danno della madre, oltre che di indebito utilizzo del bancomat della stessa, nonché previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, computate con il criterio della equivalenza rispetto alle contestate aggravanti ex art. 577, comma 1, n. 1 e 61 n. 2 cod. pen., ha condannato la St.Gi. alla pena di anni ventotto di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare. La stessa Corte di assise ha contestualmente inflitto alla St.Gi. la pena di anni ventiquattro di reclusione, quanto all'omicidio del piccolo figlio St.Ad., previa esclusione della circostanza aggravante della premeditazione e con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, computate in regime di equivalenza rispetto alla contestata aggravante ex art. 577, comma 1, n. 1) cod. pen. La pena così complessivamente inflitta all'imputata - in relazione a tutti i reati a lei ascritti - è stata rideterminata, dunque, in quella dell'ergastolo. Sono state applicate, inoltre, le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale, durante il tempo di espiazione della pena. 1.1. Sotto il profilo storico e oggettivo, giova brevemente precisare che -nella notte tra il 20 e il 21 aprile 2020, St.Gi. si portò presso la locale Questura e rese dichiarazioni, a seguito delle quali venne effettuata una perquisizione all'interno dell'abitazione che ella al tempo divideva con la madre, St.Lo., ubicata in G alla via (Omissis). Qui gli operanti, conformemente a quanto aveva riferito la St.Gi., trovarono uno scheletro e dei resti umani, che in seguito St.Si., sorella dell'attuale imputata, riconobbe per essere quelli della madre suddetta. La stessa imputata riferì di aver scarnificato il corpo della madre, nonché di averne smaltito alcuni organi attraverso gli scarichi dell'appartamento, di averne collocati altri nei bidoni dell'immondizia e di averne gettato i piedi nel cassonetto dei rifiuti. Sostenne di aver trovato la madre impiccata, mediante una corda, alla portafinestra della cucina. Nel corso delle indagini preliminari, si procedette al sequestro del telefono dell'imputata e di alcuni fogli, vergati di proprio pugno dall'imputata; si esperirono accertamenti in ordine alle condizioni economiche (risultate estremamente precarie) della famiglia, anche sottoposta a intimazione di sfratto per morosità. 1.2. Il (Omissis) era invece deceduto - all'interno dell'abitazione ubicata in G, alla via (Omissis) - il piccolo St.Ad., di soli tre anni, figlio dell'imputata e di Ok.Ka.; il decesso del piccolo era stato constatato alle ore (Omissis), ad opera del medico rianimatore del 118, colà giunto a seguito di segnalazione inoltrata dalla stessa imputata. Quanto a tale omicidio, le indagini accertarono anche l'esecuzione, su internet, di alcune ricerche sulle manovre da effettuare, per salvare un bambino in fase di soffocamento. Secondo il consulente del Pubblico ministero, il decesso del bambino fu cagionato da una asfissia volontariamente provocata con mezzo soffice, probabilmente a mezzo di un cuscino. Confidandosi con la compagna di cella Ri.Mo., la St.Gi. fornì poi diverse versioni, in ordine alle circostanze che avevano condotto al decesso del piccolo, tra cui anche quella della morte per schiacciamento mediante un cuscino, da lei stessa provocato. 1.3. Sempre nel corso delle indagini preliminari, si è accertato come la St.Lo. avesse ricevuto la somma di euro 36.153,74, in data 10/10/2018, a titolo di trattamento di fine rapporto; ella percepiva, inoltre, una pensione mensile ammontante a euro 900,00. Nonostante ciò, il conto corrente della donna era quasi del tutto azzerato. Si accertò la falsificazione, ad opera dell'imputata, della firma della madre su quattro assegni; ella stessa, infine, sostanzialmente ammise l'indebito utilizzo del bancomat di quest'ultima. 1.4. Per ciò che inerisce al delitto di maltrattamenti, l'accusa trae alimento dalle dichiarazioni rese da St.Gi., di Ma.Ma. (compagna del padre dell'imputata), del già menzionato Ok.Ka., della madre di questi, Re.So. e di alcuni vicini di casa. Risulta anche, in altra occasione, una richiesta di aiuto rivolta dalla St.Lo. al 112; il successivo intervento effettuato dalle forze dell'ordine, presso l'abitazione dell'imputata e della vittima, è stato dettagliatamente ricostruito in sede dibattimentale, anche mediante l'ascolto della telefonata, la cui trascrizione è stata versata nell'incarto processuale. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Genova - in parziale riforma della sentenza gravata - ha riconosciuto all'imputata l'attenuante ex art. 89 cod. pen., computandola secondo il parametro della prevalenza, rispetto alle contestate aggravanti e decidendo anche per la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. Per l'effetto, la Corte di assise di appello ha ridotto ad anni quindici di reclusione la pena inflitta, in relazione ai reati di omicidio e maltrattamenti perpetrati in danno della madre, oltre che di soppressione del cadavere della stessa e di indebito utilizzo del bancomat della St.Lo., cosi rideterminando la pena complessivamente inflitta, quanto a tali delitti, nella misura di anni quindici di reclusione; gli stessi Giudici di secondo grado, inoltre, hanno rideterminato in anni dodici di reclusione la pena inflitta per il reato di omicidio commesso in danno del figlio St.Ad., cosi rideterminando la relativa pena in anni dodici di reclusione. La complessiva pena finale inflitta all'imputata, pertanto, è stata rimodulata nella misura di anni ventisette di reclusione. Nei confronti della St.Gi., inoltre, è stata disposta la misura di sicurezza detentiva della casa di cura e custodia, per un tempo non inferiore ad anni tre, da eseguirsi presso una REMS. La sentenza di primo grado, infine, è stata confermata nel resto. 3. Ricorre per Cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova, deducendo un motivo unico, articolato in plurimi profili di censura, mediante il quale viene denunciato il vizio ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. 3.1. La motivazione della sentenza impugnata è carente sotto il profilo della ritenuta sussistenza della seminfermità mentale dell'imputata; ciò sia per la mancata indicazione analitica, circa le ragioni poste a fondamento della condivisione delle conclusioni raggiunte dalla espletata perizia in secondo grado, rapportata alla perizia espletata durante il primo grado di giudizio e alle conclusioni rassegnate dai consulenti, sia sotto il profilo della mancata spiegazione, in ordine alla correlazione ritenuta esistente, fra l'ipotizzata patologia e i singoli delitti commessi. La sentenza di primo grado aveva accuratamente esaminato gli accertamenti psichiatrici, fondati anche sulla raccolta di dati anamnestici, su test psicodiagnostici e su colloqui clinici, effettuati tanto nel corso dell'incidente probatorio, quanto in sede dibattimentale. Erano state disattese, in tal modo, le conclusioni raggiunte dal perito incaricato in sede di primo incidente probatorio, che aveva ritenuto sussistere una "psicosi paranoide cronica" o "psicosi schizofrenica paranoide cronica", fonte di una totale incapacità di intendere e di volere. Discostandosi anche dalle conclusioni raggiunte dai consulenti di parte, la Corte di assise aveva invece condiviso la seconda perizia svolta in incidente probatorio, che aveva riscontrato la presenza di un "disturbo borderline di personalità" (compatibile con una incapacità di intendere e di volere sia parziale, sia totale, oltre che con una piena capacità di discernimento). Si era così ritenuta, in primo grado, la perfetta capacità di intendere e di volere dell'imputata, in relazione a tutti i reati dalla stessa posti in essere. Il perito nominato in grado di appello ha concluso per la sussistenza di una "disabilità intellettiva lieve" e per un "disturbo della personalità schizotipico", tali da determinare la seminfermità mentale della prevenuta. In presenza di tali contrasti, la Corte di assise di appello non ha posto in essere una lettura critica della sentenza di primo grado e, inoltre, ha omesso di effettuare una comparazione fra i diversi elaborati, nonché di chiarire le ragioni in base alle quali abbia ritenuto di poter privilegiare - a scapito delle altre posizioni - le conclusioni rassegnate dal perito nominato in grado di appello. La affermazione di seminfermità, dunque, viene apoditticamente condivisa dalla Corte di assise di appello, la quale afferma - con ragionamento di evidente sviluppo circolare - che essa offre "una spiegazione risolutiva della condotta illecita". Non vi è motivazione, dunque, in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso eziologico, fra il disturbo mentale e il fatto di reato; ciò in quanto la motivazione si affida a pseudo massime ricavate dalla comune esperienza, che asseritamente consentono di ricondurre solo ad una personalità disturbata le accertate condotte, definite ossessive, fredde, determinate e organizzate. 3.2. È illogica la motivazione adottata dalla Corte di assise di appello, laddove ritiene che le condotte ascritte all'imputata, in quanto non spiegabili in termini di comune razionalità, debbano necessariamente essere espressione di una infermità mentale penalmente rilevante. La motivazione della sentenza impugnata, quindi, è fondata su una vera e propria petizione di principio, in quanto si discosta radicalmente - e senza chiarirne le ragioni - dal metodo scientifico indicato dal primo perito. Quest'ultimo, in realtà, aveva ben esplicitato il profilo della inesistenza di un nesso di necessaria correlazione deterministica, fra la malattia di mente e il compimento di reazioni che possano suscitare sgomento o repulsione. 3.2.1. L'apparato motivazionale della sentenza impugnata è contraddittorio sul versante intrinseco, allorquando - muovendo dal principio che solo la malattia mentale possa spiegare la commissione dei due omicidi, altrimenti destinati a rimanere sforniti di un movente - prosegue il proprio argomentare facendo riferimento a relazioni personali, stati d'animo e contesti che ragionevolmente disvelano gli elementi che sono all'origine dei fatti omicidiari. Quanto all'omicidio della madre, la contraddittorietà si annida nell'aver affermato, in un primo momento, trattarsi di un gesto totalmente privo di movente (anzi, addirittura contrario al naturale interesse economico e affettivo dell'imputata) e, in seguito, nell'aver ritenuto che l'imputata non sopportasse più la presenza della madre, dovendosi inquadrare tale rapporto in una situazione di estrema conflittualità personale, fortemente acuita dalla convivenza forzata imposta dalla pandemia. Anche la motivazione adottata con riferimento all'omicidio del figlio risulta contraddittoria, laddove prima si afferma poter essere tale fatto solo il frutto di una mente malata e, poi, si riconduce il gesto ad un comportamento impulsivo, dovuto al fatto che il bambino infastidisse l'imputata. 3.2.2. La motivazione della sentenza impugnata risulta contraddittoria, inoltre, rispetto ad altri elementi di valutazione e conoscenza emersi durante il processo, nonché all'esito del raffronto con la motivazione della sentenza di primo grado (che pure la stessa sentenza afferma di condividere, per essere la stessa puntuale, accurata ed esaustiva), laddove ritiene i delitti per i quali si procede del tutto sforniti di un movente, così finendo per contraddire le ragionevoli spiegazioni delle azioni dell'imputata, desumibili dal compendio probatorio emerso. Non vi è confronto con le puntuali affermazioni contenute nella sentenza di primo grado, che aveva visto l'omicidio della St.Lo. come il culmine di una serie di condotte maltrattanti, tanto che la vittima aveva più volte manifestato timori per la propria incolumità. La scarnificazione e il depezzamento della madre appaiono pienamente in linea, del resto, con le enormi difficoltà che avrebbe presentato, soprattutto durante il periodo di chiusura generalizzata connesso alla pandemia, l'operazione di sbarazzarsi di una salma rimasta intera. Ma anche le ragioni poste a fondamento dell'assassinio del piccolo St.Ad. sono affrontate nella sentenza impugnata in maniera sbrigativa, addirittura senza tener conto delle ricerche effettuate dall'imputata via internet mesi prima del fatto. 4. Ricorre per Cassazione St.Gi., a mezzo dell'avv. Chiara Mariani, deducendo quattro motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 4.1. In relazione al reato sub A), ossia quanto all'omicidio in danno della madre St.Lo., la difesa articola il primo e il secondo motivo, sussunti nell'atto di impugnazione. 4.1.1. Con il primo motivo, viene denunciato vizio rilevante a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., quanto alla valutazione effettuata circa l'alternativa ipotesi suicidiaria, per mancanza di motivazione in relazione alle emergenze processuali, nonché per manifesta contraddittorietà in riferimento ai risultati autoptici. Non sono stati adeguatamente considerati gli esiti dell'autopsia, confermati nel corso dell'udienza del 07/03/2022; si è omesso di valutare come l'imputata avesse effettuato molteplici ricerche su internet, in ordine alle riferite modalità di suicidio prescelte dalla madre; non sono stati adeguatamente presi in considerazione il passato di depressione cronica della St.Lo., né gli eventi drammatici succedutisi negli ultimi sei mesi (segnatamente, la morte del nipote, lo sfratto subito, il lockdown e - in conseguenza - la convivenza forzata con la figlia) e, infine, non si è valutata l'incidenza dell'isolamento sociale nel quale ormai si trovava la donna. Infine, è presente nell'incarto processuale una intercettazione telefonica, fra St.Si. e lo zio St.Ro., fratello di St.Lo., nel corso della quale quest'ultimo racconta di aver visto la sorella molto stressata. Tutte le ragioni addotte nella sentenza di primo grado, per disattendere la tesi del suicidio della St.Lo., comunque avversate dalla difesa con l'atto di gravame, cedono completamente, nel momento in cui si ritiene l'imputata priva di una piena capacità di intendere e di volere. Si ricorda che la prima perizia aveva dichiarato la St.Gi. completamente incapace di intendere e di volere; solo la contestazione dell'omicidio del figlio determinò l'esperimento di una nuova valutazione peritale, relativamente al secondo fatto omicidiario, con l'indicazione - in caso di contrasto degli esiti rispetto alla precedente diagnosi - di pronunciarsi sull'interezza della contestazione espressa in rubrica. Giustamente, quindi, la Corte di assise di appello si è determinata a disporre l'effettuazione di una nuova perizia, all'esito della quale è stato diagnosticato all'imputata un disturbo di personalità schizotipico con lieve disabilità intellettiva, tale da determinare un vizio parziale di mente, i cui effetti si sono riverberati su tutti i reati contestati. Vi sono però delle contraddizioni interne alla motivazione, dato che - pur riconoscendo alla malattia psichiatrica un ruolo determinante, nell'azione distruttiva del cadavere della St.Lo. - si finisce impropriamente per argomentare che, se la madre si fosse suicidata, l'imputata non avrebbe avuto alcuna ragione per distruggerne il cadavere. Ma una diagnosi quale quella da ultimo formulata, a carico dell'imputata, non combacia con la capacità ideativa e le cognizioni medico-legali, che sarebbero state sicuramente necessarie alla prevenuta, per compiere il depezzamento del corpo della madre. Del resto, gli esiti dell'esame autoptico facevano desumere la piena compatibilità delle emergenze oggettive, con l'ipotesi suicidiaria (ci si riferisce alle risultanze non solo derivanti dal brandello di collo, ma dalla intera regione del collo stesso, che ha consentito di ricostruire l'inclinazione del laccio costrittivo e di rinvenire il punto di soluzione di continuità, coincidente con la posizione del nodo, compatibile con la posizione del cadavere descritta dalla St.Gi.). A ciò si aggiunga che mani e unghia della vittima si presentano prive di segni di difesa, cosi come mancano lacerazioni, contusioni o segni di fendenti. Quanto alla depressione e all'isolamento in cui versava la St.Lo., pacifica è l'esistenza dello sfratto, intimatole dal proprietario di casa Cu.Lu., che sul punto ha riferito in dibattimento. Pacifico è anche che la donna non avesse più contatti nemmeno con il medico di medicina generale dottor Va., come da questi dichiarato in aula. La contraddittorietà, del resto, si annida già nel testo della motivazione della sentenza impugnata, laddove prima si descrive la St.Lo. come una donna energica e vitale, per poi affermare come si trattasse di una persona anziana, ammalata e in balia della figlia. Infine, i dubbi emersi fra i parenti, in punto di verosimiglianza dell'ipotesi suicidiaria, attenevano alla dinamica di tale possibilità alternativa, piuttosto che all'ipotesi in sé considerata. In definitiva, è stata impropriamente sminuita la portata di una teoria ricostruttiva alternativa che era, al contrario, fondata su elementi di fatto direttamente emergenti dagli atti, oltre ad essere sorretta da considerazioni conformi all'ordine naturale delle cose e alla razionalità umana. 4.1.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., per inosservanza di norme processuali, con riferimento all'art. 533 cod. proc. pen., stante la mancata valutazione del ragionevole dubbio. L'errore commesso dalla sentenza impugnata è riscontrabile nell'aver svolto un ragionamento "al contrario", che ha preso le mosse dalla distruzione del cadavere ed ha considerato l'omicidio quale antecedente necessario dello stesso. Non è stata considerata la piena plausibilità dell'ipotesi suicidiaria, da parte di una donna depressa e malata, che aveva dovuto da poco affrontare il trauma determinato dal decesso del nipote e che versava, altresì, in gravi difficoltà economiche, avendo anche una procedura di sfratto a carico. 4.2. In relazione al reato sub C), ossia i maltrattamenti nei confronti della madre St.Lo., si articola il terzo motivo del ricorso difensivo, mediante il quale viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., per erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 572 cod. pen., determinata da una impropria valutazione delle testimonianze rese dai familiari, con riferimento al profilo della reciprocità, in combinato disposto con la violazione di cui all'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per manifesta illogicità della motivazione, ancora quanto alla sussistenza della reciprocità, anche in relazione all'elemento soggettivo. Si è compiuta una opera di argomentazione cesellata sulle prove addotte dall'accusa, trascurando o sminuendo le risultanze favorevoli alla difesa. A fronte dell'aggressività manifestata dall'imputata, sono state ignorate le dichiarazioni rese dal teste Se.Ma., genero della St.Lo., nonché da St.Gi., ex marito di quest'ultima, di cui sono state acquisite le sommarie informazioni, stante il decesso verificatosi nel corso delle indagini preliminari. Né si è tenuto adeguatamente conto delle dichiarazioni rese da St.Si. e da Ma.Ma., nuova compagna del padre. In definitiva, i Giudici di merito hanno omesso di considerare il carattere iracondo e provocatorio della St.Lo., nonché la valenza lacerante del clima di esacerbata conflittualità familiare; una adeguata considerazione di tali elementi avrebbe consentito, invece, di ritenere reciproche le prevaricazioni verificatesi fra la figlia e la madre e, quindi, avrebbe fatto comprendere come fosse assente un elemento prevaricatore, ossia genuinamente maltrattante. Il lacerante vissuto emotivo, determinato da tale contesto di accesa e continua tensione, è incompatibile con la sussistenza del dolo richiesto, per l'integrazione del delitto di maltrattamenti. Tale considerazione, del resto, deve essere integrata con gli esiti della perizia psichiatrica, che hanno mostrato l'esistenza di una capacità di intendere e di volere fortemente scemata, in capo all'imputata. 4.3. In relazione al reato sub E), ossia all'omicidio del figlio St.Ad., si articola il quarto motivo di ricorso, mediante il quale viene denunciata violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per mancanza di motivazione in relazione alla ritenuta incompatibilità, fra i risultati autoptici e la "confessione" resa dall'imputata a Ri.Mo., lamentandosi anche il travisamento della prova, in ordine alle risultanze autoptiche. Per ciò che attiene a tale fatto omicidiario, la Corte di assise aveva valorizzato le precedenti ricerche effettuate dall'imputata su internet, nonché la confessione resa a Ri.Mo., gli esiti autoptici e il sentimento di profondo odio, che la St.Gi. covava nei confronti del padre del bambino. La Corte di assise di appello, pur accogliendo le obiezioni formulate dalla difesa in ordine al movente dell'omicidio, ha sostanzialmente omesso ogni ulteriore vaglio critico, inquadrando la condotta nell'ambito dell'infermità di mente e cosi escludendo - in maniera del tutto immotivata - la possibilità della "morte in culla". La suddetta confessione è inconciliabile con gli esiti autoptici, in quanto la dichiarata morte da soffocamento, provocato dalla pressione posta in essere mediante un cuscino, non spiega il riscontrato ingrossamento della milza del piccolo St.Ad.; la morte da soffocamento di un soggetto che - a dire dell'imputata - era ormai sveglio, non è compatibile con l'assenza di segni di asfissia o simil-asfissia (quali, ad esempio, lesioni al cavo orale, fratture al setto nasale, segni di lesione subungueale). La teste Ri.Mo. non è credibile, anche a causa delle gravi incomprensioni verificatesi tra la stessa e l'imputata, la quale si sentiva da lei manipolata, come riportato anche nel diario clinico letto in udienza. Del resto, la possibile verificazione di una "morte cardiaca genetica" non è stata esclusa dal genetista, bensì da questi ritenuta solo "probabilisticamente deficitaria". Parimenti illogici sono gli argomenti spesi per rigettare la tesi della morte cardiaca non genetica, pure prospettata dal consulente della difesa. Sia l'ex compagno della St.Gi., ossia Ok.Ka., sia la madre di quest'ultimo, Re.So., hanno affermato di aver notato nel piccolo St.Ad., l'ultima volta che questi era stato da loro, una sintomatologia pienamente compatibile con la possibilità -non esclusa dal prof. Ve. - di una "morte asfittica accidentale". A ciò si aggiunga che la stessa Corte di assise di appello ha sminuito la valenza del movente, individuato in primo grado, rappresentato dalla presunta gelosia dell'imputata, nei confronti di un padre che mai aveva riconosciuto il bambino e che mai se ne era occupato. 5. La difesa ha presentato memoria difensiva, a mezzo della quale ha contrastato le deduzioni formulate nel ricorso della Procura generale, precisando come - già nel quesito formulato al momento del conferimento della seconda perizia psichiatrica - si fosse demandata al perito una nuova valutazione, circa la capacità di intendere e di volere dell'imputata, in caso di emersione di conclusioni contrastanti con gli esiti dell'originario accertamento. Il secondo perito ha relazionato nel senso di: a) non essere in grado di formulare conclusioni, quanto alla capacità di intendere e di volere in relazione all'omicidio della madre; b) potersi riconoscere il vizio parziale di mente, quanto al reato di vilipendio del cadavere della St.Lo. La Corte di assise di appello, proprio in ragione delle risultanze contrastanti, licenziava una nuova perizia, affidandola al prof. Za., il quale riconosceva la sussistenza di una capacità grandemente scemata, diagnosticando alla prevenuta un disturbo di personalità schizotipico con una disabilità intellettiva lieve, permeante l'intero vissuto dell'imputata. Tale ultima perizia si appalesa diffusa e ben argomentata, tanto che la Procura generale non riesce a formulare critiche intrinsecamente incisive e dirimenti. La Procura, infatti, sostiene che la Corte avrebbe dovuto argomentare più diffusamente, quanto alle ragioni per le quali ha inteso aderire alle conclusioni cui è pervenuto il perito, così discostandosi dalla pronuncia di primo grado. Ma il Giudice di primo grado ha dovuto necessariamente argomentare in modo più diffuso, non avendo aderito in toto ad alcuna delle perizie in quel momento disponibili; la Corte di assise di appello, invece, ha sposato le conclusioni raggiunte dal proprio perito, richiamandone le argomentazioni in maniera maggiormente sintetica. La Procura generale lamenta, inoltre, l'uso che dell'infermità mentale viene effettuato in sentenza, al fine di semplificare eccessivamente la ricostruzione di alcuni fatti e, consequenzialmente, le ragioni per le quali l'imputata avrebbe commesso i delitti a lei contestati. Tale doglianza, di fatto, è sovrapponibile a quanto lamentato con il ricorso presentato dalla difesa. 6. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto di tutti i ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi, che contengono anche censure inammissibili perché aspecifiche, rivalutative e generiche, sono nel complesso da considerare infondati. 2. All'esame delle censure che denunciano la carenza, la illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza, oltre all'incorso travisamento delle risultanze processuali, deve premettersi il richiamo, in via generale, come criterio metodologico, alla condivisa costante giurisprudenza di questa Corte, alla cui stregua l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione deve essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, e di procedere alla "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito (Sez. U., n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 6, n. 29263 del 08/07/2010, dep. 26/07/2010, Capanna, Rv. 248192). Non integrano, infatti, manifesta illogicità della motivazione come vizio denunciabile in questa sede, né la mera prospettazione di una diversa - e, per il ricorrente, più adeguata - valutazione delle risultanze processuali, né la diversa ricostruzione degli atti ritenuta più logica, né la minima incongruenza, né la mancata confutazione di un'argomentazione difensiva. 2.1. L'illogicità della motivazione deve, invece, consistere in carenze logico - giuridiche, risultanti dal testo del provvedimento impugnato e che devono essere evidenti, ossia di spessore tale da essere percepibili ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche laddove non espressamente confutate, appaiano logicamente inconciliabili con la decisione adottata (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003 Petrella, Rv. 226074, e, tra le plurime successive conformi, Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, Merja, Rv. 248698). Nella motivazione della sentenza, infatti, il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame - in maniera dettagliata - tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo, senza lasciare spazio a una valida alternativa (tra le altre, Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 2, n. 33577 del 26/05/2009, Bevilacqua, Rv. 245238; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, Ferdico, Rv. 239789; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 2006, Mirabilia, Rv. 233187). 2.2. Un vizio motivazionale per esser stati trascurati o disattesi elementi di valutazione è, invece, configurabile, anche alla luce della nuova formulazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., che consente un sindacato esteso a quelle forme di patologia del discorso giustificativo riconoscibili solo all'esito di una cognitio facti ex actis, nel contesto della categoria logico-giuridica del travisamento della prova, quando il dato processuale/probatorio trascurato o travisato, oggetto di analitica censura chiaramente argomentata, abbia una essenziale forza dimostrativa, secondo un parametro di rilevanza e di decisività ai fini del decidere, tale da disarticolare effettivamente l'intero ragionamento probatorio e da incidere sulla permanenza della sua "resistenza" logica, rimanendo, in ogni caso, esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si tramuti in una rilettura e reinterpretazione nel merito del risultato probatorio, da contrapporre alla valutazione effettuata dal giudice di merito (tra le altre, Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 1, n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540; Sez. 1, n. 35848 del 19/09/2007, Alessandro, Rv. 237684; Sez. 6, n. 14624 del 20/03/2006, Vecchio, Rv. 233621). Per dimostrare la sussistenza del vizio logico-giuridico di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in particolare, il ricorso non può limitarsi ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente o adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve invece: a) identificare l'atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (tra le altre, Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035; Sez. 2, n. 21524 del 24/04/2008, Armosino, Rv. 240411). 2.3. Il ricorso, in ogni caso, deve contenere, a pena d'inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori (Sez. 6, n. 29623 del 08/07/2010, Cavanna, Rv. 248192), e la condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi non si limitino a invitare ovvero costringere la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso (Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994). 2.4. Si rileva, inoltre, sotto concorrente profilo, che anche il giudice di appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (tra le altre, Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002, dep. 2003, Delvai, Rv. 223061), e che, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, è giudicata ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem rispetto a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (tra le altre, Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 e Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250). 2.5. Tanto premesso - al solo fine di richiamare il perimetro valutativo entro il quale si deve svolgere il giudizio in sede di legittimità - può passarsi all'esame delle specifiche doglianze. 3. Integrando quanto esposto in parte narrativa, può brevemente sottolinearsi come il ricorso del Procuratore generale si imperni sulla tesi della mancata esplicitazione - nella avversata decisione - delle ragioni poste a fondamento della condivisione delle conclusioni raggiunte dal perito nominato in grado di appello, piuttosto che di quelle sussunte negli ulteriori elaborati, parimenti versati nell'incarto processuale. 3.1. Contrariamente all'assunto del ricorrente, la Corte territoriale ha ampiamente e coerentemente chiarito le ragioni del recepimento - a discapito dei difformi approdi pure contenuti in atti - della tesi sussunta nell'elaborato peritale redatto dal prof. Za., il quale ha concluso nel senso della sussistenza di una seminfermità di mente, determinata da una "disabilità intellettiva e disturbo della personalità schizotipico". I Giudici di appello, infatti, hanno puntualmente chiarito che: - il perito ha compiutamente e fattivamente dialogato con le conclusioni raggiunte, in precedenza, dagli altri periti e consulenti intervenuti sulla scena processuale e che si erano ugualmente interessati della condizione mentale della prevenuta; - le valutazioni espresse dal perito sopra nominato rappresentano l'epilogo, nonché la sintesi più soddisfacente, dei dati clinici raccolti e dell'anamnesi effettuata; - sono stati effettuati colloqui con la perizianda e sono stati soppesati gli esiti dei test psicodiagnostici somministrati dall'ausiliario (test ritenuti del tutto adeguati, sia perché consoni alla condizione di forte deficit uditivo nella quale versa l'imputata, sia perché diversi da quelli precedentemente espletati; - la St.Gi. ha rivelato "scarse necessità affettive, con difficoltà a provare e manifestare piacere poiché focalizzata sull'aspetto negativo della vita, confusione, disorganizzazione, frammentazione e bizzarria del pensiero, sentimenti di inadeguatezza e pessimismo, instabilità affettiva ed emotiva, distorsioni cognitive di tipo persecutorio ed autostima negativa"; - è emerso un "mondo psicologico impoverito, disorganizzato o conflittuale, un concetto di sé labile, indefinito, disadattativo, propensione per le emozioni negative e disregolate, scarsa capacità di funzionamento interpersonale e di comportamento sociale adattativo, scarsa considerazione di sé, timore del confronto interpersonale con conseguente predilezione della solitudine ed atteggiamenti difensivi nelle relazione"; - vi è una anamnesi familiare positiva per disturbi psichiatrici; - hanno prodotto effetti laceranti tanto la inabilità uditiva dell'imputata, quanto la condizione di forte stress nella quale ella si è venuta a trovare, dovendo accudire il figlio e trovandosi confinata, a causa delle restrizioni correlate alla pandemia da Covid-19, in casa con la madre, in una situazione di esacerbato conflitto. 3.2. A fronte di tale struttura motivazionale, la doglianza sussunta nel ricorso si limita a denunciare un inesistente difetto di motivazione, facendo leva sul mero richiamo alle non condivise conclusioni di periti e consulenti (esiti completamente dissonanti, rispetto a quelli raggiunti dal perito nominato in secondo grado, cui la Corte di assise di appello ha invece prestato piena adesione). In tal modo, le argomentazioni poste a fondamento della censura in esame disattendono il pacifico orientamento interpretativo fissato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui - in tema di prova - costituisce giudizio di fatto, in quanto tale incensurabile in sede di legittimità, l'opzione operata dal giudice, nell'alveo delle diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile. Ciò a patto che la sentenza avversata dia complessivamente conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni di tale scelta (Sez. 4, n. 45126 del 06/11/2008, Ghisellini, Rv. 241907; Sez. 4, n. 11235 del 05/06/1997, Marinato, Rv. 209675; Sez. 4, n. 7591 del 20/04/1989, Peregotto, Rv. 181382). Compito, questo, di cui il giudice censurato si è fatto carico, dando ampio ragguaglio circa le ragioni della scelta compiuta (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata). Occorre dunque concludere, con riguardo ai profili fin qui esaminati, che il ricorso, muovendosi lungo il crinale dell'analisi critica di singoli e marginali profili della ricostruzione del fatto e mancando di confrontarsi, in maniera effettiva, con le considerazioni svolte nella sentenza impugnata, finisce per connotarsi addirittura in termini di aspecificità. 3.3. Nel ricorso del Procuratore generale, vengono poi enucleate alcune contraddizioni esistenti nella motivazione della sentenza impugnata (a titolo esemplificativo, nel punto in cui si afferma essere la St.Lo. una persona anziana e depressa, per poi descriverla - subito dopo - come "energica e vitale"). Tanto evidenziato, va però anche ribadito che la valutazione delle prove postula, effettivamente, un apprezzamento di ciascuna di esse in funzione del vaglio di pertinenza, rispetto al thema decidendum e in punto di affidabilità, ma ne impone, poi, un esame globale. Ciò affinché la lettura unitaria di tali elementi di valutazione e conoscenza restituisca una visione d'insieme del fatto da provare, connotata da un livello di logicità e coerenza ricostruttiva, rispetto al nucleo essenziale di esso e tale da neutralizzare l'effetto inquinante di eventuali ambiguità e divergenze, vertenti su aspetti marginali della vicenda. Alla stregua di tale pacifico parametro ermeneutico, occorre allora riconoscere che - a fronte di una lettura unitaria e non parcellizzata del materiale probatorio, effettuata nella sentenza impugnata senza evidenti carenze o illogicità motivazionali - il ricorrente, mediante la denuncia del vizio di omessa o di illogica motivazione, tenta di valorizzare ambiguità argomentative di scarsa portata evocativa, oltre che a reiterare - affidandosi, peraltro, a deduzioni spesso esplorative, ovvero a ipotesi alternative di ricostruzione dei fatti o a generiche contestazioni, circa la valenza delle massime di esperienza nella ricostruzione del fatto - le censure già esaustivamente analizzate dalla Corte di appello. 3.4. Un accenno merita l'ulteriore argomentazione spesa dal ricorrente, secondo il quale la sentenza si gioverebbe, impropriamente, di una sorta di petizione di principio, praticamente preferendo trincerarsi dietro l'usbergo della infermità mentale, per poter giungere a spiegare comportamenti che apparirebbero, altrimenti, esageratamente turpi e abnormi e quindi, inspiegabili secondo la logica e il comune sentire. In realtà, non trattasi della lamentata petizione di principio, bensì della adeguata considerazione di un elemento pacificamente acclarato in atti e che, sulla vicenda per la quale si procede, non può non avere esplicato una efficacia pervasiva e dirompente. Il meccanismo interpretativo, posto alla base del ragionamento esplicato dalla Corte di assise di appello, dunque, è nel senso che - in presenza di una condotta che debordi grandemente da ogni schema razionale noto, prefissato ed unanimemente accettato - allorquando si disponga di un affidabile e tranquillizzante accertamento di tipo scientifico, che riveli la sussistenza, nel soggetto attivo del reato, di un importante squilibrio mentale e di una distonia a livello ideativo, tale condizione può essere utilizzata - del tutto legittimamente - per comprendere appunto quanto di (apparentemente) inspiegabile accaduto. Un percorso concettuale che questo Collegio reputa per nulla illogico, oltre che privo del denunciato vizio di contraddittorietà, derivante dalla pretesa inversione dei termini reciproci delle premesse e della tesi. 4. Il primo motivo dell'atto di impugnazione presentato dalla difesa è essenzialmente volto a riproporre la tesi alternativa del suicidio; anche esso è da ritenersi infondato e, anzi, molto prossimo al confine della inammissibilità. La Corte distrettuale - anche mediante il richiamo al contenuto della sentenza di primo grado - ha infatti ripercorso, in modo completo e puntuale, le risultanze processuali ed ha concluso per la infondatezza dell'ipotesi suicidiaria; tale opzione, sostanzialmente, è stata considerata dai Giudici di secondo grado un modo, prescelto dalla prevenuta, per cercare di allontanare da sé le responsabilità. Seguendo il filo dei convincimenti espressi dalla sentenza impugnata, dunque: - il solco visibile sul collo della St.Lo. rappresenta la prova di una impiccagione incompleta, ma non vale - se non all'esito di un percorso induttivo di carattere marcatamente apodittico e tautologico - a escludere l'intervento di un terzo soggetto agente (il che equivale a dire che tale traccia non giova, in maniera dirimente, alla prospettata spiegazione alternativa, volta ad avvalorare la tesi del suicidio); - il fatto che il cadavere della vittima, sebbene orrendamente straziato, conservasse integri proprio alcuni brandelli di cute, appartenenti al collo ed al volto, non è il frutto di una mera casualità, bensì l'epilogo di una callida macchinazione posta in opera dalla St.Gi., la quale ha così inteso seminare tracce idonee - almeno nelle intenzioni - a corroborare la tesi del suicidio e, in tal modo, ad alleggerire sensibilmente la propria posizione; - la pur infelice e depressa St.Lo., sebbene ammalata, sprofondata nella solitudine e viepiù angariata dalla recente perdita del nipotino, non aveva mai manifestato ad alcuno le proprie asserite intenzioni suicide, per cui tale spiegazione assume la precipua veste della pura e semplice asserzione congetturale, della elucubrazione sfornita di elementi atti a sostenerla. In presenza di "doppia conforme" affermazione di responsabilità, è poi necessario confrontarsi anche con le argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado (in particolare, si vedano le pagine 93 e ss. e le pagine 440 e ss.), laddove sono anche ricordati, a ulteriore fondamento della validità della tesi omicidiaria: - il dato oggettivo, rappresentato dalle ricerche effettuate via internet, che corrobora la tesi della primaria volontà della St.Gi. di disfarsi del cadavere della madre (proposito poi non interamente realizzato, a causa sia dell'intasamento degli scarichi dell'appartamento, nei quali ella aveva gettato alcuni organi estratti dal corpo della madre, sia delle restrizioni correlate all'emergenza pandemica, che inibivano in quel tempo la libertà di movimento, rendendo agevolmente visibili e, quindi, controllabili le persone che si trovassero fuori dalle abitazioni, sia, infine, in ragione del cattivo odore insopportabile e ingravescente, che avrebbe potuto - presto o tardi - insospettire i vicini di casa (il fallimento di tale originario tentativo avrebbe determinato l'insorgenza, nell'imputata, del proposito di architettare una tesi alternativa a discarico e, quindi, l'avrebbe portata a virare decisamente verso la tesi incentrata sul suicidio); - l'intercettazione telefonica del 01/06/2020, nel corso della quale la St.Gi. riferisce alla sorella di aver deciso di costituirsi perché "era meglio"; - le valutazioni compiute, sul corpo di St.Lo., ad opera del medico legale, il quale ha relazionato circa la sostenibilità delle dinamiche, tra loro alternative, dell'impiccamento incompleto ad opera di terzi e dello strangolamento non completo, con azione di trascinamento. 4.1. A tale ineccepibile argomentare deve essere saldato l'ulteriore elemento logico, pure speso dalla Corte di assise di appello e che appare dotato da una granitica saldezza evocativa, rappresentato dalla condotta serbata dall'imputata dopo la morte della St.Lo. Sottolineano i Giudici di appello, sul punto specifico, come la St.Gi., se non avesse ella stessa ucciso la madre, non avrebbe avuto davvero alcuna ragione per depezzarne il cadavere in modo tanto efferato e certosino e quindi di disperderlo, di farne cioè scempio in modo così tremendo. Anzi. La morte della St.Lo. avrebbe dovuto addirittura sortire - per l'imputata - un effetto liberatorio, che avrebbe dovuto affrancarla dalle pretese angherie perpetrate, in suo danno, dalla anziana donna. Ma a questo argomento - che mostra una ferrea adesione ai canoni della logica, oltre che della umana esperienza e la cui inconfutabile potenza significativa permea l'intera trama del processo - la difesa non ha potuto opporre alcuna valida argomentazione, pur minimamente in grado di disarticolarne o scalfirne la forza ricostruttiva. 4.2. Resta estraneo al giudizio di legittimità, in definitiva, ogni discorso confutativo, vertente sul significato della prova, ovvero attinente alla mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento probatorio, per quanto rilevante, può essere interpretato in modo frammentario e fuori dal contesto in cui è inserito. Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti, all'interno del giudizio di legittimità, se non allorquando risulti viziato il discorso giustificativo in ordine alla loro capacità dimostrativa; in tale ottica, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (fra tante, si veda Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva Welton, Rv. 283370-01, a mente della quale: "In tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova". 5. Con il secondo motivo, la difesa si duole dell'asserito mancato rispetto del canone del ragionevole dubbio. Ma la pretesa elusione di tale criterio interpretativo non può essere indicato quale motivo di vizio della sentenza. La regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio", infatti, rileva in sede di legittimità esclusivamente allorquando la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza; tale regola ermeneutica rappresenta la diretta derivazione della mancanza, in capo alla Corte di cassazione, di un potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (si veda Sez. 1, n. 5517 del 30/11/2023, dep. 2024, Lombardi, Rv. 285801-01, a mente della quale: "In tema di giudizio di legittimità, l'introduzione nel disposo dell'art. 533 cod. proc. pen. del principio dell' "oltre ogni ragionevole dubbio" ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza, sicché la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, segnalata dalla difesa, non integra un vizio di motivazione se sia stata oggetto di disamina da parte del giudice di merito"; così anche Sez. 1, n. 34032 del 01/07/2022, Scapin, Rv. 283987-01, la quale ha chiarito che: "II canone dell' '"oltre ogni ragionevole dubbio", quale regola di giudizio che conforma la valutazione degli indizi e il metodo di accertamento del fatto, è da ritenersi rispettato anche nel caso in cui i comportamenti umani e le conseguenze da essi derivanti sono giudicati sulla base di regole di esperienza, quando non sono espressivi di una relazione di mera verosimiglianza e plausibilità, ma hanno una base razionale, seppur presuntiva"; sulla medesima direttrice interpretativa si sono posizionate Sez. 5, n. 25272 del 19/04/2021, Maurici, Rv. 281468-01; Sez. 4, n. 2132 del 12/01/2021, Maggio, Rv. 280245-01; Sez. 6, n. 10423 del 19/02/2020, Oneata, Rv. 278751-01; Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237-01 e Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018, dep. 2019, Esposito Rv. 275290-01; Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'Urso, Rv. 270108-01; si veda, infine, Sez. 4, n. 2132 del 12/01/2021, Maggio, Rv. 280245-01, a mente della quale: "La regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.; ne consegue che è inammissibile la relativa censura avverso le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace per le quali il ricorso può essere proposto, ai sensi dell'art. 606, comma 2-bis, cod. proc. pen., solo per i motivi di cui all'art. 606, comma 1, lettere a), b) e c) cod. proc. pen.". 5.1. La versione alternativa propugnata dall'imputata e i dubbi difensivi espressi in sede di gravame, del resto, sono stati tutti esaminati e adeguatamente valutati, dalla Corte territoriale, come sopra già chiarito. 5.2. Anche l'argomento di tenore metodologico speso dalla difesa, per contrastare la ritenuta responsabilità della St.Gi. con riferimento all'omicidio della madre, si dipana pur sempre in maniera esclusivamente assertiva e oppositiva. Sostiene la difesa esser stato adottato, dai Giudici di merito, un improvvido procedimento deduttivo al contrario, che - muovendo dal dato incontestato dell'avvenuta distruzione e depezzamento del cadavere, confessato dall'imputata - avrebbe condotto alla conclusione della responsabilità di quest'ultima anche per il delitto di omicidio della madre. 5.2.1. Ebbene, il metodo deduttivo è il procedimento di tipo razionale, a mezzo del quale è possibile giungere a un determinato approdo, muovendo da premesse di carattere più ampio, ma di valenza generica. Si tratta di un criterio logico che esige l'esistenza di un postulato e che, dipanandosi attraverso rigide concatenazioni di tipo inferenziale, consente di addivenire a determinazioni specifiche, concernenti la realtà fenomenica. Secondo le regole del sillogismo di derivazione aristotelica, dunque, il percorso deduttivo origina da una legge universale e perviene, appunto mediante successive connessioni teoriche, a conclusioni particolari, in ciò differenziandosi dall'opposto procedimento induttivo, che invece si dirige dal "particolare" verso la legge universale. 5.2.2. Queste essendo le coordinate speculative secondo le quali approcciarsi al tema, si staglia palese la inconsistenza della critica difensiva, che si snoda interamente sul versante della proposizione di una ipotesi ricostruttiva alternativa, senza affrontare direttamente la struttura stessa della avversata decisione. Richiamato, infatti, il percorso concettuale che ha condotto la Corte territoriale a escludere l'ipotesi suicidiaria (sillogismo già ampiamente sviscerato, nell'analisi del primo motivo) la censura difensiva lascia inevitabilmente intonso il segmento di deduzione che rappresenta l'architrave dell'impostazione concettuale seguita dai Giudici di merito. Tale ancoraggio sicuro, dunque, è rappresentato dal fatto che la tesi alternativa propugnata dalla difesa - come detto, quella del suicidio della St.Lo., che si sarebbe impiccata alla porta e che sarebbe stata trovata già cadavere dalla St.Gi. - non può in alcun modo chiarire la ragione per la quale quest'ultima dovesse, a quel punto, risolversi a fare scempio del corpo della madre. La difesa tenta di depotenziare tale caposaldo del costrutto accusatorio, ma non riesce a oltrepassare la soglia della mera critica assertiva e oppositiva, finendo per non incidere minimamente sulla saldezza della ricostruzione operata mediante le due conformi sentenze di merito. 6. Con il terzo motivo, la difesa contesta la sussistenza del delitto di maltrattamenti, sostenendo essersi instaurato - tra la St.Gi. e la St.Lo. - un rapporto di esacerbata e intollerabile conflittualità reciproca, nel quale non si sarebbe però mai stagliata una figura genuinamente predominante sull'altra; da ciò, dovrebbe derivare la pretesa non conformità delle condotte ascritte al modello legale di cui all'art. 572 cod. pen. 6.1. La doglianza, solo apparentemente specifica, è in realtà fondata -ancora una volta - su una difforme lettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione; ma tale valutazione è compito esclusivo del giudice di merito, risultando invece inammissibile in questa sede. L'obbligo di motivazione è stato adeguatamente soddisfatto, infatti, nella sentenza impugnata; questa ha esibito una valutazione critica, dettagliata e coerente di tutti gli elementi offerti dall'istruttoria dibattimentale, indicando - in maniera pienamente coerente, sotto il profilo logico-giuridico - gli argomenti posti a sostegno dell'affermazione di responsabilità. 6.2. A tutto voler concedere, la Corte territoriale chiarisce da quali dati processuali abbia tratto il convincimento che fosse proprio l'imputata - pur all'interno di una relazione ormai incancrenita - la figura vessatrice. La sentenza impugnata ricorda, infatti, come tale assunto possa trarsi dalle parole dell'altra figlia della St.Lo. oltre che da quanto affermato dai vicini di casa. Ricorda la Corte distrettuale, sul punto, la telefonata effettuata dalla St.Lo. al 112, nella quale quest'ultima invocava disperatamente aiuto, temendo di poter essere strangolata dalla figlia; e nell'occasione, all'arrivo dei poliziotti presso l'appartamento, fu l'imputata che nuovamente si avventò al collo della madre. 6.3. Ma la fragilità dell'argomento difensivo si situa comunque a monte, rispetto al tema dell'esistenza o meno di una figura preponderante e prevaricatrice, all'interno della tipologia di relazione venutasi a creare, fra l'imputata e la madre. Questo Collegio, infatti, pur conscio dell'esistenza di un contrario orientamento, all'interno della giurisprudenza di legittimità (posizione espressa da Sez. 6, n. 4935 del 23/01/2019, M., Rv. 274617-01), intende dare continuità a condivisibile principio di diritto enunciato da Sez. 3, n. 12026 del 24/01/2020, M., Rv. 278968-01, che ha statuito nei seguenti termini: "II reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri". Tale regola ermeneutica si fonda, essenzialmente, sul fatto che la figura tipica ex art. 572 cod. pen. non autorizza in alcun modo il ricorso a improprie forme di autotutela, attraverso la predisposizione di un incongruo regime di "compensazione", fra condotte penalmente rilevanti e realizzate in danno reciproco (nella parte motiva della succitata pronuncia, la Corte ha precisato quanto segue: " ... sia ragioni sistematiche che ragioni interpretative inducono a ritenere, senza pertanto dover qui esaminare il tema della intensità e gravità dei rispettivi comportamenti, che la condotta di chi sistematicamente infligga, con atteggiamenti violenti ed umilianti, vessazioni in danno di altro individuo componente della famiglia del soggetto agente, ovvero nei confronti di persona con lui convivente o comunque sottoposta alla di lui autorità o affidata alla sua cura, così da rendergli mortificante ed in generale insostenibile il regime di vita, sia tale da costituire reato anche nel caso in cui le condotte poste in essere non siano unilaterali ma siano reciproche"). Espellere dall'area previsionale del modello legale ex art. 572 cod. pen. determinate condotte oppressive e vessatorie, pur astrattamente conformi al paradigma normativo, sol perché in qualche modo "bilanciate" da comportamenti di analogo tenore, questa volta serbati dalla vittima delle precedenti angherie, si tradurrebbe sostanzialmente nel consentire un improvvido spazio di impunità, nonché nel legittimare modalità di affermazione autonoma delle proprie ragioni, all'interno di un universo relazionale che, al contrario, deve essere sempre rigorosamente instradato sui binari della correttezza e del rispetto. 7. Il quarto motivo aggredisce il profilo della ritenuta colpevolezza dell'imputata, con riferimento alla morte del piccolo St.Ad. 7.1. La difesa afferma, in primo luogo, esservi contrasto fra le conclusioni raggiunte in sentenza e l'esito dell'autopsia (le condizioni della milza ingrossata del bimbo sarebbero - in ipotesi difensiva - incompatibile, sotto il profilo medico, con la ritenuta modalità omicidiaria del soffocamento con utilizzo di un cuscino). In secondo luogo, sostiene la difesa la inattendibilità della compagna di cella Rijili, la quale non sarebbe credibile, per essere ella portatrice di motivi di astio verso l'imputata. 7.2. Con tale incedere argomentativo, però, il ricorso oltrepassa nuovamente i confini del giudizio di legittimità, spingendosi nuovamente a invocare direttamente una rivisitazione degli elementi probatori emersi, oltre che propugnando esplicitamente una ricostruzione alternativa, sul versante storico e oggettivo. Le differenti ipotesi sostenute, circa l'eziologia della morte del bambino, infatti, si collocano in stridente contrasto con la tesi riportata in sentenza, che è stata sposata da entrambe le Corti di merito e che è emersa da un accertamento medico. La ricostruzione difensiva, inoltre, non fornisce una valida spiegazione logica, in ordine alla genesi, alla natura e al contenuto dei suddetti presunti motivi di risentimento, né chiarisce da quali elementi possa trarsi la conclusione che tale astio avesse una tale incrollabile e pervicace intensità, da determinare la Ri.Mo. a rivolgere alla prevenuta una accusa tanto infamante e grave. Un ulteriore vulnus, di carattere logico, riscontrabile nell'ipotesi alternativa difensiva richiamata in parte narrativa, risiede poi nel sostenere che la Ri.Mo. manipolasse e prevaricasse la St.Gi., arrecandole non meglio chiarite vessazioni; ciò non spiega, allora, per quale motivo la prima dovesse mai calunniare la seconda: il filo logico delle argomentazioni difensive, infatti, avrebbe dovuto portare, al limite, a ipotizzare che l'imputata potesse nutrire ragioni di odio verso l'altra, essendone ella vittima, rimanendo invece radicalmente incomprensibile il percorso inverso. 7.3. Quanto all'ampiezza del perimetro valutativo demandato alla Corte di cassazione, si suole affermare che il giudizio di legittimità non si costruisce sull'esame delle possibilità rappresentative - anche plausibili - del fatto, bensì tenendo presente la opzione circa il fatto, così come recepita dal giudice di merito; ciò nel senso che il controllo, in punto di corretta applicazione dei canoni logici e normativi, nonché di ossequio alle regole nomofilattiche elaborate in sede giurisprudenziale, che presidiano l'attribuzione del fatto all'imputato, passa necessariamente attraverso l'analisi dello sviluppo motivazionale della decisione impugnata, muovendosi sul solco della valutazione in ordine alla sua intima coerenza logico-giuridica. Si può solo ribadire, allora, come non sia possibile compiere - in sede di legittimità - "nuove" attribuzioni di significato, o anche realizzare una differente lettura dei medesimi dati dimostrativi, a patto che non sia rilevabile un vizio di tale entità, da comportare l'annullamento della avversata decisione (si veda, ex plurimis, Sez. 6, n. 11194 del 8.3.2012, Lupo, Rv. 252178). 7.4. Non vi è chi non rilevi, peraltro, come il dubbio (nel caso di specie, l'alternativa prospettata dalla difesa, quale causale alternativa del decesso del bambino), perché possa essere in grado di determinare l'ingresso di difformi lumi, in punto di ricostruzione fenomenica, tale da comportare una valutazione di inconsistenza dimostrativa della decisione, è solo quello "ragionevole", ossia quello che trova conforto e suffragio dalle regole della buona logica, non certo quello che la logica stessa consente di escludere o di superare (in tal senso Sez. 1 n. 3282 del 17/11/2011, Calò, n.m., nonché, in termini generali, Sez. 1 n. 31546 del 21/05/2008, Franzoni, Rv. 240763, secondo la quale: "II giudice deve ritenere intervenuto l'accertamento di responsabilità dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio", che ne legittima ai sensi dell'art. 533, comma primo, cod. proc. pen. la condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura", ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana"). 7.5. Tanto chiarito in chiave metodologica, si rileva come la Corte distrettuale abbia adottato - anche in merito al tema della morte del piccolo St.Ad. - una struttura motivazionale solida, priva di spunti di contraddittorietà e di fratture logiche, nonché adeguatamente parametrata alle critiche difensive e, pertanto, meritevole di rimanere immune da riforme in sede di legittimità. 7.6. I Giudici di secondo grado, infatti, hanno anzitutto affermato che l'imputata "Non era una madre modello, ma nemmeno un genitore maltrattante"; che era una donna che accudiva il figlio in maniera non consona all'età dello stesso, ma che era da questi, comunque, amata. La sentenza ricorda poi come il corpicino del piccolo St.Ad. non presentasse - all'esame esterno - segni di violenza; lo stesso approfondimento medico ha escluso, del resto, la pur propugnata ipotesi della sussistenza di patologie a livello cardiaco. L'unica ipotesi fondata, compatibile con i canoni della logica, con le regole ricavabili dall'esperienza umana e razionale, oltre che basata su elementi di derivazione scientifica di univoca significazione, è allora proprio quella coincidente con la confessione extragiudiziale fatta dalla St.Gi. alla compagna di cella. 7.6.1. E in quest'ambito, del tutto corretto è l'ulteriore segmento del percorso inferenziale compiuto dalla Corte, nello sforzo di far derivare la veridicità della proposizione finale, in punto di sussistenza della penale responsabilità della prevenuta, dalla saldezza logica delle relative premesse, mediante la decrittazione di condotte apparentemente ambigue o incomprensibili. In questo senso, dato che l'uccisione del bambino non è spiegabile in termini di accettabile razionalità, è del tutto legittimo il ricorso alla preponderante valenza della malattia mentale, che funge da sfondo e da antecedente all'intera vicenda e la cui indubbia influenza percorre - quasi fosse una corrente invisibile - tutta la trama della drammatica vicenda. 7.6.2. Priva delle denunciate incongruenze, pertanto, è la conclusione raggiunta dalla Corte territoriale, laddove questa ha spiegato l'omicidio come "il gesto impulsivo di una madre impreparata ad affrontare il complesso accudimento di un bambino, nella solitudine da lei stessa creata per incapacità di rapportarsi con gli altri che respingeva e priva di sufficienti ed autonomi mezzi". Da questo punto, di vista, infine, non vi sono contraddizioni rispetto alla sentenza di primo grado, la quale non aveva potuto escludere che la morte del piccolo St.Ad. costituisse una (patologica) forma di ritorsione o vendetta della donna, nei confronti del padre del bimbo stesso. È sufficiente, sul punto specifico, ricordare i principi che presiedono alla formazione della ed. doppia conforme affermazione di responsabilità, che postulano soltanto che la sentenza di appello - nella sua complessiva struttura argomentativa e nella generale trama ricostruttiva - si vada a saldare con la decisione di primo grado, non solo mediante i riferimenti testuali a quest'ultima, ma anche grazie all'adozione dei medesimi criteri valutativi adoperati in sede di vaglio delle prove, cosicché le due sentenze si prestino a una lettura congiunta, andando a formare un corpo decisionale di tenore unitario (fra tante, si veda il dictum di Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01). 8. Alla luce delle considerazioni che precedono, si impone il rigetto di entrambi i ricorsi; segue ex lege la condanna dell'imputata al pagamento delle spese processuali. Ricorrendone le condizioni, infine, deve essere disposta l'annotazione di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 20 giugno 2003, n. 196, recante il "codice in materia di protezione dei dati personali". P.Q.M. Rigetta il ricorso del P.M. Rigetta il ricorso di St.Gi. che condanna al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, 10 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2024.
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