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Omessa dichiarazione: per il dolo specifico serve più della consapevolezza dell'imposta evasa

Omessa dichiarazione

Cassazione penale sez. III, 04/07/2023, n.44170

In tema di omessa dichiarazione, la mera consapevolezza dell'entità dell'imposta evasa non è sufficiente a provare la sussistenza del dolo specifico, richiesto per la configurabilità del reato, essendo necessario, a tal fine, che ricorrano elementi ulteriori, quali il mancato pagamento postumo di tale imposta in tempi ragionevoli o la reiterazione dell'omissione per più anni, dai quali possa essere tratta la convinzione che l'omissione sia finalizzata all'evasione.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il sig. M.G. ricorre per l'annullamento della sentenza del 15 settembre 2022 della Corte di appello di Bologna che, pronunciando sulla sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena di un anno di reclusione irrogata con sentenza del 27/11/2020 del Tribunale di Bologna per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, a lui ascritto perché, quale legale rappresentante della società "MA.GI. S.r.l.", al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, non aveva presentato la dichiarazione annuale relativa a detta imposta quantificata, per l'anno 2013, nella misura di Euro 58.640,00. 1.1. Con il primo motivo deduce la violazione e/o l'erronea applicazione degli artt. 27,111 Cost., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5,artt. 192,530,533,546 c.p.p., il travisamento della prova, l'omessa, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per aver ravvisato nella fattispecie i presupposti oggettivi del reato a lui attribuito. Osserva al riguardo: - il PVC del 3 dicembre 2014, redatto dalla Guardia di Finanza all'esito della verifica fiscale, non gli è mai stato consegnato (benché la sentenza sostenga il contrario) e non è mai stato nemmeno acquisito al processo; - manca qualsiasi spiegazione (e autonoma valutazione) degli elementi di fatto in base ai quali è stato ricostruito il volume di affari e, di conseguenza, l'imposta evasa, non accertabile, in sede penale, mediante il ricorso a presunzioni semplici e il relativo ribaltamento dell'onere della prova, onere che grava, in sede penale, esclusivamente sul pubblico ministero. Lamenta, pertanto, l'omessa motivazione sulle questioni dedotte in appello (trascritte nel ricorso) relative: - alla arbitraria determinazione del volume di affari, ricostruito partendo dalle rimanenze iniziali dell'esercizio 2013 (Euro 286.823,00) corrispondenti a quelle finali del 2012 a loro volta ricostruite in base ad un avviso di accertamento mai prodotto in giudizio e per effetto del quale, tra l'altro, si è ritenuto contraddittoriamente non superata la soglia di punibilità per quello stesso anno benché secondo l'Agenzia delle Entrate tale valore fosse presente già nelle dichiarazioni fiscali relative all'anno di imposta 2011; - all'erroneo calcolo dell'IVA che si assume evasa, frutto non solo di operazioni induttive e ricostruzioni ipotetiche del reddito di impresa ma basato anche su documenti (l'avviso di accertamento relativo all'anno 2012) non entrati nel fascicolo; è stata inoltre applicata l'IVA nella sua percentuale massima (22%) benché la società vendesse anche prime case con applicazione dell'IVA agevolata del 4%; non si conoscono i valori dei beni compravenduti, il prezzo della vendita, se gli acquirenti fossero soggetti a IVA o a imposta di registro. 1.2. Con il secondo motivo deduce la violazione e/o l'erronea applicazione degli artt. 27,111 Cost., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5,artt. 192,530,533,546 c.p.p., il travisamento della prova, l'omessa, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per aver riconosciuto la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. La Corte di appello, lamenta, ha desunto il dolo specifico dal fatto che l'imputato non aveva presentato per anni la dichiarazione fiscale e aveva mostrato disinteresse rispetto alle richieste e verifiche, tenuto altresì conto del volume di affari certamente non irrisorio della società. Richiamati gli argomenti a sostegno del primo motivo, osserva che la mancata presentazione della dichiarazione fiscale non può assurgere, di per sé, a prova della finalità di evasione, né ha rilevanza il fatto che il ricorrente fosse sottoposto a verifiche fiscali o fosse genericamente consapevole del valore non esiguo del volume d'affari, peraltro ricostruito nei termini indicati nel primo motivo. 1.3.Con il terzo motivo deduce la violazione e/o l'erronea applicazione degli artt. 27,111 Cost., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, art. 131-bis c.p., artt. 192,530,546 c.p.p., il travisamento della prova, l'omessa, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. giustificata con precedenti per evasione fiscale che non emergono dal certificato penale. 2.Con memoria trasmessa per via telematica, il difensore del ricorrente, Avv. Bevilacqua Benedetto, ha replicato alla richiesta del PG di declaratoria di inammissibilità del ricorso e ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Incontestata l'omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa all'imposta sul valore aggiunto dovuta per l'anno 2013, il Tribunale aveva ritenuto il superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, acriticamente recependo (senza dare, cioè, conto dei criteri di valutazione del dato probatorio) il ragionamento dell'Ente impositore, compendiato nell'avviso di accertamento richiamato dalla sentenza, che aveva calcolato il volume di affari in considerazione delle esistenze iniziali. 2.1. In sede di appello l'imputato aveva contestato l'acritico recepimento, in sede penale, del ragionamento induttivo effettuato in sede di accertamento fiscale. Aveva lamentato, inoltre, la mancanza, nel fascicolo del dibattimento, del PVC della GdF del 03/12/2014 e dell'avviso di accertamento, richiamati dall'informativa di reato ma ad essa mai allegati, nei quali si faceva riferimento alle rimanenze finali dell'anno 2012 (rimanenze iniziali del 2013). Orbene, si domandava l'appellante, non si comprende perché, a fronte del medesimo dato contabile (rimanenze finali 2012 = giacenze iniziali 2013), per l'anno di imposta 2012 non sia stata contraddittoriamente ritenuta superata la soglia di punibilità tanto più che, sempre secondo l'Ente impositore, l'importo di tali rimanenze era stato calcolato in base ai dati contenuti nella dichiarazione relativa all'anno 2011. Dunque, il ragionamento induttivo si basava su dati contenuti in atti mai prodotti ed era connotato da profili di contraddittorietà. 2.2. Nel disattendere i rilievi difensivi, la Corte di appello si è limitata a dare atto della "documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento (in particolare il rapporto dell'Agenzia delle Entrate e relativi allegati)" che, secondo i Giudici distrettuali, ha consentito di accertare per l'anno di imposta 2013 un volume di affari pari ad Euro 286.823,00 ed un'imposta evasa pari ad Euro 58.640,00. 3. Tanto premesso, il primo motivo è fondato. - 3.1. Prima ancora di stabilire se le presunzioni tributarie (semplici o gravi che siano) possano trovare ingresso nel processo penale e fondare una sentenza di condanna, è necessario che comunque il giudice dia conto dell'esistenza del fatto indiziante, in mancanza del quale è impossibile - già sul piano logico - sostenere l'esistenza dell'indizio stesso. 3.2. Nel caso di specie l'imputato si era giustamente doluto in appello della mancanza (fisica) degli atti posti a base del ragionamento induttivo (divenuto accusatorio in sede penale), ma i Giudici distrettuali hanno totalmente negletto tale censura, limitandosi a ribadire la correttezza dei risultati conseguiti dalla Guardia di Finanza in sede di accertamento fiscale. 3.3. Quanto alla possibilità di utilizzare le "presunzioni tributarie" nel processo penale, il Collegio osserva quanto segue. 3.4. Il diritto penale tributario si caratterizza per la sua specialità che gli deriva dalla particolare materia che ne costituisce l'oggetto, ma resta pur sempre diritto penale, diritto cioè dei comportamenti ritenuti lesivi di beni giuridici o di valori ad essi preesistenti, non diritto degli atti o degli interessi regolati dalle norme tributarie e certamente non dell'obbligazione tributaria. 3.5. In quanto "diritto penale", esso si caratterizza per la sua natura autonoma e costitutiva rispetto alle altre branche del diritto, essendo stata da tempo ripudiata, per l'incandescenza del suo oggetto (la libertà personale), la teoria della funzione meramente sanzionatoria di istituti di altri rami del diritto. 3.6. Il diritto penale tributario non fornisce l'armamentario necessario a reprimere la violazione degli obblighi tributari altrove disciplinati. Non v'e' dubbio che il comune oggetto di tutela sia il dovere di concorrere alle spese pubbliche, previsto dall'art. 53 Cost. quale specifica articolazione del più generale dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., ma tale tutela non viene penalmente perseguita in modo indiretto, sanzionando puramente e semplicemente gli obblighi tributari altrove disciplinati nell'an, nel quomodo e nel quando. Al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero in sé del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria, ma esclusivamente la decisione circa la natura illecita delle condotte e l'irrogazione delle relative sanzioni nel contesto dei principi fissati dall'art. 27 Cost.. 3.7. La funzione della pena, l'inviolabilità della libertà personale che viene in gioco, la ineliminabile valorizzazione degli elementi soggettivi della condotta che innervano e danno sostanza alla natura esclusivamente personale della responsabilità penale e alla funzione rieducativa della pena, impongono una lettura "autonoma" delle norme penali tributarie, secondo i canoni interpretativi che l'inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono (i soli "casi e modi previsti dalla legge" - scilicet penale - entrata in vigore prima del fatto commesso). 3.8. Il disvalore espresso dalla condotta penalmente sanzionata, dunque, deve essere individuato esclusivamente all'interno della norma che la descrive che deve essere a sua volta applicata in conformità ai principi di stretta legalità, tassatività e determinatezza che governano l'interpretazione della legge penale, rifuggendo pertanto dalle sempre possibili suggestioni che il comune oggetto della materia trattata può comportare e che possono determinare il rischio sia di non ammesse interpretazioni analogiche che di scorciatoie probatorie volte ad attrarre nella fattispecie penale la pura e semplice constatazione dell'inadempimento dell'obbligo tributario che la norma stessa non ritiene sufficiente ai fini della punibilità dell'autore. 3.9. La presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale. Gli elementi normativi della fattispecie sono parte integrante di una norma che ha ad oggetto, come detto, i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza. 3.10. La violazione dell'obbligo di presentare una delle dichiarazioni annuali non esaurisce l'indagine penale perché è necessario accertare anche che ne sia derivata un'evasione effettiva di imposta superiore alla soglia indicata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5. 3.11. Ai fini del D.Lgs. n. 74 del 2000 per "imposta evasa" si intende "la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l'intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine" (art. 1, lett. f). Per l'accertamento dell'an e del quantum dell'imposta "dovuta" è giocoforza necessario far riferimento alla legislazione fiscale che si avvale però, in buona misura, anche di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In questa delicata operazione ricostruttiva, di natura squisitamente fattuale, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, soprattutto, adottare il criterio di giudizio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall'art. 27 Cost., comma 2. Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l'inversione dell'onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell'imputato, nemmeno quando ricorrono i casi previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, (così come non può direttamente stabilire l'imposta effettivamente dovuta in base agli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-bis, convertito con modificazioni dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427 e successive modificazioni e integrazioni, o alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4, e segg.). Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell'ambito delle attività di cui al D.P.R. n. 600 del 1970, artt. 31-bis, 32 e 33, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l'accertamento presuntivo dell'imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest'ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 3 e 4). In conformità a quanto prevede l'art. 220 disp. att. c.p.p., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti) e le giustificazioni e i chiarimenti sollecitati in sede pre-contenziosa al contribuente ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 4, purché tali atti siano stati redatti e assunti prima che emergano anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Rv. 220291; cfr. altresì Sez. 3, n. 1969 del 21/01/1997, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Rv. 242523; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599, che hanno ribadito il principio secondo il quale è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice di procedura penale la cui osservanza, nell'ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato). 3.12. In conclusione, l'indagine che il giudice penale deve compiere deve essere volta all'accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale. 3.13. Del resto, trattandosi di reati e, dunque, dell'esercizio della giurisdizione penale, la sussistenza del "reato tributario", sotto ogni suo aspetto (oggettivo e soggettivo), deve essere autonomamente accertata dal giudice penale secondo le norme del codice di procedura penale (artt. 1 e 2 c.p.p.), imponendosi il rispetto di tali norme anche in sede ispettiva, quando - come detto - emergano fatti apprezzabili come reato (supra, p. 3.11). 3.14. Ne consegue che non v'e' spazio nel processo penale di cognizione per l'ingresso di presunzioni (tantomeno legali) ma solo di indizi, valorizzabili a fini di prova nei limiti e modi indicati dall'art. 192 c.p.p., comma 2, valendo, per il processo penale, uno statuto probatorio suo proprio necessariamente strumentale al tendenziale accertamento della verità (i.e., della corrispondenza al vero) del fatto contestato nell'editto accusatorio. 3.15. I rilievi difensivi sono dunque corretti e assorbenti ogni altra questione posta con gli altri motivi, venendo in gioco la verifica della sussistenza del reato sotto il profilo del superamento (e del calcolo) della soglia di punibilità. 4. Ciò nondimeno si rendono necessarie alcune precisazioni relative agli argomenti dedotti con il secondo motivo. 4.1. Il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, si consuma nel momento in cui scade il termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione, momento nel quale deve sussistere il dolo specifico di evasione il quale, a sua volta, presuppone la consapevolezza dell'ammontare delle imposte evase e non dichiarate, non richiedendo affatto la norma anche la coincidenza tra il soggetto gravato dell'obbligo dichiarativo e quello che ha posto in essere le operazioni imponibili. 4.2. Non v'e' dubbio che il fine di evasione qualifica la condotta sul piano penale; ove venga accertata un'imposta effettivamente dovuta superiore a quella dichiarata (o non dichiarata affatto) e/o componenti positive di reddito inferiori a quelle effettive o elementi passivi fittizi, l'indagine non avrebbe verificato altro che alcuni degli elementi costitutivi del reato, quelli che qualificano, sul piano oggettivo, l'offesa degli interessi erariali e giustificano (ma non esauriscono) la rilevanza penale della condotta. Ma tale indagine non assorbe quella relativa all'accertamento del dolo specifico di evasione che nei reati dichiarativi concorre a tipizzare la condotta. Altrimenti si corre il rischio di identificare il dolo specifico di evasione con la pura e semplice consapevolezza dell'obbligo dichiarativo violato e dell'entità dell'imposta non dichiarata. Un'operazione dogmaticamente errata che trasformerebbe il dolo specifico di evasione nella generica volontà di non dichiarare al Fisco l'imposta dovuta, con l'ulteriore inaccettabile conseguenza di assorbire tutti i reati in materia dichiarativa negli indistinti illeciti amministrativi di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 441, art. 1, comma 2, e art. 5, comma 4, e di far sostanzialmente resuscitare la contravvenzione di omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, già prevista dal D.L. 10 luglio 1982, n. 429, abrogato art. 1, comma 1, convertito con L. 7 agosto 1982, n. 516, che questa Corte ha già affermato non essere in continuità normativa con il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, anche e proprio per la necessità del dolo specifico di evasione, in precedenza non richiesto (Sez. U, n. 35 del 13/12/2000, Sagone, Rv. 217374). 4.3. Il reato è illecito di modo; il dolo di evasione è volontà di evasione dell'imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale-tributario. Se per il legislatore penale tributario nemmeno l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, o le false rappresentazioni contabili e i mezzi fraudolenti per impedire l'accertamento delle imposte, sono sufficienti ad attribuire penale rilevanza alle condotte di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3, essendo necessario il fine di evasione, a maggior ragione il "dolo di omissione" non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione. La volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell'obbligazione tributaria e del suo oggetto, e dunque di uno o alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, non prova il fine ulteriore della condotta. 4.4. Il dolo di evasione esprime l'autentico disvalore penale della condotta e restituisce alla fattispecie la sua funzione selettiva di condotte offensive ad un grado non ulteriormente tollerabile del medesimo bene tutelato anche a livello amministrativo. L'inviolabilità della libertà personale costituisce il metro di misura della rilevanza penale di condotte che potrebbero essere sanzionate in altro modo. Al legislatore penale non interessa il recupero del gettito fiscale ma della persona. Il dolo specifico di evasione, per la sua forte carica intenzionale, segna il punto di frattura più grave tra l'atteggiamento antidoveroso dell'autore del fatto illecito, l'ordinamento giudico ed il bene protetto, un punto di non ritorno che giustifica il sacrificio della inviolabilità della libertà personale in considerazione del livello di aggressione al bene e della funzione rieducativa della pena. E' proprio questo scopo che nei reati in materia di dichiarazioni fiscali giustifica, rispetto agli omologhi illeciti amministrativi, la reazione punitiva dello Stato e ne spiega la rilevanza penale che si giustifica solo in costanza di condotte poste in essere nella deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo. 4.5. Non si può di conseguenza ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell'entità dell'imposta evasa; l'entità dell'imposta evasa costituisce solo uno degli elementi del Fatto tipico, la cui consapevolezza potrebbe, al più, giustificare un addebito a titolo di dolo generico, non di certo di dolo specifico che richiede un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza dell'oggetto dell'omissione. Tale dato può essere certamente valorizzato insieme con altri dai quali possa essere tratta la convinzione che l'omissione era finalizzata all'evasione dell'Imposta: il mancato pagamento postumo dell'imposta evasa, in tempi naturalmente ragionevoli e non, per esempio, a distanza di anni, può certamente essere preso in considerazione; così come può essere utilmente valutata la reiterazione dell'omissione per più anni di imposta o, come nel caso di specie, il disinteresse rispetto alle richieste e verifiche tributarie. 4.6. In ultima analisi deve essere ripudiato un metodo di accertamento del dolo che si risolve nella (indiretta) affermazione del dolus in re ipsa. 5. Deve essere altresì precisato che nella operazione ricostruttiva dell'imposta evasa, il giudice penale non può dare per scontati fatti che non sono dimostrati. Oggetto di prova (art. 187 c.p.p.) non sono solo i fatti dedotti dal pubblico ministero ma anche quelli dedotti o allegati dalle altre parti e di cui il giudice deve dare conto nella motivazione della sentenza (art. 546 c.p.p., comma 1, lett. c). 5.1. Il fatto impositivo che incide sull'entità dell'imposta evasa sottraendola all'ordinarietà (e dunque diminuendone l'entità) deve essere dimostrato direttamente dall'interessato, non potendo essere meramente e genericamente postulato. Il fatto che la cessione degli immobili è soggetta all'IVA agevolata del 4% quando l'immobile stesso è destinato a prima casa dall'acquirente è affermazione vera, ma generica e inidonea persino a rendere ragionevole il dubbio sull'entità dell'imposta evasa. 5.2. Il dubbio idoneo ad introdurre una ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è soltanto quello "ragionevole", ovvero quello che trova conforto nella logica, sicché, in caso di prospettazioni alternative, occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647 - 04; Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018, dep. 2019, Esposito, Rv. 275290 - 01; Sez. 4, n. 48541 del 19/06/2018, Castelli, Rv. 274358 - 01; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204 - 01; Sez. 4, n. 30862 del 17/06/2011, Giulianelli, Rv. 250903 - 01). 5.3. Nel caso di specie, la genericità delle deduzioni difensive si traduce nella irrazionalità del dubbio (genericamente) prospettato alla base di una impossibile lettura alternativa dei fatti. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. Così deciso in Roma, il 4 luglio 2023. Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2023
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