RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Napoli confermava la pronuncia di primo grado dell'8 luglio 2021 con la quale, all'esito di giudizio abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva condannato V.G. in relazione al reato di cui all'art. 81 c.p., art. 314 c.p., comma 1 e art. 61 c.p., n. 9, per essersi - in (Omissis), quale incaricato di pubblico servizio, addetto all'Ufficio incassi e servizi al contribuente di Equitalia Sud s.p.a. appropriato della somma complessiva di 47.158 Euro, denaro di cui aveva la disponibilità per ragioni del suo ufficio, effettuando 79 operazioni di compensazione di crediti con debiti, estinguendo debiti iscritti a ruolo gravanti su numerosi soggetti terzi beneficiari attraverso l'utilizzo di somme quali crediti di imposta spettanti ad altri ignari contribuenti, importi che erano stati così distratti a svantaggio dei secondi e a vantaggio dei primi.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il V., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p., 314 c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale valorizzato il criterio deduttivo nella verifica degli elementi di prova a disposizione, dato che, però, avrebbero consentito ricostruzioni alternative di quanto accaduto: tenuto conto che la password del V. di accesso al sistema informatico era utilizzata anche da un altro dipendente della Equitalia; e che l'imputato non era al lavoro in occasione dell'effettuazione di alcune operazioni oggetto di addebito.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 314 e 640 c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte distrettuale errato nella qualificazione giuridica dei fatti contestati, considerato che il V. non si era appropriato di beni o unità materiali, ma di crediti, ossia di valori immateriali: laddove l'operato era consistito nell'effettuazione di compensazione di crediti con debiti, attività che era stata realizzata con condotte fraudolente, riguardanti crediti vantati da singoli privati contribuenti nei riguardi dell'ente, dunque "beni" non di pertinenza di quest'ultimo né allo stesso appartenenti, oggetto di distrazione proprio sulla base di operazioni truffaldine.
2.3. Violazione di legge, in relazione all'art. 530 c.p.p. e art. 314 c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte di merito disatteso l'eccezione con la quale la difesa aveva negato che al V. potesse essere attribuita la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, benché il prevenuto fosse dipendente di una società privata e non si occupasse della riscossione di tributi.
2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62-bis, 133 e 133-bis c.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello rigettato le richieste difensive con riferimento al trattamento sanzionatorio, senza tenere conto che la `neutralizzazioné delle indicate operazioni di compensazione avevano attenuato la gravità dei fatti e che la pubblica amministrazione non aveva subito alcun danno dalla condotta attribuita all'imputato.
3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da numerose successive disposizioni, da ultimo dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, art. 94, comma 2, come introdotto dal D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, art. 5-duodecies, convertito dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di V.G. vada rigettato.
2. Il primo motivo del ricorso è inammissibile perché in parte manifestamente infondato e in parte presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
2.1. La doglianza difensiva riguardante la violazione di legge dedotta, in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p., nel primo e in parte anche nel terzo motivo del ricorso, non supera il vaglio preliminare di ammissibilità, in quanto è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che la violazione degli artt. 192,530 o 546 c.p.p., non comporta ex se la operatività di alcune delle sanzioni processuali previste dall'art. 606, comma 1, lett. c), mentre in presenza di censure che riguardano la ricostruzione del fatto e non anche una reale assenza della motivazione, le relative questioni refluiscono nell'esame dei prospettati vizi di motivazione (in questo senso, tra le tante, Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-04).
2.2. La sentenza impugnata ricostruisce in fatto la vicenda con motivazione esaustiva, immune da vizi logici e strettamente ancorata alle emergenze processuali: sicché può ritenersi definitivamente acclarata l'attribuibilità soggettiva all'odierno ricorrente delle operazioni di compensazione effettuate mediante accesso al sistema informatico della società Equitalia Sud, essendo stato accertato che non era affatto vero che nell'ufficio del V. vi fosse una prassi diffusa di scambio tra i dipendenti di password per l'accesso a quel sistema informatico; che solo in una circostanza il V. e il suo collega S. si erano scambiati le password; che l'odierno impugnante non aveva fornito alcuna giustificazione in ordine all'impiego della sua "chiave" di accesso, essendo risultato, invece, significativamente indiretto beneficiario di numerose di quelle condotte appropriative, eseguite per estinguere debiti verso l'erario maturati dalla di lei genitrice; e che in una sola delle settantanove vicende appropriative verificate era risultato che il V. non era formalmente presente in ufficio.
I rilievi formulati al riguardo dalla difesa del ricorrente si muovono nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all'iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nella quale, per altro, v'e' puntuale risposta a detti rilievi, in tutto sovrapponibili a quelli già sottoposti all'attenzione della Corte territoriale.
3. Il secondo motivo del ricorso è infondato.
3.1. Costituisce espressione di un consolidato orientamento interpretativo offerto dalla giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in tema di peculato, rientrano nella categoria dei beni mobili suscettibili di appropriazione da parte del pubblico agente anche i beni immateriali, a condizione che gli stessi abbiano un diretto ed intrinseco valore economicamente apprezzabile (come nel caso di dati contenuti in una banca dati informatica di contribuenti di un ente pubblico: così Sez. 6, n. 33031 del 09/05/2018, Froio, Rv. 273775), oppure laddove i beni immateriali siano espressivi di un importo di denaro o di altro bene mobile materiale avente un valore patrimoniale. In tale ottica è possibile senz'altro affermare che il peculato è integrato anche dalla condotta di appropriazione di un diritto, se lo stesso appartiene alla pubblica amministrazione ovvero se di esso la pubblica amministrazione ha la detenzione qualificata, dunque la disponibilità giuridica.
Di tale criterio ermeneutico la Corte di appello di Napoli ha fatto corretta applicazione, evidenziando come il V., agendo nell'ambito delle sue competenze di operatore unico addetto all'ufficio incassi e servizi della società Equitalia Sud, attraverso quelle operazioni di compensazione di crediti con debiti eseguite a livello informatico avesse realizzato una condotta appropriativa di diritti di credito di cui formalmente erano titolari una serie di contribuenti, ma dei quali la Equitalia Sud, in attesa di provvedere alla liquidazione dei relativi importi in favore degli interessati, aveva la disponibilità giuridica: crediti cui corrispondevano altrettanti valori monetari, dei quali il V. si era appropriato nel momento in cui li aveva utilizzati per compensare ed estinguere contabilmente i debiti maturati verso la pubblica amministrazione tanto da un suo familiare quanto da altri specifici contribuenti.
Ne' può fondatamente sostenersi che i crediti non fossero oggetto di appropriazione, ma al più di condotte distrattive poste in essere in maniera truffaldina dall'odierno ricorrente: in quanto è pacifico che l'eliminazione della parola "distrazione" dal reato di cui all'art. 314 c.p., operata dalla L. n. 86 del 1990, non ha determinato il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dal pubblico agente nell'area di rilevanza dell'abuso di ufficio, dato che integra comunque una forma di appropriazione, come inversione del titolo del possesso rilevante ai fini che qui interessano, l'attività di sottrazione di beni di cui la pubblica amministrazione ha la disponibilità per essere destinati al soddisfacimento di interessi privati propri dell'agente o di un terzo (in questo senso sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari, non mass.; e, più di recente, tra le tante, Sez. 6, n. 8818 del 13/11/2019, dep. 2020, Marandola, Rv. 278711; Sez. 6, n. 25258 del 04/06/2014, Cherchi, Rv. 260070).
In tale contesto risulta del tutto ininfluente che, nel caso di specie, le iniziative del V. fossero "a costo zero" per la pubblica amministrazione, considerato che i crediti da terzi vantati venivano utilizzati per estinguere debiti che altri contribuenti avevano verso la medesima amministrazione: avendo la Cassazione, al riguardo, chiarito che il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l'appropriazione della "res" da parte dell'agente, con un'operazione che, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, un danno patrimoniale alla pubblica amministrazione, è comunque lesiva dell'ulteriore interesse tutelato dall'art. 314 c.p. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (in questo senso Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190).
3.2. Sono prive di pregio le censure difensive in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti accertati.
La Corte di appello di Napoli ha fatto/buon governo della soluzione esegetica privilegiata dalla Corte di legittimità circa la differenza tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravato dall'abuso delle funzioni o violazione dei doveri inerenti a pubblico servizio: essendo stato reiteratamente evidenziato come l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 9, va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando - come nel caso di specie è accaduto - il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (così, tra le molte, Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282; Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273782; Sez. 6, n. 18177 del 03/03/2016, Saccone, Rv. 266985).
Deve pure escludersi che, nel caso di specie, la condotta dell'odierno ricorrente avesse integrato gli estremi del meno grave delitto di cui all'art. 640-ter c.p..
Al riguardo va ricordato che costituisce espressione di un consolidato orientamento esegetico il principio secondo cui l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di frode informatica aggravata ai danni dello Stato va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d'altra cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione. In particolare, è configurabile il peculato quando - come nella fattispecie si è accertato essere accaduto - il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio si appropri delle predette "res" avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragioni dell'ufficio o servizio; è configurabile la frode informatica quando il soggetto attivo si procuri il possesso delle predette "res" fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 21739 del 01/03/2018, Waldner, Rv. 272929; Sez. 2, n. 18909 del 10/04/2013, Torregrossa, Rv. 255551).
La questione, esaminata in questa sede di ufficio, è superabile in termini rispettosi delle appena esposte indicazioni offerte in materia dalla Corte regolatrice, alla luce degli incontestati risultati degli accertamenti in fatto compiuti dai giudici di merito.
I quali avevano chiarito come la condotta del V. dovesse essere considerata "indebita" perché avente ad oggetto ingiustificate ovvero "abusive" operazioni di compensazione di poste attive e passive, senza, però, che vi fosse stato alcun dubbio sul fatto che il prevenuto, responsabile dell'unità incassi e servizi al contribuente, munito di apposita "password" informatica personale (dunque, legittimato ad intervenire sulle "procedure di incasso delle somme pagate dai contribuenti"), potesse effettuare la "movimentazione di accredito e di addebito riferite a pensioni ed emolumenti di modico importo, per il sostentamento di spese familiari e personali" e, in tale veste, avesse "realizzato una interversio possessionis" di quei valori monetari. Era stato così verificato che il V. aveva compiuto "atti dispositivi" compatibili con le sue specifiche competenze e con le prassi dell'ufficio, e gli "artifici" contabili da lui impiegati, compatibili con le modalità di accesso informatico riconosciutegli dal ruolo - consistenti nell'attribuzione di "somme derivanti da crediti" verso l'amministrazione a soggetti diversi dai titolari dei relativi diritti, in assenza di "un rapporto giuridico sottostante" idoneo "a giustificare le (relative) operazioni" - non erano stati "funzionali al conseguimento" della disponibilità giuridica di quei valori monetari, che già aveva, ma alla sostanziale "distrazione" delle relative somme di denaro (v. pagg. 3 e 8 sent. impugn.).
4. Il terzo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Costituisce ius receputum nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione il principio - del quale i giudici di merito hanno fatto, nel caso di specie, corretta applicazione - secondo il quale rivestono la qualità di incaricato di un pubblico servizio il responsabile e gli addetti di una società privata incaricata della gestione del servizio di riscossione di tributi comunali, in considerazione della connotazione prettamente pubblicistica del servizio predetto, dovendosi considerare le somme di denaro ricevute nell'adempimento di quella funzione pubblica, come anche i correlati diritti di credito, beni entrati nella disponibilità della pubblica amministrazione (in questo senso, tra le diverse, Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127; Sez. 6, n. 45082 del 01/10/2015, Marrocco, Rv. 265342; Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008, Pizza, Rv. 240068).
5. Il quarto motivo è inammissibile per la genericità del suo contenuto.
Nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (così, tra le tante, Sez. 3, n. 5020 del 17/12/2009, Valentini, Rv. 245907).
Nel caso di specie il ricorrente si è limitato ad enunciare, in forma molto indeterminata, il dissenso rispetto alle valutazioni compiute dalla Corte territoriale, senza specificare gli aspetti di criticità di passaggi giustificativi della decisione, cioè omettendo di confrontarsi realmente con la motivazione della sentenza gravata: pronuncia con la quale era stato analiticamente spiegato come le richieste difensive finalizzate ad ottenere il riconoscimento delle attenuanti generiche e una riduzione della pena inflitta non potessero essere accolte in ragione della oggettiva gravità della condotta dell'imputato, idonea a incrinare la fiducia dei contribuenti negli organi preposti al compito di eseguire i prelievi fiscali, e della intensità del dolo evidenziata da un comportamento disinvolto e reiterato nel tempo.
6. Al rigetto del ricorso segue la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2023