RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 7 ottobre 2022, ha confermato quella pronunziata dal Tribunale di Rimini che ha dichiarato B.D., responsabile dei reati di peculato ex art. 314 e art. 61 c.p. n. 7 di cui ai capi A-B-C-D-E, unificati nel vincolo della continuazione, per essersi, in qualità di curatore del fallimento Puntoshop Petali s.p.a., appropriato di cospicue somme di denaro versate sul conto corrente a lui intestato, anziché su quello della procedura fallimentare, da vari debitori della medesima procedura, condannandolo, con le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, alla pena di anni due di reclusione (mesi 4 e giorni 15 per ciascuno dei reati sub A-B-C-D e mesi 6 per il reato sub E), in aumento sulla pena inflitta con la sentenza del 25 ottobre 2013 del Giudice per le indagini preliminari del del Tribunale di Rimini, divenuta irrevocabile il 17 dicembre 2015.
La Corte dava preliminarmente atto dell'acquisizione della prova certa e incontroversa della responsabilità, emergente dalla ricostruzione documentale e da testimonianze, oltre che dalle ammissioni di colpevolezza dello stesso imputato, il quale aveva riconosciuto di avere ingiustificatamente trattenuto per sé le somme ricevute dai debitori della procedura fallimentare. Quindi, in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti, disattendeva la tesi difensiva secondo cui sarebbe configurabile il meno grave delitto di truffa avendo l'imputato, nella veste di curatore del fallimento, chiesto alle parti di versare le somme dovute sul proprio conto personale anziché su quello intestato alla procedura, sul rilievo che l'atto dispositivo non era stato carpito dal pubblico ufficiale con artifici o raggiri.
La gravità e la serialità delle condotte appropriative, con il conseguimento di un ingente profitto, ostavano al riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti. L'aumento totale della pena di anni due di reclusione, ritenuto congruo per la reiterazione delle condotte illecite, fissato in continuazione rispetto a quella di anni 3 e mesi 4 di reclusione inflitta per l'analogo delitto già irrevocabilmente giudicato, non superava il limite del triplo di cui all'art. 81 c.p..
2. Il difensore di B., ha presentato ricorso per cassazione avverso la citata sentenza e ne ha chiesto l'annullamento, denunziando la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento:
- alla erronea qualificazione dei fatti come peculato anziché truffa aggravata, avendo egli sollecitato i debitori, raggirandoli, a versare le somme dovute alla curatela, titolare di meri "diritti di credito", sul conto corrente personale;
- all'ingiustificato diniego della prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti;
- ai criteri di determinazione della pena in aumento per la continuazione, sia interna che esterna.
Successivamente, in data (Omissis), il difensore ha depositato conclusioni scritte con le quali ribadisce i motivi di ricorso, con particolare I riferimento al primo, in relazione al quale confuta le valutazioni contenute nella requisitoria scritta del P.G. e insiste per l'accoglimento del gravame.
3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso sono per un verso ripetitivi delle doglianze già esposte e motivatamente disattese dalla Corte di appello e per altro verso manifestamente infondati.
2. Ferma restando l'incontroversa responsabilità dell'imputato in merito ai fatti contestati, le censure, variamente articolate ma strettamente connesse, in merito all'affermata configurabilità della fattispecie di peculato - anziché di quella di truffa aggravata - appaiono prive di pregio.
E' privo di consistenza il rilievo difensivo in base al quale il curatore fallimentare aveva segnalato ai debitori, per il versamento delle somme dovute per i crediti del fallimento, il conto corrente personale e non quello della procedura. Tale indubbia illegittimità ha assunto i caratteri dell'illiceità nel momento in cui l'imputato, venendo meno ai propri doveri pubblicistici, ha disposto delle somme come cosa propria, mentre, nella veste di curatore, aveva l'obbligo di custodire, in virtù delle funzioni esercitate e della loro indisponibilità, le somme ricevute dando impulso alle operazioni successive, per fare sì che la procedura fosse compiutamente e correttamente definita.
Ne consegue che l'appropriazione di tali somme, di cui il pubblico ufficiale ha avuto comunque la disponibilità per ragione dell'ufficio pubblico ricoperto, integra il reato di peculato.
Risulta invero indiscussa la linea interpretativa tracciata in ordine all'elemento distintivo tra i delitti di peculato e di truffa aggravata ex art. 61 c.p., e n. art. 95 che risiede nelle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. Ricorre la prima figura quando l'agente si appropri di quanto già sia nella sua disponibilità, materiale o giuridica, per ragione del suo ufficio o servizio; deve ravvisarsi, invece, la truffa aggravata qualora l'agente, non avendo tale disponibilità, se la procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri. E, secondo giurisprudenza consolidata in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell'ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto comunque di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 19260 del 06/04/2022, Garibotti; Sez. 6, n. 18485 del 15/01/2020, Cannata, Rv. 279302).
Di talché, quando una prestazione di denaro sia dovuta in favore della pubblica amministrazione, le modalità della relativa consegna, quantunque diverse da quelle previste o consentite dalla normativa di riferimento o dagli assetti organizzativi dell'ufficio, e benché suggerite dal pubblico agente infedele, non incidono sulla legittimità dell'acquisizione del denaro al patrimonio dell'ente pubblico ai fini della configurabilità del delitto di peculato. Sicché, se costui, dopo averle comunque ricevute in ragione della sua funzione istituzionale, se ne appropri, commette il reato di peculato e non quello di truffa aggravata (Sez. 6, n. 26081 del 28/04/2004, Torregrossa, Rv. 229743; Sez. 6, n. 12306 del 26/02/2008, Salzano, Rv. 239212; Sez. 6, n. 4668 del 14/01/2010, Micciché, Rv. 245856; Sez. 6, n. 18015 del 24/02/2015, Ambrosio, Rv. 263278).
Principio giurisprudenziale, questo, che ha trovato peraltro puntuale e specifica conferma con riguardo alla figura del curatore fallimentare quanto alla differenza tra la ipotesi di peculato, di cui all'art. 314 c.p., e quella di omessa consegna o deposito di cose del fallimento, di cui alla L. Fall., art. 230, (Sez. 6, n. 4472 del 03/02/2000, Biasizzo, Rv. 220516; Sez. 6, n. 41094 del 18/09/2013, Albanese, Rv. 256682; Sez. 6, n. 18031 del 30/03/2022, Peluso, Rv. 283156).
3. Affatto generica e priva di consistenza appare la censura relativa al diniego di applicazione delle attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti. Il giudizio di mera equivalenza è stato invero giustificato da entrambi i giudici di primo e secondo grado con riferimento alla gravità e alla serialità delle condotte appropriative mirate al conseguimento di ingenti profitti. Orbene, trattasi di apprezzamento di merito come tale insindacabile in sede di scrutinio di legittimità della sentenza impugnata.
Come pure appare manifestamente infondato il motivo di ricorso attinente alla quantificazione della pena determinata in aumento per la continuazione sia interna che esterna. Da un lato, l'aumento complessivo di anni due di reclusione (nella misura di mesi 4 e giorni 15 per ciascuno dei reati sub A-B-C-D e di mesi 6 per il reato sub E) è stato ritenuto dalla Corte territoriale adeguato alla gravità e reiterazione delle condotte criminose, alla stregua di una valutazione di merito logicamente congrua e insindacabile. Dall'altro lato, detto aumento è stato fissato in continuazione rispetto alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione inflitta per l'analogo delitto di peculato già irrevocabilmente giudicato dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini con sentenza del (Omissis), perciò in misura tale da non superare affatto il limite del triplo di cui all'art. 81 c.p., comma 1.
4. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma ritenuta equa - di tremila Euro alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2023